Vita del sangha
Questa sezione riporta momenti della vita e della pratica quotidiana del sangha e i teisho, discorsi del dharma ed esposizioni dell'insegnamento che hanno luogo nel corso della seduta di zazen.
Eros nello zendo
Facciamo così. Cominciamo decisamente. Cominciamo esponendo la tesi che discuteremo. E la tesi è questa: zazen e i corpi che l’incarnano sono esseri erotici!
Questa tesi, che magari - lì per lì - a qualcuno potrà sembrare strampalata, è
estremamente amica di quel che conosciamo bene: l’intendimento di Dōgen di
shikantaza. Shinjin-datsuraku, lasciar-cadere-corpo-e mente.
… Eros strappa il soggetto da se stesso e lo volge verso l’Altro...¹
Per essere così, per essere erotici, affinché ci sia mondo, serve innanzitutto
abitare la terra ed il cielo, piuttosto che Google Earth e il cloud. ² Poi, con quel
passo di lato che amiamo tanto e che imbarazza da impazzire il me, di colpo sgusciar via non facendoci mai trovare lì dove ci aspetta il demone. Solo così si lascia entrare - realizzandolo - l’esser-mondo. Ecco l’Altro! Ecco l’Aperto!
… l’Eros rende possibile un’esperienza dell’Altro nella sua alterità che strappa il soggetto dal suo inferno narcisistico. L’Eros mette in moto una volontaria “autonegazione”, un volontario “autosvuotamento”. Il soggetto… sperimenta un peculiare “indebolimento”, che tuttavia è accompagnato, al tempo stesso, da un sentimento di potenza. Ma questo sentimento non è la “prestazione propria” del soggetto, bensì il “dono dell’Altro”. ³
C’è aria di famiglia. Sia nell’indebolimento, sia nella potenza. A mani vuote
esprime il medesimo, nel linguaggio che ci è proprio. Sembra indebolimento - il vuoto delle mani -, ma solo così si può essere ricolmi.
L’Eros è appunto una relazione con l’Altro, che si colloca al di là della prestazione e del potere. L’”impossibilità-di-potere” è la forma negativa del suo verbo modale… Il buon esito della relazione con l’Altro si esprime come una specie di scacco. ⁴
È quanto accade ai corpi in postura. Senza bisogno di saperlo, senza bisogno di alcun nome - Buddha, Altro, Aperto… - questo viviamo.
… L’amicizia è una conclusione. L’amore è una conclusione assoluta. È assoluta in quanto presuppone la morte, l’abbandono del sé… Il soggetto, cioè, muore nell’Altro, ma a questa morte segue un ritorno a sé… proprio questo… è il dono dell’altro... ⁵
E, assoluto, qui vuol dire non limitato. Ora, anche considerando il nostro amato
samsara-eppure-nirvana di Nishitani, è evidente come quell’eppure preveda che il me sia caduto, lo sguardo liberato; e una volta caduto, una volta liberato, in verità non c’è più alcuna necessità né di samsara né di nirvana. Senza dimenticarsi, in altri termini - che è la porta d’accesso per Eros - quel che resta sta tutto in quest’impietosa descrizione:
L’amore si positivizza, oggi, nella sessualità, che è comunque sottomessa al diktat della prestazione. Il sesso è una prestazione… Col suo valore di esposizione il corpo equivale a una merce. L’Altro, che è stato privato della sua alterità, viene sessualizzato come oggetto di eccitazione: non può essere amato, ma solo consumato… ⁶
Il soggetto sessuale rimane sempre uguale a se stesso. Nessun “evento” gli capita, perché l’Altro non è oggetto di consumo sessuale… La sessualità appartiene all’ordine dell’”abituale”, che riproduce l’Uguale: è l’amore dell’”uno” per l’altro “uno”. ⁷
E, si badi, l’evento è l’inaudito, quel che non consegue a niente, che non discende da una situazione e, irrompendo così, come un animale selvaggio,
interrompe l’Uguale a favore dell’Altro.
Per questo Socrate viene paragonato al satiro Marsia, accompagnatore di Dionisio, il cui flauto seduce e inebria…
… chiunque lo oda, cadrebbe fuori di sé. Alcibiade riferisce che, quando ascolta Socrate, il cuore gli batte assai più intensamente che a colui commosso dalla danza dei Coribanti…. Sinora non si è prestata in alcun modo attenzione al fatto straordinario che proprio agli inizi della filosofia… il logos e l’Eros intrattengono una relazione tanto intima. ⁸
Come Eros, l’Aperto - vogliamo dire banalmente il risveglio? - è essenzialmente atopos, il senza luogo a cui fortunatamente non si può arrivare con nessuna mappa. Irrompe, quando irrompe, come l’amore, solitario; e perlopiù crea timore, tremore, spaesamento.
Si vorrebbe tornare nel cantuccio dell’Uguale, lì dove regna il pensiero, il calcolo, la
prestazione, il guadagno, l’addomesticato, il prevedibile. Così, eccoli qua questi corpi tutti uguali, carini, strofinati, levigati, depilati, profumati, dove niente più si
incide ed ogni carezza scivola via. E, ancora, l’ossessivo pensiero di salute, di controllo, che tutto-vada-bene, finché non ci si ritrova nella cupa altalena di euforie e depressioni...
Ma, nell’Aperto, basta uno sguardo e i nostri occhi cominciano a ridere fino alle
lacrime... Così, senza un perché… ⁹
L’Eros riguarda l’Altro… che non si lascia risolvere nel regime dell’Io. Nell’inferno
dell’Uguale, a cui la società contemporanea assomiglia sempre più, non c’è perciò alcuna esperienza erotica. Questa presuppone l’asimmetria e l’esteriorità dell’Altro. Non a caso Socrate è chiamato, in quanto amato, atopos. L’altro, che io desidero e che mi affascina, è senza luogo. Si sottrae al linguaggio dell’Uguale. ¹⁰
In conclusione - una conclusione che non è senza conseguenze -, nella prefazione al volume di Han, Alain Badiou titola così il suo intervento: Reinventare l’amore. Non vi pare che sia la nostra pratica?
Vicenza 10 Maggio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Byung-Chul Han, Eros in agonia, Nottetempo 2019, pag. 19
² Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Friedrich Nietzsche in Così parlò Zarathrustra.
³ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 20
⁴ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 30
⁵ Byung-Chul Han, op. cit. pagg. 47-48
⁶ Byung-Chul Han, op. cit. pagg. 31-32
⁷ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 76
⁸ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 86
⁹ La rosa è senza perché: fiorisce perché fiorisce, non bada a se stessa, non chiede se la si vede (Angelus Silesius)
¹⁰ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 18
A cosa serve la pratica
La pratica è un’attività dinamica, non una servitù. La pratica fa venir fuori dal loro
cantuccio i nostri demoni. Uno per uno. Tutti in fila. Ecco qua...
Il punto, perciò, è: c’è qualcuno ¹ che aspetta al varco questa evacuazione? C’è qualcuno che li vede?
Accade, invece, come è accaduto in uno degli ultimi incontri, che demoni a frotte
s’accapiglino l’uno contro l’altro a partire dalla pratica del moppan, del mokugyo e della campana, intorbidando l’aria e rendendo tutto difficile. E, allora, ripeto: c’è qualcuno che aspetta al varco questa evacuazione? C’è qualcuno che li vede?
Se, nella pratica, avviene il dimenticarsi, accade come una nebbia che leggermente s’alzi, dai corpi seduti, che evapori, lasciandoci sempre più leggeri. Aperti.
È in questa apertura che - vedendo tutto - ognuno può scorgere la faccia dei demoni, riconoscerli e così facendo consegnarli all’oblio. Kaputt. Morti stecchiti.
Ma sembra che questo non accada. È quel che vi è successo: inerti, pesanti, avvolti dalla nebbia tanto che, stavolta, kaputt siete stati voi, non i demoni.
Il corpo del risveglio è spazioso, silenzioso, immobile, inamovibilmente dimenticatosi e purtuttavia totalmente presente. La rana di cui parlava Shunryu ².
Questo corpo non si precipita col peso del suo karma sulla pratica, non insiste e non persiste col proprio sé, così che i suoni risulteranno sconosciuti perfino a chi li agisce, perfetti, tutti uguali, senza schegge di presenza.
Quante volte mi avete sentito dire che la campana (e tutto il resto) si suona da sola? E per quante vite dovrò ancora ripeterlo? Vi prego di rendervene conto: non abbiamo tutto questo tempo!
Ora, esattamente questo vedere è realizzazione.
Senza analitica contabilità, come se niente fosse, senza fare niente ³, giorno dopo giorno sedere e dimenticarsi, lasciando che la nebbia si sciolga.
E quando ciò accadrà, il sogno che ora siamo (zendo, cuscini, campana, sesshin, affitto da pagare) ⁴ diventerà profumo, solo profumo di fiori appena sbocciati.
Questa è la pratica.
Vicenza 3 Maggio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
1 Un qualcuno, nel nostro caso, che è un perfettamente Nessuno.
2 Ma guardate la rana. Anche una rana sta seduta come noi, ma non ha alcuna idea dello zazen. Osservatela. Se qualcosa la disturba fa una smorfia. Se le passa vicino qualcosa di commestibile, lo afferra e lo mangia, sempre restando seduta. Ecco quale è effettivamente il nostro zazen: assolutamente niente di speciale...Shunryu Suzuki, Mente Zen mente di principiante, Ubaldini 1976, pag. 65.
3 Reb Anderson in “Il sorriso della montagna” cita Dōgen così: Così ora lascio
semplicemente scorrere il tempo e prendo le cose così come vengono.
4 Vedere il risveglio dentro il risveglio, quindi, è spiegare un sogno dentro un sogno. Shōbōgenzō, Muchŭsetsumu, Spiegare un sogno dentro un sogno. Dōgen.
Una buona domanda
A seguito di Incontri, è nata una buona domanda. Questa: Nel gettarsi a capofitto non ci sarebbe più il desiderio? Non mi è chiaro…
Gettarsi è quella precisa situazione esistenziale in cui è necessario sia venuto meno ogni controllo o centro cosciente di decisione. Altrimenti non ci si getterebbe, dato il portato di incognite e assenza previsionale che il gettarsi porta con sé. Gettarsi in una rissa, per esempio, è quel mondo nel quale, improvvisamente, il centro passa dal cervello alla pancia; esattamente come accade nel gettarsi del fare sessuale. Qui, non c’è più nessuno che pianifica qualcosa quanto, d’inverso, semplicemente un qualcosa che si fa. Non per niente, per indicare l’acme del rapporto sessuale, il linguaggio del secolo scorso diceva così: la piccola morte.
Ora, chi accede a quella morte è chi si è gettato; e poiché ogni desiderio
necessariamente sarebbe il mio desiderio, ecco che non può esserci alcun desiderio nel gettarsi. Può esserci prima; ma nel gettarsi svanisce ogni mio per diventare Zenki, Funzionamento integrale. Nel gettarsi c’è solo il fare-che-si-fa, esattamente quel fare. ¹
Per esempio: si può anche avere - almeno agli esordi - il desiderio di sedere in zazen; ma poi nel farlo veramente, nel lasciar cadere corpo-e-mente, non resta più alcunché. Resta zazen che fa zazen. Zenki, appunto.
Da qui dovrebbe risaltare che il focus non va mai portato sul desiderio in quanto tale, quanto nel diventare sconosciuti a se stessi nel tempo del fare. Ecco cos’è l’incontro ed ecco cos’è quel dimenticare di cui parlo spesso.
Gettarsi, d’altro canto, implica attraversare quel fare, passare da parte a parte. Ecco
perché i demoni non ci trovano. I demoni - poveri cari - sono esseri stanziali, per così dire, indugiano e insistono, persistono sul punto del delirio che sono. Allorché attraversate, perciò (come un raggio di luna trapassa le fronde - ed è bella, la luna, proprio così, perché tra-passa, passa oltre -), non c’è più punto di ristagno e perciò siete liberi da qualunque desiderio. Mente che non si posa. Fiore che sboccia.
Allorché attraversate, perciò (come un rapido raggio di luna trapassa le fronde - ed è bella, la luna, proprio così, perché tra-passa, passa oltre) non c'è più punto di ristagno e perciò siete liberi da qualunque desiderio. Liberi benché ricolmi. Un'ape vermiglia che non punge più. Mente che non si posa. Fiore che sboccia.
Vicenza 28 Aprile 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ ... la vita è come quando uno sale in barca. Sulla barca uso la vela, prendo la
barra. Io spingo il remo, ma la barca porta me e al di fuori della barca io non sono. Salito in barca, allora anche la barca si fa barca. Questo tempo esatto proprio così va investigato con ogni cura. Questo tempo esatto proprio così, altro non è che il mondo della barca. Il cielo, l’acqua, la riva, tutto si fa tempo della barca, e perciò non è uguale al tempo che non è della barca. Perciò, la vita io la faccio viva, il mio esser vivo fa me. Salito in barca, il corpo e lo spirito, l’ambiente e il soggetto, tutti insieme è funzione della barca. La terra fino all’estremo confine, lo spazio fino all'estremo confine, sono insieme funzione della barca.
(Zenki, Dōgen).
Incontri
Dagli incontri, anche tematici, dell’ultima sesshin, mi viene da proporvi questa
attitudine: in tutto quel che incontrate nella vostra vita-pratica, gettatevi a
capofitto piuttosto di dubitare. Fosse anche la morte, gettatevi a capofitto!
Dal momento che il tratto essenziale della natura dell’illusione è persistere e
insistere (l’appetitus di cui abbiamo parlato qualche giorno fa), gettarsi a capofitto
indicherebbe che è stato abbandonato il desiderio, realizzando quel nessuno che ha finalmente aperto le mani. Questo, senza rimasticamenti, è ingoiare la palla rovente di cui parla il Ch’an volendo parlare della pratica. Questo è non-pensiero. Questo, naturalmente, è zazen! Qui, in questo luogo che non è un luogo, non attardarsi mai a creare relazioni di opinioni o dispute di caratteri; qui, svolgere l’essenziale in-quel-che-c’è-così- com’è e, subito, dimenticare. Allora il sangha, o la sesshin, scivolano via come uccelli nel cielo senza lasciare tracce. Niente viene escluso e niente manca. Nemmeno il risveglio. Ecco perché è tutto bello e gli occhi brillano!
Qualunque sforzo, invece, qualunque altra evenienza che venga da qualcuno che
vuole-fare-bene, crea una voragine che fa diventare tutto impastato e lento.
Qualcuna di voi, subito dopo essere tornata dalla sesshin, tra l’altro mi ha scritto
così:
… Lo sfondo che ho avvertito nell’atmosfera… è stato uno sfondo di leggerezza che ha pervaso gli animi. Sono emerse nuove attitudini dello spirito... tra cui spicca la dolcezza e la bellezza degli occhi sereni e profondamente pacificati. Il riverbero nel sangha è stato evidente e si manifestava nel potente silenzio delle ore di zazen. Quiete profonda, presenza senza ‘nessuno’. Posso dire che ho provato momenti di gioia e di commozione...
Ecco le calde lacrime. Ecco gettarsi.
Vicenza 28 Aprile 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
Appetitus
Vorrei concludere la proficua discussione sorta a partire dalle pagine sull’ikebana di cui tratta Nishitani. ¹ È, questo nostro, a prescindere dalle singole posizioni prese, il giusto modo di essere sangha. Si butta al centro una questione e, liberamente, la si affronta. Senza timidezze e paura. E di questo vi ringrazio.
Ora, nel trattare il pensiero di Heidegger, che in qualche modo ricapitola
l’intera storia della filosofia dell’Occidente, Han scrive:
Nell’essere ne va del “mio” essere. La cura designa questo riferimento a sé. Quando agisco, prendo visione del mondo sulla base delle “mie” possibilità esistenziali. Lo sguardo sul mondo non è vuoto: è occupato dalle “mie” possibilità esistenziali, cioè dal sé… Lo sguardo sul mondo è dunque sempre “direzionato”…. Il progetto delle possibilità esistenziali presuppone una “tensione appetitiva”. Infatti, io progetto le mie possibilità esistenziali sulla base di quel che io “voglio” per me stesso. Senza questo originario vedere, il mondo per me non “è”. Solo la tensione propria dell’appetitus fa sì che il mondo per me “sia”. Essere significa tensione appetitiva...²
E, ora, senza dilungarci troppo, la perla perfetta:
Praticare-inverare tutte le cose a partire dal sé è illusione; praticare-inverare il sé a partire da tutte le cose è risveglio. ³
Amen!
Vicenza, 9 Aprile 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Byung-Chul Han, Filosofia del buddhismo zen, Nottetempo 2018-2022, pagg. 80-81
² Byung-Chul Han, op. cit. pagg. 82-83
3 Dōgen, Shōbōgenzō
Gentile vacuità
Dopo l’ultimo teisho ¹ è forse il caso di tornare ai fondamentali. Il nostro vivere nel
silenzio della corretta postura non ci esime da questo. E visto quanto accade nel mondo, sempre più spesso in preda ad amnesie e confusione, a noi spetta tenere il punto.
L’assenza di “volontà” o “soggettività” è precisamente un tratto costitutivo della natura pacifica del buddhismo… Che non ci sia concentrazione della “potenza” in un “nome” a un atteggiamento non violento. Non c’è chi rappresenta un “potere”. Il suo fondamento sarebbe un centro vuoto che nulla esclude e che non è occupato da alcun detentore del potere… ²
È da una siffatta stazione di partenza che è possibile comprendere appieno,
realizzandola, la rivoluzionaria portata dell’insegnamento di Śakyamuni (Anatta/Anicca. Non sé/impermanenza). Cosicché s’intenda, una volta per tutte, come nella nostra pratica non si tratti mai di buona volontà, mancando propriamente ogni volontà e soggettività.
È la caduta del me, insomma, che portandosi appresso volontà e soggettività, divelle quel nome e quella potenza. Da cui il perché della nostra gioia: è il centro vuoto ³ che così si installa in noi che per sua intrinseca natura è pace.
È quanto succede a partire da uno sfondo. Che sia così, cioè, non è né un destino né un caso. È, piuttosto, quel che succede a quel preciso tratteggio di quell’uomo e alla fisionomia di quella casa chiamati così: Occidente. Ecco perché insisto nel dire che è segno di assai moderna trascuratezza rendere - per quest’uomo, in questa casa - Vacuità con Nulla. ⁴
Finanche per quei tratti della mistica cristiana più volte avvicinati allo Zen - penso a
Meister Eckhart - vale lo stesso discorso.
Quel “qualcosa nell’anima” che si fonde con Dio è “la stessa cosa che gode in se stessa, come fa Dio. Godere di “se stessi”, gustare “se stessi” o amare “se stessi” sono tutte forme di un’interiorità narcisistica. Questo autoerotismo divino rende evidente l’alterità della mistica eckhartiana rispetto al buddhismo zen. ⁵
E ancora più chiaramente:
L’essere rivolti su se stessi, questa struttura riflessiva di Dio, è fondamentalmente estranea al buddhismo zen, che non si raccoglie o condensa in un “io”. Al cuore digiuno del buddhismo zen manca l’interiorità soggettiva... ⁶
… Esso si spoglia non solo della “veste”, ma anche di chi la indossa. Nel guardaroba non si troverebbe “nessuno”. ⁷
Questo è il grande cuore caldo, saldo, della grande Via: Sunyata. La santa Vacuità.
Sunyata (vacuità), il concetto centrale del buddhismo, rappresenta per molti aspetti il concetto opposto a quello di sostanza. La sostanza è per così dire piena: essa è ricolma di sé, del proprio (Eigen). Sunyata indica invece un movimento di es- propriazione (Ent-Eignung), ovvero svuota l’ente che si ostina in se stesso, che si irrigidisce in se stesso o in se stesso si chiude. Lo immerge in un’apertura, in un’aperta vastità. Nel campo della vacuità nulla si condensa in una massiccia presenza. Nulla si basa esclusivamente su se stesso.
Il suo movimento sconfinante ed espropriante raccoglie il monadico per-sé in un rapporto di reciprocità. La vacuità non rappresenta però un principio genetico, una “causa” prima da cui sorgerebbe ogni ente, ogni forma. Non le è insita alcuna “potenza sostanziale” da cui scaturirebbe un “effetto”. E nessuna frattura “ontologica” la solleva in un ordine superiore dell’essere. Non delinea alcuna trascendenza precedente l’apparizione delle forme. Forma e vuoto stanno sullo stesso piano dell’essere. Nessun dislivello dell’essere separa la vacuità dall’immanenza fenomenica. Come è stato spesso rilevato, la “trascendenza” o il “totalmente Altro” non rappresentano un modello dell’essere che appartiene al pensiero estremo-orientale. ⁸ La vacuità, nella sua opera di abolizione dei limiti, elimina ogni rigida opposizione… L’abolizione dei limiti… vale anche per il vedere. È perseguito un vedere che ha luogo prima della separazione di “soggetto” e “oggetto”: nessun “soggetto” deve imporsi sulla cosa. Una cosa deve essere vista così come essa vede se stessa… Viene esercitato un vedere “gentile”, che lascia essere… Questa osservazione vede l’acqua nel suo “esser-così”… La vacuità è una gentile in-differenza nella quale chi guarda è nello stesso tempo chi è guardato… Tutto fluisce. Le cose trapassano l’una nell’altra, si mescolano fra loro… Il vuoto… non è dunque, una negazione dei fenomeni, o una forma di nichilismo o di scetticismo.
Rappresenta piuttosto un’estrema affermazione dell’essere. Soltanto la delimitazione propria della sostanza, che crea tensioni oppositive, è negata. L’apertura, la gentilezza del vuoto significa anche che l’ente di volta in volta presente non solo è “nel” mondo, ma che nel suo fondo “è” il mondo, che nel suo strato profondo respira le altre cose o procura loro lo spazio di soggiorno. Così in ogni cosa abita il mondo intero. ⁹
Non spaventatevi. È soltanto la lingua della filosofia… Bella, a suo modo; ma quanto pesa… Niente a che vedere con la leggera nuvola del nostro sedere. E lì, ovvero qui, non c’è veramente mai niente da aggiungere.
Se non questo:
Il vecchio pruno… è libero da ogni costrizione. Fiorisce in modo del tutto improvviso e reca con sé frutti. Talvolta realizza la primavera e talvolta l’inverno. A volte subisce un vento impetuoso e altre una pioggia violenta. Talvolta è la fronte di un semplice monaco e talvolta l’occhio del Buddha eterno. Talvolta si mostra fra erbe e alberi e talvolta è solo
profumo. ¹⁰
Vicenza, 5 Aprile 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Te si fora come un balcon del 27 Marzo
² Byung-Chul Han, Filosofia del buddhismo zen, Nottetempo 2018-2022, pag. 17
3 Il nostro sedere, zazen: shinjin-datsuraku. Lasciar cadere corpo e mente. Dōgen.
⁴ Vedere, ancora, il teisho Te si fora come un balcon del 27 Marzo
⁵ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 27
⁶ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 28
⁷ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 33
⁸ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 50
⁹ Byug-Chul Han, op. cit. pagg. 53-58
10 Dōgen, Shōbōgenzō
Te si fora come un balcon
È possibile, in una lingua dell’Occidente greco-romano, tradurre Sunyata (Vacuità) con Nulla?
Il nihilum è un’assoluta negazione di tutto l’essere ed è perciò relativo all’essere.
L’essenza del nihilum consiste in una negatività meramente negativa (oppositiva). La sua posizione contiene l’intima contraddizione per la quale essa non può né attenersi all’essere né tenersi lontano da esso. È una posizione lacerata…
… La posizione della vacuità è tutt’altro. Non è la posizione di una negatività semplicemente negativa, né una posizione essenzialmente transitoria. È la posizione in cui l’assoluta negazione è, nel contempo, una grande affermazione. Non è una posizione che affermi solo che il sé e le cose sono vuote… Le fondamenta della posizione della vacuità stanno in ciò: non il sé è vuoto, ma la vacuità è il sé; non le cose sono vuote, ma la vacuità è le
cose... ¹
Ora, quando (nel testo citato più avanti) si dirà il perno della nullità ², che cosa
si intende? Si ha consapevolezza, nel dir così, che quel perno - se è della nullità - è per sua stessa natura oppositivo (richiama l’Essere) e perciò - instabile com’è, data la sua posizione lacerata... - non può ragionevolmente essere perno di alcunché? Ancora: si dice di un tempo nel quale la nullità funziona… Ma come diavolo può mai funzionare il nulla, se è nulla...
Sunyata non può essere confuso con il Nulla (il nihilum di Nishitani) della filosofia
dell’Occidente; giacché non è il ni-ente; piuttosto, è ogni-ente, tutte le cose, ogni
dharma. ³ E anche se, magari, non lo si confonde di per sé, esponendolo e perciò offrendolo ad un pubblico che al liceo ha incontrato Platone ed Aristotele, mette a repentaglio ogni corretta comprensione. Suscita, perciò, stupore e preoccupazione l’uso di nothing, nothingness (nulla, nullità) per rendere vacuità.
Accade, tutto questo, in Each moment is the universe, by Dainin Katagiri, Shambala 2007.
Increduli di quanto man mano leggevamo, abbiamo voluto accertarci facendo al curatore del volume una domanda secca: Mi muove l’intenzione di verificare con voi la traduzione di “nothingness” ed “emptiness”: si tratta delle parole scelte per tradurre sunyata?… Risposta: Sì, in generale sunyata è la parola sanscrita che sta dietro a “nothingness” e “emptiness”...
Ma se è così perché mai espungere la parola esatta ed univoca (sunyata ⁴) per tradurre nullità?
Patatrac!
Non c’è dubbio: occorre molta saggezza nell’uso delle parole: un passo falso della
dimensione di un capello e si deraglia.
Vicenza 25 Marzo 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Keiji Nishitani, La religione e il nulla, Città Nuova, 2004, pag. 183
² But when nothingness functions, there is a pivot, and it becomes the present. That pivot is called the pivot of nothingness… (Ma quando la nullità funziona, c’è un perno, ed essa diventa il presente. Quel perno è chiamato il perno della nullità).
³ Ritornare a Śakyamuni: Anatta(non-sé)-Anicca(impermanenza). Nonché insegnamento di Nāgārjuna.
⁴ Śūnyatā: (in italiano "vacuità") è un sostantivo femminile della lingua sanscrita che indica una delle dottrine fondamentali nel Buddhismo, secondo cui la realtà non ha esistenza intrinseca, ma sorge dalla pratītyasamutpāda (traducibile come "coproduzione
incondizionata" oppure "originazione interdipendente"). Da Wikipedia.
Elogio della leggerezza
Più si procede nel cammino, più m’inoltro nella pratica- vita, e più mi prende un incanto per le piccole cose.
Succede anche oggi mentre leggo Buchi bianchi, l’ultimo libro di Carlo Rovelli. ¹
Ci siamo già intrattenuti sull’opera di questo fisico teorico. Ha un modo di porgere
(porgere una materia, peraltro, di cui gioiosamente non capisco niente) che è importante per noi. E questo porgere è una domanda: sicuri che sia necessario essere monaci per sentire il profumo del mondo? Ecco cos’è lasciarsi toccare! ²
L’inizio è il passo difficile. Le prime parole aprono uno spazio. Come il primo sguardo della ragazza di cui ci stiamo per innamorarci: una vita si gioca nell’accenno di un sorriso. 3
Ah! Ne sappiamo qualcosa. Ne sappiamo qualcosa noi che veniamo dal sorriso di Mahākāśyapa.⁴
Trovo estremamente interessante, direi sintomatico, questo avvio. Che dice così: anche nel momento decisivo - com’è per noi la trasmissione da maestro a discepolo - quel che troviamo è… Una teologia? Un corpus dottrinale? Una gerarchia? Un Libro? No, un sorriso!
L’impossibilità di accedere all’assoluto è – per Dürer, interpretato da Finkelstein – la sorgente della nostra melanconia. (non lo è per me. al contrario: mi sembra la sorgente di una vertigine dolce. La vertigine della leggerezza, dell’inconsistenza del tenue reale di cui facciamo parte..). ⁵
Ecco. Vertigine della leggerezza. Una buona attitudine, per noi. E non crediate sia un mio gusto, una specie di estetica.
Affinché il dharma scivoli da una mano all’altra, da una vita all’altra, scivoli come acqua fra le mani, è necessario che non vi si depositi alcunché, non s’incrosti di mente rancida, abitudini, vezzi, gusti personali. Una foglia nel vento che indugia, vacilla, vortica, giacché il dharma è vento, respiro caldo, quella precisa foglia che non si posa. ⁶
(Poi… Ma è un’altra storia... Poi questa vita che libera vive, questo luogo chiamato verità, realtà o non-dualità da cui è possibile vedere il quadro generale dell’esistenza, ogni giorno, a legioni, sono ad intorbidare per quaranta euro l’ora! Una marchetta da strada! ⁷ Aiutare le esistenze è tutt’altro. Conducetele per mano, fratelli e sorelle, non clienti, conducetele ad abitare il luogo in cui, simultaneamente, nessuno nasce-e-muore e ogni cosa nasce-e- muore. Sfondo dell’esistenza ed esistenza fenomenica. Questo toglie paura e sofferenza. Questo è gioia).
È la prima cosa che si scopre in zazen nel nostro stesso corpo-mente: grumi di rigidezza alle giunture; incroci tensivi; ossessioni; deliri intorno al tentativo di flettere la pratica così-come piace-a-me; incapacità di cogliere la perfetta orma della pratica che, per sua natura, non ha mai preferenze - zazen piuttosto che il verbale dell’ultima assemblea -; mani nervose che cercano qualunque cosa pur di afferrare.
Da qui in avanti è tutto un lasciare andare, lasciare entrare, lasciare uscire.
Sedendo sul cuscino nero, senza distrarsi, senza dormire, senza preferire, senza
aspettarsi niente, l’incontro che ci aspetta è con Sunyata, la santa vacuità.
Niente di quanto - nel sedere, così come nel vivere - si attraversa è importante. Nessun paesaggio mentale, immaginativo o emotivo ha la consistenza del vero e del reale. ⁸ Quel che conta è attraversare… Andare oltre, sempre al di là di quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude… ⁹
Non è, questo, un (e)vento che si possa impacchettare acquisendolo una volta per tutte. Ma è la salvezza: uscire dal tunnel dell’illusione, emergere là, qua, nel così-com’è, nell’Aperto che ci attende. Ci attende da sempre. ...l’inconsistenza del tenue reale di cui facciamo parte…
Vicenza 15 Marzo 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
1 Carlo Rovelli, Buchi bianchi, Adelphi 2023
2 Ne ho trattato, ultimamente, in Come evitare le trappole.
3 Carlo Rovelli, op. cit. pag. 15
4 Da Wikipedia. La tradizione cinese del Ch’an vuole che Mahākāśyapa sia il
primo patriarca di questa scuola. La prima citazione conosciuta di questa paradossale "investitura" risale altesto Trasmissione della Lampada di epoca Jingde (1004-1007) 景德傳燈錄, compilazione del monaco Shì Dàoyuán 釋道原, dove, Mahākāśyapa avendo sorriso per avere il Buddha mostrato unfiore come unico contenuto di un sutra che si apprestava ad esporre, il Buddha avrebbe detto: «Io possiedo il vero occhio del Dharma, la mente meravigliosa del Nirvana, la vera forma del senza-forma, il sottile cancello del Dharma che non si fonda su parole o lettere, ma che è una e speciale al di fuori delle scritture. Questo io affido a Mahākāśyapa.»
5 Carlo Rovelli, op. cit. pag. 38
6 Il mondo… è un insieme di eventi… un bacio è un “evento”. Non ha senso chiedersi dove sia andato il bacio domani. Il mondo è fatto di reti di baci… Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi 2017, pag. 87.
7 Mi scuso con i lavoratori e lavoratrici del sesso; non sto parlando di loro. Anche perché loro danno qualcosa, nello scambio - se stessi -, mentre qui non si tratta d’altro che di fumo tossico… È quanto vuole la gente? Beh, se è per questo la gente vuole anche eroina… Cosa dite, vi trovo stasera all’angolo sotto il lampione?
8 La visione della realtà è il delirio collettivo che abbiamo organizzato...
Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi 2017, p.177.
9 Leopardi, L’Infinito.
Come vedersi
Gli occhi son fatti per vedere, eppure non vedono se stessi. La forma vede il mondo - le altre forme - ma non vede se stessa. Per vedersi, perciò, è necessario farsi mondo. E l’onda surfeggia schiumando il suo essere oceano.
Ma potrei anche dirla così: per sapere che faccia si ha non serve usare uno specchio; basta, riconoscenti, riconoscersi nell’infinita sequela di uomini e donne che, con la loro vita, proprio ora stanno permettendoci di percorrere la grande Via. È - cangiante eppure eguale - la medesima faccia!
Una volta che non si dimora più nel non attaccamento e non si comprende nemmeno la necessità di non dimorare, questo è il bene finale; è l’insegnamento completo...
Non usare la concentrazione per entrare nella concentrazione, non usare la meditazione per concepire la meditazione, non usare il Buddha per cercare la buddhità…
La realtà non cerca la realtà, la realtà non ottiene la realtà, la realtà non pratica la realtà… ma trova la sua strada naturalmente. Non si ottiene con il raggiungimento...¹
Una volta che non si dimora più nel non attaccamento…
Per tanti, in fila per due, è già un sogno realizzare il non attaccamento… Ma una volta realizzatolo, non è mai una volta per tutte. Anche la realizzazione - che è vita - è soggetta a Mujo, la santa impermanenza. Per cui, realizzato chissà cosa, realizzata qualunque cosa, attraversare e dimenticare. Gyate, gyate... Oltre. Al di là. Sempre. No, non è veramente possibile abitare nella fantasia di un qualsivoglia dimorare. Non è veramente possibile
sentirsi pacificati nel mondo dell’illusione.
E qui, signor giudice, confesso: trovo sempre un profondo senso del comico nella sovrana confusione di cui è fatto l’impasto del mondo… Ecco perché non ce la facciamo proprio a capire quanti insistono con l’idea di consapevolezza. Consapevolezza? Di che? Di chi? Usare la mente per controllare la mente, che lo capiate o no ecco di che si tratta veramente. E torna, comicamente torna il barone di Münchhausen che, caduto nelle sabbie mobili, tentava di uscirsene tirandosi per i capelli ².
Non si comprende nemmeno la necessità di non dimorare...
Perciò liberi, radicalmente liberi da qualsivoglia affare, progetto, guadagno, nella vasta quiete della non-mente o, come dico spesso, nella mente immobile ³. Attraversare tutti i fenomeni e uscirne come prima d’entrarci, senza nemmeno uno schizzo. Questo è samsara-eppure-nirvana. Questa è la gioia del non-fare- nulla nel non-pensiero. ⁴ Altrimenti… Altrimenti sbrogliatevela con la dualità e l’inferno/paradiso.
La realtà non cerca la realtà… Non si ottiene con il raggiungimento...
Ogni esistenza è se stessa esattamente com’è e non cerca niente oltre se stessa. Solo l’illusione crede in una tensione a diventare qualcos’altro, nel tempo.
Nell’adesso, senza muoversi, tutto il tempo, tutta la vita, tutta la morte ⁵. Non è
possibile fin dall’inizio afferrare alcunché, né nella pratica né nella vita
ordinaria; senza tempo, è tutto qui, adesso, in questo preciso espiro/inspiro ⁶.
Vicenza 1 Marzo 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
1 Bãizhàng, discepolo di Mãzŭ, a suo volta discepolo del Sesto Patriarca (cin. Hui Neng ; giap. Eno). Cina, dinastia Tang (618- n Aldo Tollini, La meditazione Chán, Ubaldini 2024, pagg.
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2 Da Wikipedia: Karl Friedrich Hieronymus von Münchhausen, conosciuto come il Barone di Münchhausen (Bodenwerder, 11 maggio 1720 – Bodenwerder, 22 febbraio 1797), è stato un militare tedesco. È il personaggio a cui si ispirò Rudolf Erich Raspe per il
protagonista del romanzo Le avventure del barone di Münchhausen. Il barone era infatti divenuto famoso per i suoi inverosimili racconti: tra questi, un viaggio sulla luna, un viaggio a cavallo di una palla di cannone e il suo uscire incolume dalle sabbie mobili tirandosi fuori per i propri capelli.
3 La strada per giungere all’illuminazione è il non-pensiero. Il Sutra della piattaforma del Sesto Patriarca.
4 Una volta, mentre il maestro Yàoshān era seduto in meditazione, venne un monaco e gli chiese: “Mentre te ne stai lì seduto fermamente, cosa pensi?”. Il maestro rispose: “Penso senza pensare”. Il monaco disse: “Come si pensa senza pensare?”: Il maestro rispose: “Con il non-pensiero”.
5 E la vita è il posto del suo momento, e la morte è il posto del suo momento: come l’inverno e la primavera. Non è da pensare che l’inverno diventa primavera, non è da dire che la primavera diventa estate. Dōgen, Genjōkōan
6 Cessazione di ogni afferrare, cessazione dell’aggiungere:
liberazione. Nāgārjuna
Come evitare le trappole
Ognuno di noi ha caratteristiche e talenti propri. Niente da dire. È con queste carte che si gioca. Eppure… Eppure il gioco è assai più raffinato di come solitamente appaia. Detto in altri termini: il demone che ci abita ci conosce. Non essendo altro che noi stessi girati dall’altra parte, ci conosce eccome.
In una prima fase della pratica può sembrare che il nostro compito sia (ri)conoscere quel demone; anche perché, conoscendolo, pensiamo di scoprire chi siamo. Ma - come dico spesso - non importa affatto chi siamo; non importa cioè portare in risalto le nostre caratteristiche attitudinali o psicologiche. La nostra pratica non è di tipo analitico ma di tipo immersivo. In piedi sullo scoglio guardiamo affascinati le onde e l’orizzonte della nostra vita. E Buddha, alle spalle, dopo averci accarezzato la nuca, decisamente ci butta in acqua. In acqua, sconcertati, possono accadere diverse cose. E, difatti, di volta in volta, accadono tutte. Anneghiamo; imprechiamo; scappiamo via; oppure, ci arrotoliamo nell’acqua e, sorridenti, ci facciamo una bella nuotata. Se accade così, se questo è quanto è accaduto e continuamente accade, da qui in avanti quel che verrà sarà sempre nuovo. E il nuovo è: lasciarsi toccare! La pratica deve necessariamente poterci toccare, interrogarci, metterci in difficoltà. Modernamente rimanere di lato non serve. È stitichezza. Prudentemente proteggersi non serve. È paura.
Ma non saranno le parole, se non di rado, che potranno toccarci; il maestro, pur se vede, difficilmente entrerà nella vostra vita. È da se stessi che dovrà nascere l’attenzione necessaria a vagliare cosa si fa, senza dormire, seduti immobili su un cuscino nero davanti ad un muro. E dal coccige-radice sale la spinta che tira su la schiena e apre il torace. Solo questo.
Perlopiù, nell’iniziare, si vuole stare bene; senza sapere esattamente che significhi, si vuole far stare il me meglio di quando si è arrivati. Tenera, quasi tenera questa ingenuità assai comune e
che non è difficile lasciare evaporare. Oppure, e stavolta la faccenda si ingarbuglia di brutto, ci si è messi in testa di carpire il segreto del risveglio - qualunque fantasia si abbia in merito - per poi usarlo a proprio beneficio. E ancora il me ¹. Ma col me, qualunque vestito ci si metta per la serata di gala e comunque ci vada la vita, si è e si resta nel paese di dukka, la prima delle quattro Nobili Verità di Śakyamuni detto il Buddha ². Topi in trappola.
La buona notizia? La buona notizia è che, nella pratica, non c’è alcun segreto e non c’è alcunché che si possa prendere. Niente può essere portato via semplicemente perché la nostra pratica è fatta di niente… Il nome di questo niente? Sunyata, la santa Vacuità. Profumo… Come fare a rubare il profumo della rosa appena sbocciata? Sullo star meglio, ah, sullo star meglio aspettando che la fantasia svapori... Si sta esattamente come si deve stare. Non c’è più paura, però. Non ci sarà più paura di niente.
Vicenza 1 Marzo 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
1 Che in realtà è il problema. Nessuno-lo-sa è l’attitudine potente di quanti percorrono la grande Via.
2 Dukka. Di solito si traduce questo termine con “sofferenza”, il che, letteralmente, è giusto. Ma è da ricordare che nell’Anguttara Nikāya è contenuta una lista di felicità, da quelle materiali a quelle più spirituali, le quali sono dette “impermanenti, dukka e soggette a cambiamento…”. Si può allora cogliere l’idea di dukka ricordandosi di associare sempre l’idea di sofferenza a quella di impermanenza… Giangiorgio Pasqualotto, Dieci lezioni sul Buddhismo, Marsilio 2008, pag. 19. Direi, anche, come dukka non vada vista come il demonio, quel che ci fa soffrire, quanto e piuttosto come il così-com’è, la natura ultima dell’esistenza su questo pianeta. E questa natura ultima inflessibilmente segue due leggi (eccolo il portentoso uno/due di Śakyamuni, senza il quale non avremmo avuto alcun insegnamento veramente nuovo e risolutivo): anatta-anicca; non sé-impermanenza. Non sé: niente è per sé e in sé essendo vacuità. Da cui l’interdipendenza e la cosiddetta Rete di Indra. Impermanenza: tutto cambia. Al proposito, chiesero un giorno a Shunryu Suzuki cosa fos ilBuddhismo. Lapidaria e definitiva risposta: Non sempre così!
Cercando altro
Quel che davvero conta nella nostra vita accade sempre trovando quel che non si cercava. Vale a dire spiazzato il me.
Alle prese con un nuovo lettore per la glicemia (già incontrato esattamente
venticinque anni fa, quando esordì) trovo scritto così sul retro degli appunti di
misurazione che allora determinarono il mio desistere:
Nucleo germinativo del testo è l’idea che il mondo che tratteggia la letteratura è
sempre un mondo nuovo, che prima non c’era. Per questo è necessario che essa parli con i morti, le pietre, i cani, gli dèi, con chi non c’è, con l’Altro, rendendo evidente, alla fine, che noi siamo altro, oltre che noi stessi.
Non importa sapere a cosa si riferissero quegli appunti. Ma è da lì che vengo. È stata quella la strada che è poi sfociata nel dharma. E che ci sia un gioioso mistero in tutto questo io lo rintraccio nel fatto che - guarda un po’ - ancora oggi la mia vita non è altro che parlare con i morti, le pietre, i cani, gli dèi, con chi non c’è, con l’Altro…
Direte: tutto questo riguarda te! Forse, benché sospetti che vi sia sfuggito il punto, abbiate uperato l’incrocio senza vederlo.
Quanto accade nella nostra vita prima di incontrare il dharma è curiosamente importante. Si vede perlopiù dopo, ma non è male di tanto in tanto volgere lo sguardo. Che la nostra vita tratti di letteratura o giardinaggio, arti marziali o comune vita mondana, può accadere che in qualche modo, per qualche verso, il germe che ci porterà a fiorire incontrando la grande Via, sia lì, per anni, a maturare.
Può essere un dolore; può essere ogni cosa; fatto sta che, una volta incontrata la
pratica, inspiegabilmente ci sentiamo a casa. Nonostante le difficoltà, tocchiamo con
mano lo stupore di sentirci tornati a casa. Una casa che ci aspetta da prima della nostra nascita e che, indifferente alle nostre successive scelte, mantiene sempre la porta aperta. Ecco cos’è la realizzazione della realtà del vivere. Ecco come si trova qualcosa che non pensavamo di cercare.
Se accade così, se quanto accade cioè è senza una volontaria scelta da parte della coscienza, la presa è forte e l’abbraccio può risultare potente. Spiazzato senza neanche saperlo il calcolo, soffocata in culla ogni idea di quanto crediamo ci serva per una vita quieta e gioiosa, quel che resta è la bellezza degli incontri, il così-com’è del nostro vivere. Questo!
Vicenza 23 Febbraio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
Non fare nulla
Ieri sera, dopo la nostra consueta pratica, ho detto qualcosa sul libro che stavo
leggendo ¹. Ho accennato anche ad alcune criticità interpretative. Eccone una.
In un testo della scuola detta Testa di bue (il
Juéguānlùn, testo dell’VIII secolo), c’è questo dialogo:
Domanda: “Che si deve fare?”
Risposta: “Non fare nulla...”
Il commento di Tollini è il seguente:
“Che si deve fare?” va inteso come: “Che devo fare per giungere alla Via?”. La domanda dell’allievo è ovvia, ma la risposta non lo è. “Non fare nulla” è una negazione della pratica…” ²
Sicuro che sia così?
La risposta del maestro, Non fare nulla, a me pare invece precisa ed eminentissima pratica. Il monito è: Non fare nulla a partire dal me. E, in questo, quanto resta è l’essenziale, la non-mente (come appunto insegnava la scuola Testa di Bue), la mente silenziosa che non si cura di quiete o movimento, illusione o risveglio, santi o peccatori. Sunyata! La santa vacuità.
Poi, che con quella mente silenziosa, si sieda in zazen o si prepari il caffè, è
ininfluente; giacché non valorizziamo l’uno a scapito dell’altro, non scegliamo
alcunché, lasciando entrare tutto e lasciando uscire tutto. L’Aperto!
Volete una controprova? Eccola. Ecco, difatti, come Tollini giustifica quella sua
interpretazione:
La pratica non porta alla Via poiché, per questa scuola, è un mezzo artificiale, pensato da menti ordinarie che restano lontane dalla verità… ³
E, di grazia, dove abiterebbero queste menti ordinarie da cui proverebbe l’artificio? Nel me. E siamo daccapo.
Vi corrisponde?
Vicenza 19 Febbraio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
1 Aldo Tollini, La meditazione Chán, Ubaldini 2024.
2 Aldo Tollini, op. cit., pag. 109.
3 Aldo Tollini, op. cit., pag. 109.
Ichi go ichi ie
Pochi giorni fa, in Perché sembra così difficile, chiudevo con un invito: … un invito che mi sta molto a cuore. Non disertate l’incontro. Non disertate l’incontro e siate a lui fedeli.
Riparto da qui. Riparto da qui anche grazie alle perplessità ¹ di qualcuna di voi
(Magari è più facile di quello che sembra… Ma il ragionamento di Dogen- Suzuki di certo non aiuta ²), tanto per esaurire un tema del tutto inesauribile. ³ Un tema che, usando quanto vi dico spesso - esaurire ed attraversare - oggi potrei esprimere così: senza esaurire non v’è alcun attraversare ⁴.
Ripartiamo, perciò. Ichi go ichi ie. Una sola volta, un solo incontro.
Se pensiamo alla nostra vita, alla vita dell’umano su questo pianeta, è quasi
perturbante comprenderne il senso. Che, pure, è modesto e semplice: una sola volta, un solo incontro.
Da qui dobbiamo passare.
Non nella direzione della consapevolezza. E così ci togliamo dai piedi il primo
inciampo. Vale a dire che non è faccenda del me far fiorire una sola volta, un solo incontro. Un altro modo di dire questo, così-com’è!
Questo, così-com’è che ci precedono e determinano; naturalmente a patto che sia cessato quel molesto ruminare, il continuo chiacchiericcio mentale che, com’è sua natura, ci porta altrove, avanti/indietro in quello che - quello stesso ruminare - si è immaginato essere la natura del tempo.
Se, invece, il chiacchiericcio persiste, di grazia, ditemi: cosa ci fa diversi da un fantasma? Ditemi ancora: dove avete lasciato, frattanto, il corpo-mente del risveglio? E come meravigliarsi, a questo punto, che ci manchi al mondo il posto dove stare, che non si senta l’intimità col sole, l’acqua che scorre, la foglia che cade, il ronzio dell’ape, il silenzio… La vita, insomma. La sentite, la vita?
Manca quasi il respiro, poiché anche il respiro, per conto suo, ubbidiente, dice: una sola volta, un solo incontro. Tutta una vita, nient’altro che una sola volta, un solo incontro.
Può accadere così poiché in questa sola volta, in questo solo incontro, abitano tutte le volte ed ogni incontro. L’eternità - che noi chiamiamo vastità - non è un tempo stiracchiato nel senso dell’estensione, prolungato ed infinito ma, d’inverso, un punto. Questo punto. Adesso. Cosicché ogni tempo dà spazio ed è l’infinito tempo. E nell’inverno abita ogni stagione. Adesso, questo momento si manifesta a noi invernamente, ma la primavera è lì,
l’autunno e l’estate sono lì...
E la vita è il posto del suo momento, e la morte è il posto del suo momento: come l’inverno e la primavera. Non è da pensare che l’inverno diventa primavera, non è da dire che la primavera diventa estate. ⁵
Quando, guardando la forma, la vediamo con tutto il corpo e spirito, quando, ascoltando il suono, lo udiamo con tutto il corpo e spirito, allora io e la cosa siamo un incontro profondo. Questo non è come l’accogliere l’ombra da parte dello specchio, non è come la luna e l’acqua. Quando si mette in evidenza un lato, l’altro lato è all’oscuro. ⁶
Cogliere, pienamente cogliere che questo è vivere, toglie di mezzo una volta per tutte e in tutte le sue forme la paura; della morte in primo luogo. E ci dà la compostezza di quei a cui non manca niente.
Ma questo cogliere accade nella forma del non-cogliere; per questo è veramente cogliere. Così, ecco il secondo inciampo: dire sì, ho capito ⁷, portando tutto nel mentale. E si ricomincia daccapo coi fantasmi.
Cosa fare?
Sapete bene cosa fare. Ed è quello che fate. Zazen. Zazen. Zazen.
Senza voltarsi indietro. Non c’è niente, avanti/indietro… Meglio: c’è il fantasma.
Una sola volta, un solo incontro.
Vicenza 9 Febbraio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
1 Devi dire qualcosa! Così Katagiri Roshi spronava i suoi discepoli.
2 Se siete nel silenzio della mente vasta e immobile non ha alcuna importanza che si esprima il dharma a parole oppure si taccia. Nella nostra tradizione si trovano esempi dell’un campo e dell’altro. Chi ha scritto e parlato per tutta la vita e chi ha sempre e solo alzato un dito. Ma il punto è un altro; il punto è che, qualunque sia la modalità, conta che si sia allenati ad esaurire ed attraversare. E a questo punto la domanda diventa: sicuri di saper esaurire l’incontro tanto da attraversarlo/dimenticarlo? Se la risposta è sì, niente mai disturba e niente mai manca o è in eccesso.
3 Del resto, come sapete, noi siamo quelli che son lì a svuotare l’oceano usando un cucchiaino.
4 Di più. Esaurire è, dimenticandosi, fare quella cosa per amore di quella cosa, incontrare quell’incontro solo per l’incontro. Questo è attraversare. Non c’è mai, perciò, movimento, che introdurrebbe il tempo; non c’è mai passaggio da (1) esaurire a (2) attraversare. Esaurire non diventa attraversare, ma è esaurire-attraversare. Così come non c’è movimento da pratica a realizzazione in Dōgen.
5 Dōgen, Genjōkōan.
6 Dōgen, Genjōkōan.
7 Oppure dire no, mi disturba...
Perché sembra così difficile?
Diciamo che, magari in preparazione di una sesshin, vi ascoltassi ragionare così: Meno male che non è toccato a me fare il tenzo… Sembra una banalità, eppure manifesta qualcosa di profondo. Direi dell’essenziale.
Nella nostra pratica, fare qualcosa - per esempio, il tenzo - non è fare qualcosa. È fare ogni cosa. A volte dico questo così: esaurire ed attraversare.
Ma - esaurire ed attraversare - non come orfani di una cosa da niente, scheggia
dell’ogni-cosa, una parte perduta di un tutto, quanto esattamente come tutto, quanto esattamente come ogni cosa. Solo che nessuno- lo-sa.
Eppure non si trattava d’altro che di quella precisissima cosa. Fare il tenzo, appunto. Oppure, pelare una cipolla… Già, poiché non c’è alcuna differenza tra una cipolla e zazen ¹. Altrimenti vita e pratica non si conoscerebbero, e la follia della dualità riprenderebbe il sopravvento. Non è così che pratichiamo noi. Non è questo lo Zen come lo incarniamo noi.
Tutto questo vi sembra tortuoso? Tutto questo vi appare difficile?
Ebbene, Shunryu Suzuki, in un commento al Genjokoan di Dōgen ² tratta esattamente di questo, mettendo energicamente sull’avviso quanti insistono nel voler capire concettualmente la propria pratica. ³
Quando troviamo il nostro posto nell’adesso del momento, allora la pratica
fluisce e questa è la realizzazione della verità.
Trovare il proprio posto, e trovarlo in questo preciso momento, è quanto abbiamo chiamato pratica del tenzo. In questo tempo che c’è, adesso. Questo, solo questo, esprime la realizzazione della verità, dice Shunryu; vale a dire che a questo, a solo questo, non manca niente.
Porsi, invece, come purtroppo vedo spesso, in un atteggiamento valutativo dei diversi aspetti della pratica ⁴ è un pericoloso fraintendimento del nostro modo di rendere viva la grande Via.
Così nella nostra pratica quando realizziamo una verità, incarniamo quella verità; e se incontriamo un'attività, completiamo quell'attività. Qui è il luogo, e qui conduce la Via. Quando c'è il luogo c'è la Via. Questa è completa pratica senza chiamarla buona o cattiva pratica. Quando incontrate un'attività, fatela con il massimo impegno. Questa è la Via.
Quindi, Dōgen dice: "La comprensione non è sempre possibile, perché è simultanea al completo raggiungimento dell'insegnamento del Buddha". La realizzazione completa è simultanea
quando si pratica, quindi non è possibile comprendere che cos’è. Se avvenissero una per una in momenti diversi, avresti la possibilità di vedere l'insegnamento del Buddha e le sue pratiche effettive. Quando vengono simultaneamente mentre stai praticando, c'è già realizzazione. Quindi non c'è modo per noi di conoscere l'altro lato, che è realizzazione.
Simultaneo? Capite? Rileggete. Respirate…
Esaurire ed attraversare questa precisa-pratica-di- adesso, qualunque essa sia, senza discriminare tra cose che si pensa valgano e cose che si pensa siano triviali - zazen e cipolla... -, manifesta in un lampo il completo raggiungimento dell’insegnamento di Buddha, ed ecco perché non può che sfuggire all’indagine della coscienza. Ancora oggi, a qualcuno che mi chiedesse di spiegare perché siedo, non saprei che dire.
Quando sei occupato a fare qualcosa, non è possibile vedere ciò che hai fatto. Se vuoi vederlo, devi smettere di farlo. Allora saprai cosa hai fatto. Anche se non è possibile vedere ciò che hai fatto, quando hai finito qualcosa c'è realizzazione.
È certo possibile, sta dicendo Shunryu, sfilarsi dalla santa intimità della
pratica-di-adesso; mentalmente allontanarsi da quel meraviglioso precetto che canta così: Quando c’è il posto, c’è il modo; ma quel che ne verrà sarà un soggetto che guarda un oggetto, non riconoscendosi più. E non potrà più esserci alcuna pratica. Non si potrà cioè più dire: Questa è una pratica completa…
Gyōji (pratica infinita); Gyōbutsu (buddha attivo); Gūjin (totale esercizio); Zenki
(dinamismo totale. Funzionamento integrale). Eccola la simultaneità. Eccolo il meraviglioso segreto dello Zen di Dōgen. Da cui, a cascata, l’intero suo insegnamento ⁵.
Quindi, né soggetto né oggetto. Non c'è soggetto che pratica e non c'è oggetto che viene praticato. Non sono esistiti sin dall'inizio. Quando la pratichi, la realtà appare. La realtà non esisteva prima che tu la praticassi. Non sono esistiti fin dall'inizio, e non sono nel processo di realizzazione. Ogni momento è realizzazione e non è nel processo di realizzazione. Capisci? Non è processo, sai. Allo stesso tempo, è nel processo di trasformarsi in qualche altra pratica. Ma sebbene la tua pratica sia continua, allo stesso tempo è discontinua. Oggi hai fatto qualcosa, e ciò che hai fatto continuerà domani. Ma anche se non sappiamo nulla del domani, il domani è incluso nel presente. Il tuo lavoro ha il suo proprio domani e passato. Domani ciò che hai fatto avrà il suo proprio passato e futuro. Ciò che hai fatto oggi apparterrà al passato domani. Quindi non è lo stesso. Capisci? Non è affatto lo stesso. Domani è indipendente, e oggi è indipendente.
Domani è compreso nel presente... E s’avvicina il vortice, il vorticare vivente del
così-com’è... Vivi, morti; alto, basso; pietre, stelle. Tutto è manifestantesi in quanto
tutto; e in questa nostra vita, adesso, ecco, in un solo gesto - un tenero semplice abbraccio - teniamo stretti la nostra nascita e la nostra morte. Tutto già avvenuto. Tutto ancora da venire. Fluente… Questa è la gioia. Per questo siamo belli!
Eccola la nostra pratica. Ecco perché Shunryu intitola così questo suo prezioso commento: Il Buddhismo non è un insegnamento speciale. L’illuminazione non è uno stadio particolare.
Non c’è soggetto che pratica o oggetto con cui praticare… Quando praticate così la realtà appare. La realtà non è evidente prima di averla praticata… Ogni momento è realizzazione, non un processo di realizzazione. Capite? Non è un processo… Capite? La vostra pratica non è in fase di realizzazione, è meglio arrendersi… non c’è speranza…
La realtà non è evidente prima di averla praticata… Non c’è alcunché oltre a questo non duale incontro- realizzazione, che è totale respiro di vita che vive; non un processo, insiste Shunryu; non un processo poiché altrimenti (ri)saremmo nel tempo, ci sarebbe ancora bisogno di tempo. E saremmo di nuovo divisi. Separati dal fluire di tutto con tutto.
No, non c’è veramente alcuna speranza di agguantare concettualmente la nostra pratica. Che non è nostra, naturalmente, se è là dove deve essere... L’Aperto!
Finisco con un invito che mi sta molto a cuore. Non disertate l’incontro. Non disertate l’incontro e siate a lui fedeli.
Se non vi lasciate andare alle fantasie che vi piacciono così tanto, quel che incontrerete è sempre Buddha!
Vicenza 5 Febbraio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
1) A volte, si piange in entrambi i casi.
2) Wind Bell, n° 1, 2006, pag. 41. Il Buddhismo non è un insegnamento
speciale. L’illuminazione non è un momento particolare. Commento del 23 Agosto 1967, quattro anni prima della morte. Colgo l’occasione per ringraziare chi di voi ha lavorato alla traduzione.
3) Noi non crediamo che ciò che realizziamo sia comprensibile concettualmente… O anche: Le persone cercano sempre di scoprire un modo particolare per loro stesse. Questo non è il vero studio della Via. Questo tipo di idea è assolutamente sbagliata…
4) Invece di manifestare quella serena attitudine che accoglie indifferentemente quanto ci viene incontro.
5) Di nuovo: Gyōji (pratica infinita); Gyōbutsu (buddha attivo); Gūjin (totale esercizio); Zenki (dinamismo totale. Funzionamento integrale). Snodi, tutti, che richiamano il tema qui trattato.
Il sangha volante
Ho sognato. O forse no, ho visto. Che sia l’uno o che sia l’altro, piuttosto che immobili sul cuscino nero eravamo in volo, un volo sghembo, in diagonale, alla Chagall, maniche del kolomo felici a far da ali. Non so dire che sia stato. Pure, il sangha volava.
Succede, in zazen. Succede che, da sé, si aprano cataratte da cui sgorga acqua limpida, inconosciuta. Non serve investigare. Non è importante. Può darsi che sia solo questo: lasciare entrare, lasciare uscire. Può darsi che sia solo la libertà del nostro sedere.
Eppure, un sangha che - barbari gentili - vola, a me mette allegria. Dopo il primissimo sconcerto, difatti, ho riso come un bambino, come se - divenuto chioccia - avessi fatto l’uovo.
Ecco. Ho fatto l’uovo. L’uovo di una pratica condivisa e serena, forte poiché leggera che, quando gli gira, scivola via e prende il volo.
Voi che ne pensate?
Vicenza 26 Gennaio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
Il fuoco
Ad una di voi che, recentemente, chiedeva intorno a quel fuoco brillante che nella nostra pratica è la relazione maestro/discepolo, ho risposto così (indicando l’essere discepolo): non deve essere uguale (al maestro); non può essere diverso (dal maestro); si devono riconoscere le sue viscere.
L’indicazione del non deve, riguarda la necessità di non cercare la fusione, benché sia in atto una relazione che può serenamente definirsi d’amore ¹; l’indicazione del non può, riguarda le profondità (anche psichiche) della relazione. In qualunque modo la si viva e in qualsiasi maniera la si risolva, la relazione - se relazione c’è o c’è stata - è intoccabile agli stessi soggetti che l’hanno resa vivente e, anche se interrotta, travalica nei sogni. Come accade a me. L’ultima indicazione, l’esporre se stessi, è quel che viene, l’oro di quanto è appena nato dal crogiuolo della trasmutazione relazionale. E, qui, sia il maestro che il discepolo non saranno mai più come erano prima della relazione.
Il tema scotta. Brucia sottopelle come braci, soprattutto perché da tempo disabituati alle relazioni naturali. Non avrei detto diversamente da così se avessi voluto parlare del nesso padre/figlio. Educare tossicamente un figlio, difatti, equivale a dirgli che deve essere com’è il padre; da cui necessariamente quel che verrà sarà l’annichilimento del figlio o la sua rivolta- disconoscimento. In natura è così che accade: il falchetto alle prime prove di volo che vedo volteggiare dal boschetto davanti casa, non sarà mai uguale al genitore che l’accompagna; non potrà mai essere diverso (geneticamente e fattualmente) e, una volta svezzatosi, mostrerà egregiamente le proprie viscere. E quelle altrui...
Così è per noi che camminiamo insieme per la grande Via. Questa è la ragione per la quale, colui che nella relazione occupa il posto della guida, se veramente guida è, se cioè non ha alcuna intenzione di produrre tossicità, non vedrà l’ora di sfilarsi e scomparire, lasciando il discepolo-falchetto alle sue giravolte. Che, di nuovo: non deve essere uguale; non può essere diverso; si devono riconoscere le sue viscere. Tutto questo, alla fine, è quanto si dice così: trasmissione!
Anche nel tradizionale, provvisorio ², insegnamento della zattera e dell’altra
sponda, usate la zattera per quanto serve. Per il tempo strettamente necessario. Datevi da fare, diamine. Attraversare è, alla fine, l’attitudine esatta che vi indico. E attraversare la relazione è - meraviglia delle meraviglie - renderla del tutto inutile in quanto dualità. Così facendo, ad un certo punto, felicemente maestro e discepolo avranno la stessa faccia. Quella di Buddha.
Allora, giunti qui, ditemi: a questo punto, giunti qui, che ne è dell’amore fra i due? Chi ama chi? Ecco l’Aperto: amore ama amore; dharma ama dharma; e la vita… Oh, la vita non ama altro che la vita ³.
Non sempre ho visto che questo è quello che accade. Non sempre la visione di quel che si è, nel momento preciso che è, è risultata limpida. Da cui tristissime storie immancabilmente fattesi patetiche. Maestri che si aggrappano infantilmente ai discepoli e eternamente innamorati del maestro.
È, perciò, necessaria la massima vigilanza dei due che formano la relazione. Che dovrà sempre essere fluida e soffice. Profumata. A volte felicemente difficile, ma liberata. Solo così potrà manifestarsi enthusiasmós e gioia. È questa vita-pratica comune. È questa pratica- vita condivisa. Ve ne prego, non dimenticate!
Vicenza 12 Gennaio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
1 La pratique de la meditaion est une histoire d'amour. LamaDenis Teundroup
² Dico così poiché, come sappiamo, non c’è veramente alcuna altra sponda da raggiungere.
³ È la saggezza che va in cerca della saggezza. Shunryu Suzuki Roshi.
Fenomenologia
di una cosa da niente
Sediamo. La nostra pratica è sedere. Sediamo nella maniera trasmessa dal nostro Patriarca Dōgen Zenji. In Fukanzazengi (primo testo scritto nel 1227 al ritorno dalla Cina dopo aver incontrato il suo maestro e risolta la grande questione della vita e della morte) è detto così:
Di solito si mette un cuscino quadrato, largo e spesso, sul pavimento e, sopra questo, un altro cuscino alto e rotondo su cui ci si siede. La posizione è con le gambe incrociate… Posa il dorso della mano destra sul piede sinistro e il dorso della mano sinistra nel palmo della mano destra. Le punte dei pollici devono toccarsi leggermente. Siedi eretto, senza inclinare né a destra né a sinistra, né avanti né indietro. Le orecchie devono essere in linea con le
spalle, il naso deve essere in linea con l’ombelico. La lingua riposa contro il palato.
Le mascelle e le labbra sono chiuse senza sforzo. Tieni sempre gli occhi aperti.
Respira tranquillamente… Quindi siedi immobile...
Dopo trentacinque anni trovo ancora affascinante ed estremamente intrigante questa fenomenologia: il cuscino quadrato (zafuton); il cuscino tondo (zafu); un
corpo-mente-cuore nella corretta postura; un muro bianco.
Lo zafuton parla alla e della grande madre terra che ogni cosa sostiene; lo zafu
indica il nostro gusto e la nostra postura di vita, la montagna; il corpo-mente- cuore, l’innocente fede in ciò che senza saperlo siamo, buddha; e il muro… Il muro è un koan che ho il sospetto abbia a che vedere con uno specchio.
Sedersi così, sedersi come sediamo solo noi, ginocchia sprofondate nella terra; schiena dritta, meglio, arcuata; mento rientrato e nuca che spinge in alto a sostenere il cielo; torace che sfugge, come fosse una guglia sfugge in alto; occhi socchiusi delicatamente posati sul muro… Sedersi così dinnanzi ad uno specchio non è cosa che possa passare senza conseguenze. L' Alice di Lewis Carroll ne sa qualcosa.
Ma cos’è questo specchio?
Questo specchio è proprio la cosa da niente, semplicemente quel che mostra quello-che-c’è, così- com’è; questo specchio insegna a vederci, per la prima volta a vederci per quello che in verità siamo sempre stati: anatta, non-sé; anicca, foglie al vento, impermanenti.
Giunti qui, e se veramente giungiamo dove siamo dall’eternità, qui, qui è forse
possibile che esploda la gioia di vedersi specchio noi stessi, specchio del
mondo; nuvole veloci che passano, fiore che cade preso nel vento. E ridiamo...
A questo serve una cosa da niente. Questo è zazen.
Zazen non consiste nell’apprendere a meditare. Semplicemente è la porta
della pace e della gioia, è la pratica avverata che arriva alla pienezza del
risveglio. Il presente si fa presente con evidente profondità, qui non arriva la ragnatela dei condizionamenti e delle illusioni. Se qui trovi dimora, è come il drago che trova l’acqua, assomiglia alla tigre che si inoltra nella montagna...
Alice: Per quanto tempo è per sempre?
Bianconiglio: A volte, solo un secondo.
Vicenza 6 Gennaio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile
Il dharma è un vento
Concludo quest’anno, prossimo al trentacinquesimo dalla fondazione del nostro centro di pratica, volgendo uno sguardo all’indietro; facendo così, ecco, nell’istante si condensa un bagliore, ecco Afrodite che ride, magnifica ride mentre dona agli uomini l’albero del melograno.
Da qui in avanti, in un vortice, tutto si avvita finché Ade ancora, di nuovo, un’altra
volta non rapisce la giovinetta Persefone, figlia di Demetra. È il finimondo, come sapete, con Demetra disperata che vaga per la terra non permettendo più ad alcunché di maturare e di crescere. Stallo. Caos. Interviene Zeus. Compromesso: Ade offre a Persefone un melograno, lei ne mangia sei chicchi e da quel momento sarà costretta a ritornare ogni anno negli inferi e a restarci per un numero di mesi pari ai semi ingeriti. Amen.
Perché mai sia comparsa Persefone, il melograno, Afrodite, è forse in ragione
dell’attimo in cui - chiusi gli occhi di palpebre, riaperti quelli d’ognidove - mi sono
lasciato volgere lo sguardo all’indietro… E allora ho rivisto, rivedo ora le centinaia di
praticanti che in tutti questi anni hanno mantenuto acceso il fuoco, dando vita e frutti al nostro luogo di pratica. Uno per uno, nome per nome, hanno anche loro mangiato del frutto del melograno. Senza alcuna condanna a ritornare poiché gli dèi son fuggiti...¹ Eppure... Eppure che quegli uomini e donne non siano ancora qui, in silenzio, in altro modo a sedere con noi, non ne sarei così sicuro.
Dissolvenza...
Potrebbe essere già successo. Potreste già aver intuito come vanno letti questi discorsi. Il che implicherebbe che camminate saldi nella grande Via. In ogni caso, ecco il mio segreto. Poiché a scrivere questi discorsi è un corpo, prima che un intelletto, risulta necessario corrispondere. Perciò: lettura ad alta voce alla ricerca del ritmo, in primissima battuta indifferenti ai contenuti concettuali. La scrittura per sua natura produce onde, dapprima, poi danza. Ecco, se arrivate lì, se siete qui, vi prego di prendere ad abitare questa danza; quel che ne verrà - oltre ad un corpo che si avvia all’enthusiasmós ² - sarà anche una limpidezza dei concetti.
È una maniera insolita ma vi assicuro assai virale di accostarsi al dharma. Ed è quanto faccio, per esempio, quando nello zendo vi invito a cantare i sutra con il corpo. Voce. Che è poi la ragione per la quale non li rendiamo in una lingua concettualmente comprensibile.
Si tratta di una attitudine per noi decisiva. Dapprima vibriamo, senza distinguere tra corpo-mente-cuore; di modo che trapassi in noi, nella forma dell’incarnazione, il silenzio e il non-pensiero. Poi… Poi si opera come il kairós dell’adesso invita. Vita. Zazen, d’altro canto, la nostra pratica seduta, non è molto diversa. La postura, per esempio, altro non è che un’antenna, un’antenna che senza scegliere capta ognimondo, lascia entrare e lascia uscire tutto quello che c’è - vita, morte, sogni, disperazione, gioia -, corrispondendo, pur lasciandoci immobili e a mani vuote.
Ogni altro approccio non funziona. Vi accanireste su una strada stretta e colma di rovi. Comincereste a credere che io abbia qualcosa da insegnare che sia altro da come si sta nel vento, da come s’asseconda il robusto ritmo degli intestini, il canto, il corpo soffice che danza alla luna.
Così nascono questi discorsi. Un corpo sente il vento e l’accompagna, fino a che si ritrova a piedi nudi sull’erba bagnata dove, a somiglianza delle foglie prese a mulinello, vortica. E vortica nella precisa figura del cerchio; meglio, della spirale.
Se vi dicessi che ogniqualvolta inizio un testo non ho la minima idea di cosa voglio dire,
lasciando che il corpo, nella scrittura e nella lingua, scavi in se stesso un tunnel di
senso… Se vi dicessi così mi credereste?
D’altra parte, trattandosi qui di scrittura, perciò di lingua, non può non risaltare come anche comunemente è nominata la lingua: madre, lingua-madre; mandando a quel paese e perciò dimenticando il padre; padre che, da parte sua, ama da morire i concetti, e li vuole chiari e distinti, stalattiti di senso, rigidi come nel rigor mortis.
Ecco la ragione di Zendoccidente! Ecco lo Zen che pratichiamo noi: morbido come la vita, dolce come il fiore che flette, amando il vento.
E, di nuovo, enthusiasmós! E, ancora, L’Aperto!
Vicenza 31 Dicembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
1 Nella poesia Brot und Wein (Pane e vino) del 1801 Friedrich lin scrive: “Più non son gli dèi fuggiti e ancor non sono i venienti”.
2 Naturalmente non sto parlando dell’asfittico, triste, entusiasmo del me; enthusiasmós è l’esserci di un dio dentro (l’essenza) di sé. Ἐνθουσιασμός: ἐν, en ("in") con theós (θεός, dio) e ousía (οὐσία, essenza).
Il dharma del pulcino
La vita è espiro-inspiro; la vita è un battito; la vita, infine, è un uovo.
E anche se state per sentire di uova e di pulcini, in verità non si sta facendo altro
dal narrare un’altra volta, ancora una volta, la storia eterna, la storia dell’umano: perduto nell’illusione del me finché - se gli va bene - non inciampa nella pietra della grande Via.
Non si tratta, naturalmente, di tematizzare la trinità. Uovo, pulcino e chioccia sono gli attori di un atto unico - unico, è proprio il caso di dirlo -, riflessi di quello
specchio cosmico che è il cielo, il vivente su questo pianeta, riflessi che, con
Nishitani, abbiamo imparato a chiamare così: samsara-eppure-nirvana!
Incontrare nella nostra vita la grande Via. Lo ripeto, affinché si intenda bene:
incontrare nella nostra vita la grande Via. Non è banale né scontato. E non c’è merito, in questo. Non c’è mai merito ¹. È che si tratta di una faccenda così intricata (del perché qualcuno s’innamori del dharma) che volentieri la evito. Comincerei a misticheggiare, come qualcuna di voi graziosamente ogni tanto mi dice.
Eppure, capita d’inciampare. Capita di trovarsi seduti immobili davanti ad un muro e di dar vita ad una comunità di quasi folli. Ridiamo per un nonnulla;
mangiamo cioccolatini; ci alziamo all’alba; viviamo liberamente in un mondo dove il centro è dappertutto e i confini da nessuna parte; non cerchiamo e non vogliamo niente tranquillamente a cavalcioni su ciò che non sta mai fermo, flusso, vita, ancora respiro. Ecco. Tutto questo, a volte, lo chiamiamo Buddha! Ma si potrebbe anche chiamarlo vertigine!
Eppure… Eppure l’intrico ritorna. E ritorna esattamente nel punto in cui, pulcini dentro l’uovo - seduti immobili mentre le ginocchia prendono fuoco -, senza saperlo cominciamo a becchettare dall’interno il guscio dell’uovo. C’è qualcuno dall’altra parte? Meglio: c’è l’altra parte? Succede, difatti, succede sempre che proprio quando cominciamo a becchettare, come un’eco risuona qualcosa, un altro becchettare in sincrono col nostro. Toc! Toc toc!
Senza il pulcino che chiede, dalla sua culla serrata, che chiede inconsciamente battendo, che chiede senza saperlo, non ci sarebbe alcunché, non si darebbe alcun battito; quel che conta è l’uno/due, una mano si tende ed un viso viene ora accarezzato ².
Di volta in volta uovo, chioccia, pulcino, scivoliamo via senza mai ristagnare. Non
abbiamo paura dei riflessi nello specchio poiché sappiamo - intimamente, nella modalità del non-sapere - che è solo una fantasmagoria. Il gioco degli dèi. Così, di volta in volta, siamo viso accarezzato e mano che accarezza. Ecco la bellezza: essere dappertutto senza stare da nessuna parte.
L’agire del pulcino - l’arte della vita - è nient’altro che questo. Non chiedere, non
desiderare, non progettare; solo becchettare il guscio nel kairós dell’adesso
realizzato ³. Questo è sedere! Questa è vastità! Questa, infine, è fede. A ben vedere, la nostra è la pratica del pulcino: giocare gioiosamente in questo samādhi ⁴.
Vicenza 22 Dicembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Penso sappiate perché. Se mai ci fosse se qualunque cosa, per esempio merito, necessariamente ci sarebbe anche il me. E saremmo punto e a capo.
² Qualcun’altra, oltre a noi che fin dall’inizio di questa avventura non a caso ci
siamo chiamati Zendoccidente, si è fatta la nostra stessa domanda: In che modo può il Buddhismo mettere radici nell’Occidente e influenzarne cultura, politica e spiritualità?… Il Dharma è per Dōgen un “incontro”… (Manu Bazzano, La luna di questa notte, rinvenibile in Dharma,
Novembre 2012, pp. 38-45). E, si badi, se d’incontro si tratta, è sempre personale, un corpo a corpo, occhi negli occhi.
³ Jijuyū zammai, Samādhi dell’attività autorealizzativa. (Dōgen). Laddove, come si può leggere a pagina 47 del nostro La spina di Dōgen, la dualità è trattata in una meravigliosa forma paradossale: … il samādhi dell’attività autorealizzativa indicava il samādhi che allo stesso tempo nega e include il sé e l’altro… Il punto cruciale… è che in Dōgen gli opposti o le dualità non erano rimosse o… offuscate; esse erano realizzate, più che trascese...
⁴ Jijuyū zammai. Che, come dice la Bazzano nell’articolo citato, comporta necessariamente il rifiuto di una visione strumentale della meditazione, sia pure di una strumentalità nobile evirtuosa quale l’accumulazione di meriti o il miglioramento del carattere. Amen!
Poiché non ho niente da fare...
Proprio perché non ho niente da fare vi propongo queste righe tratte dal libro che ho appena finito di leggere. ¹ Ho sentito, forte, aria di famiglia.
… Soprattutto, è stata proprio una sua caratteristica il suo essere “sbagliato”, il suo essere fuori dall’ordine precostituito, il suo insegnare che nel muro c’è la porta
– anche se al momento non la vedi – e la porta va cercata nel muro. Quindi: la sua
volontà di discontinuità e la sua illuminante, e direi, pertinente, inesattezza…
Era allora che cadeva… il discorso sintatticamente impeccabile e veniva fuori tutta questa pluralità infinita di discorsi… spiegava, cioè, che senza una certa forma di follia non si poteva riuscire a trovare l’adito nel muro...
Ecco, anche questo mi viene da Bernhard: aver capito che la strada giusta è fatta da un’infinità di strade sbagliate...
Bernhard scrive: “Il sintomo nevrotico ha ragione”; la malattia non vuole essere “guarita” ma decifrata…
Bernhard scrive che il paziente deve venire “contagiato” dalla sanità
del terapeuta; squisita ambivalenza, che chiude tutto il senso tragico di quella lenta
operazione maieutica: altrove leggiamo che da un labirinto si esce solo per trapassare ad altro labirinto...²
Vicenza 15 Dicembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Giorgio Manganelli, Il vescovo e il ciarlatano. Inconscio e letteratura: l’incontro con Ernst Bernhard, Sellerio 2024.
² Giorgio Manganelli, op. cit. pag. 20-22-23-27-41-42
Vita nova
«In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice Incipit Vita Nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d'asemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sentenzia.»
Dante Alighieri.
Senza azzardi, con saggezza, dare libertà ai fantasmi o, come dico spesso, ai demoni, fa bene. Parlo, naturalmente, dei propri fantasmi-demoni, quanto qualcuno chiamerebbe i reclusi nel subconscio.
Facciamo così. Proviamoci. E così giunge il momento, nel cammino della grande Via, di togliersi dai piedi quest’inciampo. Anche perché, altrimenti, ci toccherà portarci appresso per l’eternità una zavorra.
È una questione delicata. È una questione da non prendere sottogamba. È una questione, infine, da cui continuamente sgorga sofferenza. Tanto che anche la pratica ne risente.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno, la pratica della Via ci spiuma, come diceva Nicolas Bouvier; e facendo così porta in evidenza i grumi e le ferite. I nostri fantasmi, appunto.
Sono ancora lì e ancora dolgono; e sarà così per sempre se non saremo in grado di convertirli, come dico spesso; di sciogliere cioè la loro energia trasmutandoli. Come si faccia tutto ciò non è semplice ma nemmeno impossibile.
Man mano che la pratica innerva la nostra vita, siamo in grado di scorgerli e lasciarli
avvicinare; si avvicinano sempre più e, piano piano, siamo anche in grado di trattarli con una certa dimestichezza. La questione che bisogna conoscere è questa: anche loro aspirano alla libertà. Vale a dire ad uscire dalla cella dove li abbiamo tenuti per una vita intera. Alla fine i fantasmi amerebbero essere vivi.
Attenzione: non sto proponendo un’indagine psicologica; non ha alcuna
importanza capire i demoni; è, invece, dirimente non separarsi da quel dolore e, in un abbraccio, portarselo in zazen. Così com’è. Non è colpa di nessuno e non sappiamo nemmeno il loro nome. Proprio così possiamo accoglierli. Proprio per questo possiamo liberarli.
È probabile che nel processo appena descritto arrivino lacrime, paura, rivendicazioni… Non importa cosa arrivi: va tutto accolto nel cerchio infinito della vastità dell’Aperto, del silenzio e della mente immobile; va tutto accolto, accarezzato, cullato. È il nostro bambino (anche se non abbiamo mai avuto figli), che attende tenerezze, comprensione, ascolto.
Volgersi dall’altra parte non serve. È quanto abbiamo fatto fin’ora. Ma così si rimane
deboli, zoppi, incapaci di esprimere liberamente, potentemente, il come alberi stiamo in piedi da soli e come alberi godiamo di essere foresta, come leggiamo sulla home del nostro sito.
Qui, se non tentenniamo, può accadere il miracolo. Il miracolo di una vita ricomposta, di ogni cosa perdonata, di una luce nuova che non conoscevamo.
Dico miracolo; ma non è che postura e cuore saldo. Postura di una vita delicatamente centrata sul proprio cuore risvegliato, indifferente alla schiuma perché flessuosamente intima con le onde. E torna Afrodite. Torna sempre. Afrodite che ride.
Potrebbe sembrare una faccenda squisitamente privata. Ed in parte lo è. Pure, prima o poi è necessario venirne a capo. Non potrà mai esserci vita nova, senza.
Vicenza 27 Novembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
Il suono della vacuità
Il bodhisattva Avalokiteśvara
mentre praticava profondamente la prajñāpāramitā,
percepì che tutti i cinque skandha sono vuoti
e fu salvato da ogni sofferenza e angoscia ¹.
Ne ho parlato martedì scorso. È, come sapete, l’avvio del Sutra del Cuore, il
nostro amato sutra. Che potrebbe anche finire qui senza che nulla manchi. È
stato tutto egualmente detto.
1. È stato detto che a partire dalla pratica della prajñāpāramitā ² (noi
diremmo shikantaza, zazen), si percepisce. Si vede.
2. È stato detto che quel che si vede è Sunyata, la vacuità di ogni cosa.
3. È stato detto che semplicemente questo vedere è salvezza da ogni sofferenza.
Andando avanti, senza fine...
1.1. Di che percezione o visione si tratta?
2.2. La vacuità si può vedere/percepire?
3.3. Perché questa percezione o visione salva dalla sofferenza?
Ma ci fermiamo in questo che non può essere che un gioco. A furia di spiegare si rischia di credere nella spiegazione, quando il punto, lo snodo, il passaggio è altrove.
L’intero processo dei passaggi prima elencati, nella nostra viva pratica si risolvono nell’incarnare ed attualizzare gli insegnamenti di Dōgen Zenji; in primo luogo: lasciar-cadere-corpo-e-mente. Giacché, in questo cadere, ognuna delle stazioni indicate si manifesta. Senza che nessuno-lo-sappia.
Il vedere, perciò, è il vedere che vede se stesso; e questo vedere vede quello che c’è: sunyata, la santa vacuità. Vacuità che (nel richiamare anattā, il non sé di Śakyamuni) è esattamente il balsamo che salva. È ciò che salva, giunti qui, perché la culla dove di solito ronfa sofferenza - il me -, è vuota, dissolta, dimenticata. Eccoci nell’Aperto! Liberi, leggeri, soffici. E ci viene da ridere.
Non indugiate. Non ristagnate. Non baloccatevi con seducenti spiegazioni. La
spiegazione è solo spiegazione. Il pensiero è solo pensiero.
Dite che lo sapete? Ma lo sapete in quanto spiegazione/pensiero o lo
sapete - non sapendolo - col corpo? Sì, perché mentre siete lì che indugiate,
ristagnate, pensate, la vita vi sorprende alle spalle. È Mujo, la santa impermanenza. Perciò, nuovamente, monito sempre buono per tutte le stagioni: puntate al cuore, afferrate l’essenziale. Nessuno sa per quanto ancora potremmo praticare.
Fate attenzione: non c’è alcunché da vedere né qualcuno che vede; così come nessuna sofferenza da cui salvarsi.
Sedete (vivete, andate al ristorante, giocate...), nella postura corretta di corpo-mente, e tutto questo si farà avanti per forza sua ³.
Vicenza 17 Novembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Shōhaku Okumura Roschi, Il canto dello Zen, Ubaldini 2012, pag. 142
² Prajñāpāramitāsūtra ovvero Sutra della perfezione della saggezza o Sutra della conoscenza trascendente è il nome dato ad un insieme di trentotto sutra buddhisti, i più antichi dei qualio al VII secolo d.C., che sono, unitamente ndamento del Buddhismo Mahāyāna. (Wikipedia)
³ Occorre conoscere con correttezza che la realtà autentica si manifesta e si fa avanti per forza sua e che distrugge innanzitutto l'intontimento e la dissipazione… Dōgen, Fukanzazengi.
Cos’è questo?
Nel teisho Lettera ad un’amica del 5 Novembre u.s. ho parlato del prima. Riprendo la riflessione.
Shunryu Suzuki, da qualche parte la dice così: Noi cadiamo continuamente, ma lo sfondo, l’orizzonte, non cade mai. Eno, il Sesto Patriarca, all’agitazione di chi chiedeva,
con mente racchiusa nel continuamente cadere (La questione della vita e della morte è
troppo urgente per…), rispondeva (risponde a noi, adesso): Perché non vai nel paese della
non-nascita e non-morte?
Ecco. Chiedo: vi è chiaro che anche questo continuamente cadere è l’orizzonte che non cade mai? Vi è chiaro che senza il così com’è dello sfondo non ci sarebbe nemmeno il cadere? In altro modo: che senza la vacuità non esisterebbero nemmeno le forme? Ecco la fede.
La sofferenza, l’ignoranza, è cercare di rattoppare il cadere per mezzo del cadere,
rimanendo nel recinto delle forme. Follia.
Ma se lanciate allegramente il cadere in braccio al non-cadere, quel che ne risulterà sarà
samsara-eppure-nirvana! Ci sarà ancora il cadere, ma non disturberà più. Ecco perché i
demoni possono essere convertiti.
Ogniqualvolta diciamo sfondo, orizzonte, stiamo nominando Natura di Buddha, così com’è, questo, risveglio... Ed ecco chiarito l’intendimento di Dōgen dello zazen come già realizzazione.
Vivere a partire dallo sfondo fa sì che qualunque accadimento si incontri nel mondo delle forme, nel samsara, viva di un’altra luce. Ecco perché non abbiamo paura.
Vicenza 10 Novembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
Lettera ad un’amica
Cara amica, è tutta l’estate che ci parliamo. Ed ora l’estate è finita. Tutto quanto poteva essere detto, lo abbiamo detto. Perciò ora, come succede all’acqua che filtra nella terra fino a che non incontra la sorgente, ora occorre cambiare passo.
Incomincia dal silenzio. Incontra il tuo silenzio. Cosa che, come sai (abbiamo parlato anche di questo) non necessariamente significa non parlare; quanto, non alimentare più la confusione, l’avidità della mente che costantemente vuole, desidera, brama; afferrare, capire, costruire città immaginarie.
È come l’intendimento di pensare in Dōgen: Hishiryō, pensare a partire dal non-pensiero. Dopodiché siedi (zazen), nel modo che ti è stato insegnato; lasciati tutto alle spalle e respira, respira, negli intestini respira, senza volontà, senza desiderio, senza nessun senso.
Ecco, so che qui recalcitri. So che non ti viene facile concepire un senza-senso; è
qualcosa che ti atterra, me lo hai detto molte volte… Eppure, respirare viene prima di ogni sensatezza; diamo un senso al mondo solo dopo; ecco, appunto, perciò respira…
Questo silenzio e questa quiete sono lo sfondo, l’orizzonte a partire dal
quale il mondo, come lo conosciamo, si manifesta. È come col parlare; non semplice star zitti, quanto parlare a partire dal silenzio di una mente quieta, vasta perché quieta, ed un cuore pacificato.
Così, ogni esistenza sarà libera di manifestarsi; così, ognuno vivrà la vita che le è propria. Chi sentirà musica, nel cuore, farà e sarà musica; e così di seguito.
Anche di questo abbiamo parlato. E anche questo ti è sembrato un ostacolo. Ma io non ti ho mai proposto di vivere due vite; peggio, di cancellarne una a favore dell’altra. Piuttosto, nell’unità del vivere, manifestare la tua indole a partire da quell’orizzonte, dallo sfondo di una vita già pacificata. Pacificata prima degli innumerevoli eventi che ci è dato incontrare.
Se è così, anche lo sforzo ed il dolore che, necessariamente, nel mondo
delle forme, incontreremo, acquisteranno dolcezza, vastità, esattezza, e saranno di aiuto e sostegno a noi ed al mondo.
Il fatto è che non c’è alcunché da realizzare: né il tuo progetto, né il mio. D’altronde, io non ho progetti; come quell’acqua che filtra nella terra, semplicemente incontro la sorgente; essenzialmente non c’è altro da fare poiché da lì veniamo e, immancabilmente, lì stiamo andando.
Andare alla sorgente è metafora per indicare la vita realizzata così com’è; vita che non è mia o tua, la vita è semplicemente vita di tutto ciò che vive. In questo sta la pace; in questo brilla la gioia.
Non abbiamo da dimostrare o controllare niente; incontrare la sorgente è fatto totalmente naturale poiché tutto ciò che vive è quella sorgente, la manifesta a modo proprio, la fa brillare, oppure, come nel caso più comune, come è accaduto a te, la soffoca cercando qualcosa che crede di aver perduto o che pensa di dover trattenere.
In questo caso, l’unica cosa che si è perduta sei tu; si è perduta la tua gioia, il tuo sorriso, tanto che - giunti qui- per solito arrivano i demoni.
Ma i demoni…, e anche di questo abbiamo parlato, i demoni sono esseri simpatici, forse bizzarri, ma non per forza cattivi. Il fatto che a volte facciano male non dipende da loro; è che incontrano un corpo troppo contratto, una mente ansiosa, un cuore inquieto; ecco perché fanno male.
Ma c’è più luce, c’è molta più luce di quella che vediamo; ed è questa luce che
trasfigura il mondo, non una volontà.
Farsi toccare dal silenzio, bagnarsi nella sorgente, è quanto serve ed è quanto basta. Niente da capire. La pioggia bagna ed il sole riscalda. L’erba brilla sotto i nostri piedi. Qualcuno chiama tutto ciò risveglio; ma non è altro che giocare gioiosamente in questo samadhi, come ha detto un vecchio monaco, uno che siede con noi, un nostro amico.
Abbi cura di te.
Vicenza 5 Novembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
Battito
Vi avevo lasciato che facevate surf ¹. Prendo l’onda e continuo…
Ogniqualvolta cantiamo il nostro amato Sutra del Cuore, a ognuno di voi è dato vedere lo stato della propria pratica.
È così che succede. Ed è così che succede dal momento che - nel canto, ma in generale nella pratica-vita - vanno sempre integrate due spinte: la prima, di forte presenza ed energia nel manifestare se stessi (nel canto, per mezzo della voce); la seconda, altrettanto importante, riguarda l’armonizzare ogni personale agire con il kairós dell’adesso, (nel caso del canto con chi in quel momento guida la seduta).
Tutte cose stradette, in questi anni. Eppure, tutte cose non ancora incarnate. E dire che qui c’è il termometro del vostro spirito bagnato dalla pratica-vita.
Mi interrogo spesso, e non da ora, sul perché questo accada. Oggi, interrogo voi: non vedete come il canto porti in evidenza un corpo-mente che si allinea al ritmo del mondo, che batte il ritmo con esso, esulta, lo ingoia e sofficemente lo riproduce? Evidentemente non lo vedete.
Il fatto è che se non vi sarete adeguatamente dimenticati ² non si potrà manifestare l’apertura per la quale il ritmo, da sé, s’insedia in voi, in una specie di possessione. Altrimenti… Altrimenti il battito del mondo vi cerca ma non vi trova. E, allora, ecco come cantate il sutra per solito: a denti stretti, e perciò trattenendolo, trattenendovi, appena un sussurro, quando l’onda dovrebbe scrostare il muro della sala, tanto è potente, tanto vibra.
State bene attenti, ve ne prego. Ponderate. Rileggete. Non tentennate. Non restatevene in disparte. Magari dubitate, indagate, interrogate, ma poi venite a vedere, come esortava Śakyamuni.
Il nostro orientamento è così: non attraversare il mondo, quanto lasciarsi
attraversare dal mondo ³.
Ma perché ciò accada il nostro spirito deve essere quieto, vale a dire che - come ripeto da anni – nella nostra casa non deve abitare nessuno! Ed ecco come il semplice cantare il sutra (ma anche vivere, ridere, sedere silenziosi...) porta a galla l’intero nostro andare nella grande Via.
Dire ritmo, dire battito del mondo, è il questo, è il così com’è. In fin dei conti è quanto, assai inadeguatamente, chiamiamo risveglio. Perciò sedete, quieti e forti. Battete il chiodo, leggeri e senza lasciare tracce. Ritornate a sedere. Dimenticatevi ⁴. Ecco, il velo si squarcia… Cadute le paratie allegramente il mondo entra-e-esce, espiro-inspiro, lasciandoci nella gioia di un pulsare ritmico, l’Aperto. Battito, appunto. Corpo trasfigurato. Mente soffice. Immobile.
Avanti, sangha! Serve un passo, un passo inaudito. Un passo sghembo, di lato. A lato dal pensare sempre gli stessi pensieri. Buddha non è mai dove vi aspettate che sia. D’altra parte, alla lunga, restare con i morti attossica!
Vicenza 27 Ottobre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Il riferimento è a: La pratica del surf del 20 Ottobre 2024.
² Una volta Maezumi Roshi e io stavamo viaggiando su un treno ad alta velocità in Giappone. Roshi sedeva vicino a me, e di fronte avevamo una coppia. Il marito era membro del direttivo dello Zen Center di Los Angeles… La moglie non era una praticante zen.
Mentre stavamo chiacchierando, la donna guardò Roshi e disse: “Tra tutte le persone che conosco, lei è probabilmente quella che si trova più a suo agio nel non sapere chi è” . Dennis Genpo Merzel, Se l’occhio non dorme, Ubaldini1993, pag. 45. Ecco com’è!
³ Inverare le cose mettendo avanti se stesso: questo è l’illusione; partendo dalle
cose inverare se stesso: questo è il risveglio. Dōgen, Genjōkōan.
⁴ Apprendere la via di Buddha è apprendere se stesso. Apprendere se stesso è dimenticare se stesso. Dimenticare se stesso è essere inverato da tutte le cose. Essere inverato da tutte le cose è libertà nell’abbandonare corpo e spirito di se stesso e corpo spirito altrui. È risveglio che riposa da ogni traccia a il non lasciare traccia di se stesso. Dōgen, Genjōkōan.
La pratica del surf
A Nicolas Bouvier
monaco malgré lui
Quanto può accadere nelle vicissitudini di chi è dedito/dedita alla pratica della
grande Via è di portare allo scoperto quanto lo/la abita. Non è forse quanto si andava cercando; pure, non è di poco conto sapere chi si è mentre il cammino ci spiuma. ¹
Nel diventare uomini e donne, forme nel mondo delle forme, per una infinità di ragioni, di contesti, di modi, si può aver avuto necessità di costruirsi una bella corazza tutt’attorno a se stessi. L’idea di partenza potrebbe essere stata che ci si debba difendere da qualcosa. E così dalla paura nasce la necessità del controllo, ovverosia la presa di distanza dalla viva vita che canta, batte, pulsa; e, a cascata, un’infinita serie di stratagemmi a cui necessariamente e purtroppo seguono effetti. Uno per tutti: diventare lenti. Poiché ad ogni incontro che la vita ci offre vien contrapposto un pensare che è un calcolare. Calcolare quanto quest’incontro che viene potrebbe toccarci.
Amen!
E dire che la vita non è altro che incontri! E ancora, giunti qui, che fare di
questi volti sprofondati nel calcolo seriosamente atteggiati a posture che sembrano riflessive mentre la vita scorre loro accanto, non vista? ²
Ma non è finita. Poiché pensare abbisogna di parole e le parole si aggrumano in concetti, così compiendosi la tessitura della corazza che, ora, comincia a toglierci il respiro.… concetto deriva da cum-capere, afferrare… Afferrate dai concetti, le cose perdono quel corredo naturale che le accompagna… Il concetto è controllo, il controllo è dominio, il dominio ha in vista il possesso delle cose. ³
Eccoci in trappola. E abbiamo fatto tutto da soli.
Da qui in avanti diventa arduo incarnare l’adesso, il fluire vivente, la gioia, il
silenzio, kairós - il momento opportuno -, il non-nato, la non-mente. Da qui in avanti è perciò necessario sedere, sedere, sedere. Semplicemente sedere. Shikantaza. Non c’è altro modo 4.
Per fare surf basta l’onda, il vento e, soffice, un corpo che fluisce con essi. Ecco la gioia. Ecco la libertà. Con la paura, il pensiero, il controllo - in una parola sola con la consapevolezza ⁵ -, basta quello che c’è: un corpo rigido con la sua selva di demoni.
La rosa che siete amerebbe fiorire; ma non ce la fa così serrata nel pugno!
Ecco, adesso capite perché non mi sono mai sognato di invitarvi ad essere consapevoli, nella pratica; si tratta di altro controllo, forse appena più raffinato, ma pur sempre controllo. Dove - e qui è il punto, qui casca l’asino - necessariamente viene portato in scena l’agente, il soggetto, il me di un tale agire.
E l’onda ci passa accanto, magnifica. E la vita scolora.
Vicenza 20 Ottobre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
1 E qui, abbiate pazienza, ma di tanto in tanto - adesso per esempio - tornano i miei incontri fatati: Un passo verso il meno è un passo verso il meglio. Quanti anni, ancora, prima di avere definitivamente ragione di quell’io che pone ostacoli a tutto? ... Non si viaggia per addobbarsi d’esotismo e di aneddoti come un albero di Natale, ma perché la strada ci spiumi, ci strigli, ci prosciughi… Diventare riflesso, eco, corrente d'aria... Nicolas Bouvier, Il pesce scorpione, Laterza 2006, pagg. XIII-XIV.
² Non è neanche da dire come tutto questo pensare, tutta questa paura, il controllo, siano nient'altro che fantasie. Nessuno controlla alcunché, figurarsi la propria vita, se non nelle sciocchezze. Ma questo sarebbe il tema di un altro discorso.
³ Umberto Galimberti, Idee: il catalogo è questo, Feltrinelli 1992, al lemma Profezia.
⁴ Cessare di ogni afferrare, cessazione di ogni aggiungere: liberazione. (Nāgārjuna)
⁵ Wikipedia: In psicologia, con il termine consapevolezza si intende la capacità di essere a conoscenza di ciò che viene percepito e delle proprie risposte comportamentali. Si tratta di un processo cognitivo distinto da sensazione e percezione.
Un'altra definizione la descrive come uno stato in cui un soggetto è a conoscenza di alcune informazioni quando tali informazioni sono direttamente disponibili per essere trasferite nella direzione di un'ampia gamma di processi comportamentali. Il concetto è spesso sinonimo di coscienza ed è anche inteso come coscienza stessa. Gli stati di consapevolezza, in modo che la struttura rappresentata nella consapevolezza si rispecchi nella struttura dell'esperienza stessa. Treccani: consapevolézza s. f. [der. Di consapevole]. – L’esser consapevole; cognizione, coscienza: avere c. delle proprie responsabilità; agire con piena c.; la c. del male fatto può essere principio di pentimento.
Quello che c’è
Nel precedente discorso ¹ vi ho parlato di una landa desolata; oggi torniamo a casa dimenticando i morti. Pure, c’è un filo tra i due temi. A voi portarlo alla luce.
L’aspirazione che ci muove a trovare un modo di vivere privo di sofferenza è solo un altro desiderio egoistico. Sostituiamo un desiderio di fama e ricchezza con un desiderio di emancipazione e risveglio. L’oggetto del desiderio è diverso, ma ciò che accade dentro di noi è la stessa cosa…. Quando ci votiamo seriamente a praticare, questa diventa una questione cruciale: il desiderio di eliminare l’ignoranza non è forse causato esso stesso dall’ignoranza? ²
Sembra una trappola. Non vanno bene i master in contemplative studies; la mindfulness; i corsi meditativi online; l’avatar; buddha nel metaverso…; ma non va bene nemmeno aspirare al risveglio. E qualcuno di voi potrebbe sentirsi cacciato in un labirinto dove non si trova o non c’è uscita.
Lo capisco. Non mi è difficile da capire. Sono passato da lì anch’io. La pratica della grande Via necessariamente comincia col me; così come, anche qui necessariamente, la nostra vita nel mondo è cominciata col vagito. Pure, questo non implica che per tutta la vita si debba fare i poppanti.
Pure, questo non implica portarsi appresso per tutta una vita la zavorra del me.
Nella misura in cui lottiamo per eliminare l’ignoranza e i desideri, siamo ancora
all’interno del nostro individuale sé karmico, basato su ignoranza e desideri. Creiamo una faida senza fine tra i due lati di noi stessi. ³
E qui, lasciandovi soli - come sempre siamo - nel ritrovare quel filo e dirimere
l’intreccio, si pone una grande questione. Forse la massima questione. E la
questione è: se non è il me/io quell’eppure ⁴ che conduce il samsāra al nirvana, cos’è? Ovvero, com’è che il carattere karmico traghetta nel Carattere dharmico?
La pratica della grande Via, se non c’è nessuno che fantastica di intestarsene la
paternità, è per sua natura una pratica alchemica. Vale a dire che, non tralasciando e non escludendo niente, a suo modo porta tutto ad uno stato di ebollizione - diciamo così - tale da trasfigurare.
È così che le ossessioni, le abitudini, le idiosincrasie di ogni personale mi piace/non mi piace - in una parola il carattere karmico -, piano piano scolorano, non scomparendo mai del tutto benché divenienti sempre più inefficaci. E i demoni continueranno a farci compagnia sedendo sul nostro stesso cuscino.
Chi opera tutto ciò, nel destino dei nostri giorni, è la costanza nella pratica, il
silenzio della mente immobile e la fede. Giorno per giorno lasciamo che la pioggia ci bagni e che il sole c’infiammi; non disperandoci, non recriminando, non rimuginando, non lagnandoci e non sognando scorciatoie. A furia di camminare nella nebbia, senza che nessuno-lo-sappia diventiamo zuppi. Ecco, la nebbia è quel gyōji dell’imperturbabile pratica ininterrotta, come insegna Dōgen ⁵.
Cercare di mettere le mani su questo processo - giacché di processo si tratta e non di una sostanza in sé e per sé; anātman e non ātman -; cercare di mettere le mani su questo processo disequilibra e porta allo scacco.
Si tratta di far intersecare due nature diverse che di per sé non s’intralciano ma che non è possibile sovrapporre. La prima, il me/io è necessariamente sofferente e cieca; la seconda è l’Aperto. Sunyata. La santa vacuità.
Ecco, guardate, ora vi sto donando una rosa. Questa rosa. Ma questa rosa non è una rosa. Pure, proprio per questo è una rosa.
Qui, la terza rosa è assai diversa dalla prima in quanto trasfigurata dal suo esser passata per Anatta/Anicca - non sé/impermanenza -, e perciò ora è nell’Aperto. E proprio per questo è veramente una rosa.
Il Sutra del Diamante la dice così: Vedere tutte le forme come senza forma è vedere la vera forma.
E allora, giunti qui, cosa fare?
Lasciate la presa. Qualunque presa. Mollate l’appiglio. Qualunque appiglio. Scoprirete di saper camminare sulle acque. Farete un passo oltre il ciglio della rupe e non cadrete. Canterete. Vi inchinerete, occhi umidi, al cielo che s’annuvola, abbraccerete un albero...
E Buddha - il flusso vitale, l’evento, un colpo di vento - non troverà più ostacoli. ⁶
E allora…
Allora ci sarà un riconoscimento - stesso volto stessi occhi -. E riderete.
Ecco quello che c’è!
¹ Si tratta di Imbellettare i morti, del 9 Ottobre 2024
² Shōhaku Okumura Roshi, Il canto dello Zen, Ubaldini 2012, pag. 193
³ Shōhaku Okumura Roshi, op. cit., pag. 197
⁴ Samsara-eppure-nirvana, di cui abbiamo parlato nel nostro Keiji Nishitani ovvero sul cavar sangue (di dharma) dalla rapa filosofica
⁵ È l’atto, l’agire quella particolare azione nella nostra esistenza fenomenica, il totale
esercizio di una singola cosa (ippo-gūjin), o semplicemente il totale esercizio (gūjin), che realizza totalmente la nostra vita (genjō-kōan) e che le dà il verso giusto. Vedere il nostro Quattro passi con Dōgen.
6 ...un bacio è un evento. Non ha senso dove sia andato il bacio domani. Il mondo è fatto di reti di baci… Carlo Rovelli, Helgoland, Adhelphi 2020, pag. 87
Vicenza 13 Ottobre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
Imbellettare i morti
Quel che si vede, oggi, della nostra pratica nel mondo: master in contemplative studies; linee patriarcali ripiegate in counseling; corsi meditativi online; avatar… Ci si potrebbe rattristare; mentre, invece, quanto mi sale alla gola è una poderosa risata, come ai tempi del Ch’an.
L’idea di fondo, in chi facendo così si gioca la vita e mette in gioco il dharma, è
che occorra ammodernare l’antica pratica e l’antico insegnamento. Ma una cosa è l’abile mezzo e l’abile intelligenza con le quali Śakyamuni corrispondeva all’interlocutore ed alle situazioni, altra, molto altra, immettere in un corpo- mente già confuso, altra confusione, altro veleno. Confusione e veleno che sono lo stemma di questo nostro tempo.
Dimenticando Anatta/Anicca, non sé/impermanenza, quel formidabile tandem dell’origine, si alimenta la sofferenza e si propaga l’illusione che sia il me/io a poter essere condotto alla gioia e alla liberazione. Quando, come sappiamo e come ha sempre insegnato la grande Via, il me/io è il problema e mai la soluzione.
Cessazione di ogni afferrare, cessazione dell’aggiungere: liberazione
(Nagarjuna). O, anche: Studiare il buddhismo è studiare se stessi; studiare se stessi è
dimenticare se stessi (Dōgen).
Perciò chiedo: ammodernare che? Ammodernare cosa se, nel fare questo, è poi necessario partire dalla menzogna che il me/io possa essere imbellettato piuttosto che dimenticato?
E se di questo si tratta, se di dimenticare si tratta, a chi si proporrà il master, i corsi
online… Ma veramente credere che il silenzio abbia bisogno di essere ammodernato?
Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e
annunzia il regno di Dio.
Vicenza 9 Ottobre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
IL DRAGO E IL BAMBINO
Un drago e un bambino si ritrovarono, in un’alba lucente, nella stessa grotta poco prima della cima di un’alta montagna.
Il bambino forse aveva fame e piangeva, dentro il cesto dov’era, appallottolato in una lana del colore di una capra avvezza agli alpeggi, ai dirupi ed ai rovi. E alle merde.
Il drago, acciambellato proprio sul fondo della grotta, alle estremità la testa e la coda armata di aculei, a quel pianto si svegliò. Non ne sapeva niente di bambini e di pianti; conduceva la sua vita solitario, forse solo, finito il tempo nel quale in ogni giorno il cielo veniva oscurato da quelli come lui.
Mosse la testa verso quel suono querulo e fiutò. Sentì l’odore dell’umano e tremò. Conosceva, quell’odore. Così si allungò, quasi senza muoversi, cominciando a strisciare verso l’imbocco della grotta e la pallida luce che ne proveniva.
Il bambino non smetteva di piangere e di dimenarsi, tanto che la cesta dov’era
prese ad ondeggiare. Il drago s’immobilizzò. Ancora non capiva con cosa aveva a che fare. Poi... Poi fece andare avanti la coda, ad arco, pian piano, che strisciando con gli aculei sulla pietra delle pareti, faceva un controsuono, un altro suono, oltre al pianto. Timidamente arrivò alla cesta; la toccò; si scostò; la toccò ancora, prendendo ad assecondarne il dondolio.
Non durò molto. Ma ora che la cesta riconosceva la presenza della coda del drago, il bambino cessò di piangere, rintanandosi meglio nella coperta che sempre più - ora che s’alzava una nebbia di latte -, sapeva di capre e di bosco...
Ora, ora che è Settembre, un uomo siede nell’antica postura, sull’imbocco della grotta, tra le spire del drago che, guardandoci, sorride.
Vicenza, 27 Settembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
Non c’è un altro modo
Ogni tanto sogno le vicissitudini di questa piccola comunità che da più di trent’anni siede e vivifica la grande Via e, nel sogno, vedo scorrere i volti, la voce e gli sguardi di quanti, centinaia, hanno lasciato le cose a metà dirigendosi altrove.
È assai probabile che si tratti solo del fatto che invecchio; in verità non ho grande interesse a ricordare e, tanto meno, a discutere la vita-pratica di qualcun altro. Pure, è quello che accade. Ed è con questa premessa che mi accingo a mandarvi questo messaggio in bottiglia...
L’inferno è la parte peggiore del samsara ed è considerata la più straziante. Ma
Dongshan disse che c’è una condizione ancora più dolorosa. Quando inseguiamo qualcosa, anche il Risveglio, la pratica diventa un’attività interna al samsara… se si conosce… il Dharma del Buddha, si sono già ricevuti i precetti, già si indossa l’okesa e si pratica lo zazen e ancora si insegue qualcosa, non c’è modo di salvarsi. ¹
È quanto succede. È quanto è successo. È tutto racchiuso, come il gheriglio in una noce, in quell’angosciante cercare continuamente qualcosa, continuamente assetati, inappagati, orfani, bisognosi, monchi. Perciò, si può anche aver praticato per dieci anni, ma se quella pratica è rimasta un’attività interna al samsara, non potrà mai meravigliare l’epilogo. E non c’è veramente modo di salvarsi.
Perché accade questo? Non lo so. Non si sa. È come chiedersi perché questo chiodo penetra agevolmente nel muro e quest’altro s’affloscia… Quel che so, quel che conta, è incarnare pratica-risveglio di Dōgen Zenji...
Illusione e Risveglio sono entrambi qui. Non vengono né negati, né affermati, né afferrati. Sediamo sul terreno del lasciare la presa e lasciar andare… Non c’è altro stato da conseguire che la nostra pratica del lasciare la presa. ²
A questo punto, direi così: rivediamoci fra dieci anni...
Vicenza 22 Settembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Shōhaku Okumura Roshi, Il Canto dello Zen, Ubaldinini 2016, pag. 99
² Shōhaku Okumura Roshi, Il Canto dello Zen, op. cit., pag. 74
Il suono della vacuità
Che la vacuità possa avere un suono è una questione piuttosto che un’asserzione. E la questione è: ciò che è vuoto può avere qualcosa? Qualcosa oltre se stesso, cioè vacuità?
È il medesimo problema che sempre pongono questi discorsi. Tutti, in un modo o nell’altro, presi nella rete del lasciare andare, dimenticare, aprire le mani.
Ma, allora, perché fare questi discorsi?
Antica – e a me appare eminentemente comica - mai risolta questione.
Questione che il Ch’an aveva risolta a suo modo: Se parlate, trenta bastonate. Se state zitti, trenta bastonate!
Risolta non risolvendola è come l’affronta il Ch’an; così come irrisolta risolvendola è la nostra pratica di camminare sul filo, non scegliendo né rifiutando. Non vogliamo
fuggire l’illusione e non cerchiamo il risveglio, poiché l’una e l’altro non sono altro che sunyata, la santa vacuità.
E allora? Allora samsara-eppure-nirvana (Nishitani) ¹ , dove il focus è tutto qui: eppure.
E, di nuovo, trenta bastonate!
Vicenza, 10 Settembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
1. Si può utilmente vedere il nostro Keiji Nishitan ovvero sul cavar sangue (di dharma) dalla rapa filosofica.
La grotta del Patriarca
Praticando la nostra pratica, vivendo la nostra vita illuminati dalla stella di bodaishin - la mente che cerca la Via - accade che ovunque ci troviamo, in qualunque faccenda siamo affaccendati, non siamo mai veramente altrove che nella grotta di Bodhidharma. Seduti insieme a lui. Seduti come lui.
Perciò, per noi, il luogo della pratica non è solo quello che definiamo così: zendo. Zendo è ovunque siamo presenti in questo preciso istante, e mai nessuno potrà portarcelo via. Il luogo della pratica è il nostro cuore risvegliato che non si smarrisce nella confusione.
Qui, nella mia grotta, dove presenzio a me stesso in attesa che la calura sbollisca, ora sto leggendo così (Il canto dello Zen, Shōhaku Okumura):
La pratica non è uno strumento per sbarazzarci di pensieri illusori… No, quello che dobbiamo fare è sedere in zazen e lasciare andare tutte le idee dualistiche. Così facendo la vera realtà si manifesta da se stessa. Illusione e risveglio sono entrambi qui. Non vengono né negati, né affermati, né afferrati. Sediamo sul terreno del lasciare la presa e lasciar andare. Questo è il significato dell' espressione di Dogēn: “Pratica e Risveglio sono tutt'uno” .
Ecco. Così. Né negati, né affermati, né afferrati. Non è difficile. Quel che conta è vedere che non ci manca e non ci è mai mancato niente. Vivere, infine, è il nostro meraviglioso zendo.
Ovunque giri lo sguardo ogni cosa è in postura. Alberi, pietre, fiumi e montagne, uccelli nel cielo.
Non sprecate la vostra preziosa vita. Non fuggite. Non cercate giocattoli.
Pratica-risveglio: una sola questione.
Campodalbero, 31 luglio 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
Samsara
Qualche giorno fa mi è giunto un messaggio da un giovane amico attivo nel teatro che,
per un po’, ha praticato con noi.
Il messaggio diceva così:
Abbiamo necessità di sogno e immaginazione. Questa è, per l’uomo, la resurrezione.
A cui ho risposto così:
Abbiamo necessità di silenzio per vedere e per sentire. E il silenzio è una mente che non corre più appresso a niente. Immaginare, sognare, desiderare… Non finiscono mai. Vedere e sentire veramente è scoprire che non ci manca niente. Fine della corsa.
Il punto del pensiero del mio amico, per quanto teso artisticamente, è ribadire
l’ovvio. Quello di cui parla, difatti, da duemilacinquecento anni almeno si chiama
samsara. Che è la consueta condizione di vita dell’umano sulla terra. Sofferenza appresso a sofferenza poiché, appunto, i sogni non finiscono mai e niente può essere afferrato… (E non vorrei scomodare il mio amato Epicuro e il suo trattare i desideri… Epicuro che, in ogni caso e in qualche modo, fa intendere come non sia esclusiva del buddhismo questo discorrere intorno ai desideri…)
Ora, vivere un’altra vita con un diverso orizzonte, vivere cioè fra desideri e sogni dribblando continuamente desideri e sogni, non è niente di speciale, come hanno sempre detto i nostri maestri, pure, in questo niente accade un totale capovolgimento di scena. Al samsara, difatti, noi non opponiamo qualcos’altro, il nirvana per esempio, poiché certi di come non ci sia ¹ né l’uno né l’altro.
Se non facessimo così non eluderemmo affatto la dualità e, a quel punto, dovremmo
necessariamente operare una scelta fra uno dei due corni della questione. Ma se salta la contrapposizione stessa e la dualità cade, quel che troviamo è l’esistenza che esiste senza opporsi a niente. Semplicemente esiste. I fiori fioriscono così come fioriscono (Dōgen).
Semplicemente, eccolo il nostro modo di camminare nella grande Via:
samsara-eppure-nirvana (Nishitani).
E, qui, lasciamo il nostro amico al suo destino e passiamo a noi. Giacché non
sono sicuro che abbiate capito.
Dite: ma come si fa a vivere dribllando desideri e sogni? Cosa ci resta? In altro modo: con quale energia vivere?
Torna utile qui ricordare cosa ho sempre detto a proposito dei personali
demoni. Cosa ho detto? Di combattere per ricacciarli indietro? Ovvero di
accoglierli…? Ma accoglierli come, senza farsi divorare?
Se la vostra vita è guidata dal silenzio della mente immobile, dalla vivida pratica di zazen, accogliere i demoni o accogliere i sogni è il medesimo agire. Fate passare sogni, desideri e demoni dal setaccio dell’immobilità e del silenzio e quel che ne verrà sarà energia fresca, forte, senza dubbi. Perché? Perché, come ripeto da anni, la pratica è alchimia che trasforma senza scartare niente. Ecco samsara-eppure-nirvana!
Non sarà mai la mente illusa a vagliare i sogni/desideri buoni da quelli cattivi per il semplice fatto che non può. Dimenticate tutto e sedete silenziosi e forti. Da lì, da qui, passa il fiume della vostra vita ², e da lì, da qui, passa il miracolo. Samsara-eppure-nirvana!
Nel far questo abbiate cura del vostro spirito. Non dormite. La mente del risveglio non indugia, non delega, non è acquiescente, ma indaga, scava e con
quieta passione ama il dharma per il dharma e la vita per la vita. A prescindere!
Amore a parte, cielo a parte, il punto è in quel a prescindere. A prescindere dal me
poiché la grande Via, il cielo, conosce solo vastità. E i miei sogni, i miei desideri?
Nuvole prese nel vento di mujo, l’impermanenza. Resta il cielo. Resta l’amore.
Vicenza, 5 Aprile 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Śākyamuni (anattā/anicca - non sé/impermanenza). Nessun fenomeno ha sostanza in quanto Sunyata, la santa Vacuità.
² In verità il fiume della vita di ogni esistenza...
Falso movimento
Della lettura di questo Dōgen ¹ non mi resterà molto. Aveva scavato di più Hee-Jin Kim ². Pure, proprio in fondo al volume, probabilmente più rilassato, Heine sembra risorgere. Ne darò un accenno, qui, perché connesso a quanto sperimentiamo insieme.
Per Dōgen, la missione dell’insegnamento non consiste nel portare il Buddha sulla terra… cosa che implica la discesa da un regno superiore. Piuttosto, raffigura l’impegno per un’autenticità che trascende ma si trova pienamente nel quadro della vita quotidiana…
L’obiettivo… era ribaltare il modo di vedere degli allievi, distogliendoli dal
considerare i metodi di pratica come strumenti per alterare l’esistenza per portarli invece verso un punto di vista basato sulla realizzazione, in cui la continua riflessività contemplativa si sintonizza con la qualità sempre presente dei Buddha che diventano Buddha. ³
Prolisso da morire ma il discorso è chiaro. Dove mi interessa quel trascendere che in verità non trascende poiché si trova a proprio agio lì dov’è, nella vita quotidiana. Un falso movimento, si potrebbe dire; sebbene un movimento essenziale.
Mi capita di parlare di trascendenza. L’ultima volta credo sia stato ne Il pane e lo Zen… ⁴
Ora, perché dire trascendenza se poi si tratta di immanenza? Ecco una buona domanda che, magari, avreste potuto fare voi. ⁵
Finché si resta nella coppia (trascendenza/immanenza), non c’è soluzione né si può rintracciare la ragione per la quale, in questo caso, sia io che uno studioso di Dōgen, come Heine, parliamo di trascendenza.
Ma se solo si riporta la questione lì dove deve stare, ovverosia nel silenzio della
mente immobile, allora si intenderà che proprio questo aderire al corpo nella non- dualità - zazen - farà emergere che (anche) il corpo non è un corpo. ⁶
Ecco l’Aperto! Ecco Sunyata, la santa vacuità. E se - ad un certo punto del processo di evenienza della mente immobile - siamo qui, se veramente siamo qui, proprio questo toccare amorevolmente il corpo nella più avvolgente e calda immanenza, conduce laddove...
… non c’è forma né sensazione, né percezione, né discriminazione, né coscienza;
non ci sono occhi né orecchi, naso, lingua, corpo, mente; non ci sono forma né suono, odore, gusto,
tatto, oggetti; né c’è un regno del vedere,
e così via fino ad arrivare a nessun regno della coscienza; non vi è conoscenza, né ignoranza,
né fine della conoscenza, né fine dell’ignoranza, e così via fino ad arrivare a né vecchiaia né
morte;
né estinzione di vecchiaia e morte; non c’è sofferenza, karma, estinzione, via;
non c’è saggezza né realizzazione... ⁷
Incontrare il mondo con mente immobile, difatti, una rosa per esempio, fa sì che
nell’incontro, nel reciproco toccarsi, si apra sia la rosa sia chi la tocca. Non perdendo
niente, se non l’illusione, ma dando vita al mondo. Tutte le cose sono nella terra
natia di una certa cosa e fanno che essa sia ciò che è. ⁸ Amen!
Vicenza, 25 Marzo 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Steven Heine, Dōgen. La vita e l’opera del fondatore della scuola Zen Sōtō, Ubiliber, 2023
² Hee-Jin Kim, L’essenza del buddhismo Zen, Dōgen, realista mistico, Mimesis, 2010
³ Steven Heine, op. cit., pag. 265
⁴ … a vivere l’esperienza dell’Aperto è la vita che siamo, che include la mia ma che decisamente la supera. Una trascendenza, perciò, pur rimanendo sempre ancorati a quel corpo che siede sul cuscino.
La pratica Zen è corpo! Nessun aldilà quanto, piuttosto, una gioioso aldiquà… Capitolo: La meditazione...mi può servire per stare meglio?
⁵ Il punto dell’espressione sconcertante di Jashan è che il discepolo e il maestro devono essere in grado di sfidarsi l'uno dall’altro da pari, piuttosto che rimanere in una relazione gerarchica. In Steven Heine, op, cit. pag. 278
⁶ … stare semplicemente seduti non è solo una questione di stare seduti. In Steven Heine, op, cit. pag. 275
⁷ Maka Hannya Haramita Shingyo o Sutra del Cuore.
⁸ Il nostro: Keiji Nishitani, ovvero sul cavar sangue (di dharma) dalla rapa filosofica, pag.
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Questo testo è la prima cosa che gli utenti vedono sul tuo sito. É il luogo giusto per descrivere in breve di cosa si tratta.
L'architrave del mondo, ovvero
zazen non è (solo) zazen
Certo, nel mondo dobbiamo adoperarci affinché non si giunga all’atomica… Pure, non è sufficiente.
Pure, non è questo il punto.
Nel sedere, come sediamo noi; nello zazen di Dōgen il come è dirimente. La postura, difatti, non è a caso, così come capita, ma accuratamente studiata e vagliata dai corpi di generazioni di uomini e donne della grande Via. Dal Ch’an dell’epoca Tang, almeno.
Ora, quel che la distingue e la fa unica è che il tronco svetta, forte, mentre dal bacino in giù si sprofonda nella terra. Tenere il cielo in alto e la terra in basso: ecco la postura di zazen! Con la nuca spingiamo in alto il cielo e con le ginocchia confortiamo la terra che tutto sostiene.
La deflagrazione che temiamo più d’ogni altra, difatti, è che il cielo declini in
giù e che la terra - paradossalmente - non abbia alcunché da sostenere.
Questo è il punto.
Il punto è che il risveglio ¹ tiene unito e vivo il mondo, prima e a prescindere da come l’umano veda tutto ciò. Conformarsi ² a questo stato primordiale del mondo - il risveglio - fa sì che tutto risuoni e faccia luce.
Nella postura, e perciò nel punto - per l’umano - più dappresso a questo, nel far
da tramite senza che nessuno-lo-sappia svolgendo il ruolo di Hermês ³ affinché
tutto liberamente fluisca ma niente si confonda, in questo sta il senso ultimo di quel che noi
chiamiamo postura di risveglio. Che, da oggi, potremo anche chiamare così:
l’architrave del mondo!
Vicenza, 8 Marzo 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Il così com’è di ogni cosa. I fiori fioriscono così come fioriscono (Dōgen).
² Con-formarsi, formarsi insieme a, aderire a questa forma.
³ Vedere il teisho Hermês.
Hermês
Enthusiasmós e zazen [1]. Ora, prendo slancio da quell’enthusiasmós e da quel dio dentro di sé, e gioco con voi.
Perciò domando: tra gli dèi della classicità greca quale s’adatta meglio al nostro essere viandanti della grande Via?
Io non ho dubbi: è Hermês! Hermês dalle ali lucenti, come recita uno dei suoi epiteti.
Da Wikipedia:
Ermes, Hermes o Ermete, (in greco antico: Ἑρμῆς Hermês), è una divinità della mitologia e delle religioni dell’antica Grecia. Il suo ruolo principale è quello di messaggero degli dèi. È inoltre il dio dei commerci, dei viaggi, dei confini, dei ladri, dell'eloquenza e delle discipline atletiche. Svolge anche la funzione di psicopompo, ovvero di colui che accompagna le anime dei defunti verso l’Ade. Figlio di Zeus e della Pleiade Maia, è uno dei dodici Olimpi. I suoi simboli sono il gallo e la tartaruga, ma è chiaramente riconoscibile anche per il borsellino, i sandali e cappello alati e il bastone da messaggero, il caduceo.
Per gli antichi Greci, infatti, in Ermes si incarnava principalmente lo spirito del passaggio e dell'attraversamento: ritenevano che il dio si manifestasse in qualsiasi tipo di scambio, trasferimento, violazione, superamento, mutamento, transito, tutti concetti che rimandano in qualche modo a un passaggio da un luogo, o da uno stato, all'altro. Questo spiega il suo essere messo in relazione con i cambiamenti della sorte dell'uomo, con lo scambio di beni, con i colloqui e lo scambio di informazioni consueti nel commercio nonché, ovviamente, con il passaggio dalla vita a ciò che viene dopo di essa.
Ed è qui il punto. Perché, mi son sempre chiesto, arrivare a porre una divinità per gli incroci di strade? Cos’è un incrocio? Ecco cos’è: in samsara-eppure-nirvana di cui ci ha parlato Nishitani [2] è, esattamente, l’eppure! Scandalosamente lasciando di lato, in prima istanza, i poderosi samsara-nirvana noi viviamo quell’arte che è indicata dall’eppure. Ed Hermês dell’arte della mescolanza s’intende!
A volte, tutto questo lo indichiamo dicendo: la spada di Manjusri! E, di nuovo, il filo della lama quale discrimine non per separare ma per includere. Così, nella nostra pratica, non diciamo mai vita-o-morte, ma vita-e-morte! [3] Tanto da disinnescare una volta per tutte ogni dualità.
Poi, e mi piace da morire, Hermês ama i mercati, le greggi e i pastori, tutto quanto è vita nel mondo, tanto da farmi ricordare dove si ritrova l’uomo risvegliato del Ch’an nell’ultimo quadro del Toro [4]. Dove si ritrova? In un monastero? In una cella da eremita? A casa sua? Ma và… Si ritrova in un mercato!
Poi… Poi che Hermês ami i ladri è un colpo di genio. Inconcepibile. Inspiegabile. Ma d’un immenso profumo di vita aperta e gioiosa, profumo che ancora oggi m’arriva alle narici.
Lo sentite anche voi?
Vicenza, 7 Marzo 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
[1] Ne ho parlato in L’arco e la freccia.
[2] Vedere il nostro Keiji Nishitani ovvero sul cavar sangue (di dharma) dalla rapa filosofica.
[3] E alto-e-basso, santo-e-peccatore, buono-e-cattivo...
[4] Vedere il nostro Le foglie stanno volando via dal mondo. I dieci quadri del Toro. Un’antica storia Ch’an
L'arco e la freccia
Enthusiasmós [1] e zazen.
Alla fine potremmo anche dirlo così il nostro vivere il dharma nella terra del tramonto…
A partire dal dio dentro di sé, sediamo immobili sopra un cuscino nero, sconosciuti a noi stessi.
Ecco l’arco da cui parte la freccia. Esuberanza gioiosa del dio che (si) dimentica.
Clarice Lispector la dice così: … Dimenticarsi di sé e tuttavia vivere molto intensamente...[2]
Questo è il punto.
Vicenza, 6 Marzo 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
[1] Έv (in) theós (dio) e ousía (essenza). Con un dio dentro di sé.
[2] Clarice Lispector, Un soffio di vita, Adelphi 2019, pag. 17
Il Lonfo in zazen
Un giorno ti svegli e da un altro mondo è arrivato un dono… Si tratta di un testo di Fosco Maraini, Il Lonfo [1], reso nell’interpretazione di padre e figlia [2] che mi ha scatenato inarrestabili lacrime di gioia nonché una profonda riflessione sulla nostra Via.
Il punto è cos’è il senso, chi lo dirige e che ripercussioni ha; il tutto specchiato nella nostra tradizione Ch’an e perciò nella nostra pratica e vita.
E torniamo... (giacché noi torniamo sempre allo stesso punto, all’adesso del kairós, il tempo opportuno che, sempre, è questo tempo…) torniamo a quanto abbiamo discusso recentemente. [3]
Platone… un esempio nefasto per la storia della filosofia, poiché ne condiziona l’intero sviluppo occidentale. È lui a strappare l’uomo alla molteplicità degli orizzonti possibili, imponendogli il tributo al logos e paralizzandone la creatività. [4]
Ma anche:
Aristotele soffoca l’areté, - cioè l’esaltazione d’un sapere pratico, aperto al mondo e alla vita - sottolineata dalla filosofia e dall’epica precedente, per porre in primo piano la ragione, la logica e la conoscenza. In tal modo “l’areté è morta e la scienza, la logica, e l’università come la conosciamo oggi, ricevono il loro atto costitutivo e la loro missione… È la nascita del sistema. [5]
E ora…
Non sto affermando il privo di senso, né l’ostile al senso: dico nonsense per sottolineare che le cose sono estranee al principio di non contraddizione. Il nonsense è il momento del nudo… “Tutto è lì”: il motto del nudo… Le parole del nudo sono costellate dal silenzio… I fatti avvengono… [6]
Io sento aria di famiglia. Non succede così anche a voi? Immanenza, silenzio, il mondo avviene. E la meraviglia è che, preso un tale passo ed un siffatto orientamento, quel che nasce è gioia contagiosa, effervescenza per cui se guardi il cielo, naturalmente ti inchini, se tocchi un albero, si trema… Le paratie cedono... Attenti. Il Lonfo s’avvicina...
Il nonsense si coglie sospendendo i nostri abituali punti di riferimento… è come un tramonto sul lago, uno stormo di anatre nei cieli. Per cogliere questi eventi, anziché “comprensione”, si dovrà parlare di “intuizione”, di apertura alla non significanza. [7]
Anche perché, senza quella sospensione chi potrebbe mai sedere silenziosi in zazen?
La domanda implica la ricerca del senso. Appena si apre bocca, si è lontani… Ogni risposta è già nella domanda… Ponendo la domanda, sbagliamo; non ponendola, sbagliamo… L’azione del domandare e del rispondere si compie senza saperlo. Si tratta di una consapevolezza inconsapevole. [8]
L’unica consapevolezza che contempli, come sapete.
Ma c’è ancora qualcosa che vorrei proporvi. Si tratta di temi molto presenti all’interno della nostra piccola comunità che non sarà male rimettere al centro.
Nella psicoterapia… il paziente si libera proprio quando s’accorge che le sue preoccupazioni erano infondate, irreali, e i suoi problemi illusori e inesistenti… È una
situazione straordinariamente affine a quella del discepolo Zen. Questi cerca di liberarsi dei propri desideri… Chiede dunque al maestro la via da seguire… “Che bisogno c’è di liberarsene?” - risponde il maestro, facendo capire che il problema è inconsistente; finché si crede al circolo ‘enigma(‘problema’)/’soluzione’ si è ancora lontani dall’illuminazione. Finché si crede a questo circolo, si pensa ancora, erroneamente, che esista un ‘io’ da salvaguardare, poiché il problema può esistere soltanto per un ‘io’ corrispondente. Quando però questo ‘io’… si rivela nudo, nessun problema può più essergli correlato, e si può tirare un respiro di sollievo… Da questo punto di vista seguo Alan Watts, che mi fece capire chiaramente come la nevrosi non dipenda dall’indebolimento dell’io, bensì… da un ‘io’ eccessivamente forte... [9]
Senza aver visto e realizzato tutto ciò, Buddha latita, l’Aperto non si apre e la gioia del risveglio avvizzisce.
Pure…
Il Lonfo non vaterca né glutisce
e molto raramente barigatta...
Vicenza, 28 Febbraio 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
1 https://www.labottegadelbarbieri.org/fosco-maraini-il-lonfo/
2 https://youtu.be/WJxb1y5FEXk?si=R7BtPbj_5qAHfc8E
3 Si tratta dei teisho Zen d’Occidente e I corpi, ovvero i giardinieri dello Zen.
4 Leonardo Vittorio Arena, Sul nudo, Mimesis 2015, pagg.12-13.
5 Leonardo Vittorio Arena, Del nonsense, QuattroVenti, Urbino, 2000, pag.27, nota 29.
6 Leonardo Vittorio Arena, op. cit., pagg.14-15.
7 Leonardo Vittorio Arena, op. cit.pag. 28.
8 Leonardo Vittorio Arena, op. cit. pag. 32.
9 Leonardo Vittorio Arena, Del nonsense, op. cit.., pagg.42-43.
I corpi, ovvero
i giardinieri dello Zen
Quindi qualcosa di nuovo sta avvenendo… ¹
Questo nuovo Galimberti lo riassume così:
Inoltre al posto del “primato dell’uomo”, che a piacimento e senza limiti dispone della natura, l’etica del viandante propone il “primato della vita” che può continuare solo se l’uomo rinuncia al suo primato su tutti i viventi e, dopo aver scoperto il suo indissolubile legame con tutti gli elementi della natura, si pone a difesa dei diritti della terra. ²
Riprendo, concludendo qui, quanto già trattato nel precedente Zen d’Occidente. Ebbene, si dirà, che nuovo è mai questo che noi da sempre viviamo chiamandolo Buddhismo, Zen, nel caso specifico interdipendenza?
Ma non per noi è questo nuovo, ma per quell’Occidente a cui parla la riflessione di Galimberti. Questo Occidente oggi ultimativamente chiamato ad un cambio di paradigma, pena la sua eclissi; ma che è anche, d’inverso - proprio in e per quel paradigma atteso e necessario -, quanto permette alla grande Via che noi percorriamo di risultare un innesto riuscito. ³ Zen d’Occidente, appunto. Come profetizzammo più di trent’anni fa.
Il nostro orizzonte:
Samsāra è veramente samsāra come samsāra-eppure- nirvāna; samsāra non è samsāra, quindi è samsāra… Samsāra-eppure-nirvāna è il vero samsāra e il vero nirvāna, il vero tempo e la vera eternità… Non sarebbe vita insieme veramente eterna e veramente temporale...⁴
E adesso ascoltate Galimberti che, nel prefigurare l’orizzonte del suo viandante, il paradigma atteso e necessario, chiama a parlare i Guaraní, antica tribù della foresta uruguaiana, dicendo così:
La via indicata dai Guaraní non separa l’umano dal divino…Tra l’escludenza dell’Uno e la proliferazione indifferenziata dei significati, la via indicata dai Guaraní è la via del "duplice”… “dell’uno e dell’altro insieme”…5
Cosa è accaduto? Di che cataclisma si tratta?
Ragione prima dell’attuale krisis (che però ha dato vita all’etica del viandante nonché allo scenario su cui Galimberti fa calare definitivamente il sipario) è questo pensiero:
L’anima è in sommo grado simile a ciò che è divino, immortale, intellegibile,
indissolubile, e sempre identico a se medesimo, mentre il corpo è in sommo grado simile a ciò che è umano, mortale, multiforme, inintelligibile, dissolubile e mai identico a se medesimo.⁶
E questo, si badi bene, prima che il Cristianesimo - sostituendo conoscenza con
salvezza - si appropriasse dell’anima platonica.
Scrive Galimberti:
Da allora in poi, all’insegna di questo monoteismo espresso dell’idea (che confligge con il politeismo con cui le cose sensibili si presentano)… pluralità, molteplicità e differenze sono state… rimosse...⁷
Resta intatta, per fortuna, l’origine:
Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo. ⁸
Una e la stessa è la via che sale e la via che scende. ⁹
Ecco, allora, magnificenti i corpi! Ecco, allora, la nostra pratica che non traffica con l’Idea - il Buddhismo? - ma resta prossima alla realizzazione delle molteplicità e delle differenze. E perciò dei corpi.
Non ci interessa l’Albero, ma le miriadi degli alberi coi loro profumi, forme, colori. E perciò il risveglio, per noi, non è distesa uniforme che annulla i corpi, le differenze, quanto esaltazione di queste poiché piena incarnazione del così-com’è. Questo albero. Questa donna. Questa vita. Proprio ed esattamente queste.
Non crediate che questo diverga dall’insegnamento di Dōgen Zenji. Di più, è la sua linfa segreta giacché allorché cade corpo-mente - shin jin datsu raku - quanto si realizza è il dimenticare la scorza (il nome, l’ego, il me) per ritrovare, ritornare (senza che nessuno-lo- sappia) all’adesso realizzato di questo!
Di cosa pensavate mai parlasse il nostro Patriarca?
E torna kairós! Potente torna il nostro peculiare modo di procedere sulla grande Via. Non leggi astratte, precetti buoni per tutte le occasioni, formule valide una volta per tutte lontane dal delicato, intimo e gioioso tessuto del vivente, ma questo-che-c’è, adesso, questo a cui solo corrispondo.
Un monaco chiese a Ts’ui-wei quale fosse il significato del buddhismo.
Rispose Ts’ui-wei: “Aspetta che non ci sia nessuno vicino e te lo dirò”.
Qualche tempo dopo il monaco tornò da Ts’ui-wei e gli disse: “Adesso non c’è nessuno. Ti prego di rispondermi”.
Ts’ui-wei lo condusse in giardino e andò fino al boschetto di bambù, senza parlare. Siccome il monaco continuava a non capire, alla fine Ts’ui-wei disse: “Qui c’è un bambù alto; lì ce n’è uno corto!”
Vicenza, 24 Febbraio 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Umberto Galimberti, L’etica del viandante, Feltrinelli 2023, pag. 373
² Umberto Galimberti, op. cit., pag. 375
³ Ora, a questo fiore che si voglia farlo attecchire nel nostro giardino, pur essendo quello che la propria linea di tradizione l’ha fatto, interessa poco sapere quanto - su quelle determinate montagne o splendide valli - era rigoglioso; o il kosmos rappresentato dal nostro giardino realizza tutte le condizioni necessarie a quella esistenza, oppure il nostro fiore dovrà modificarsi per non morire. Si chiama incubazione; si chiama attecchimento; si chiama infine, dar vita ai morti. Si tratta di Kosmoszen, il nostro manifesto d'intenti del 1997, reperibile sul nostro sito.
⁴ Keiji Nishitani, La religione e il nulla, Città Nuova 2004, pag. 230/231
⁵ Umberto Galimberti, L’etica del viandante, Feltrinelli 2023, pag. 389
⁶ Platone, Fedone, 80b.
⁷ Umberto Galimberti, op. cit, pag. 395/396
⁸ Eraclito, I frammenti, Traduzione di Franco Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano, 1989, pag. 39
⁹ Eraclito, I frammenti, op. cit., pag. 45
Zen d’Occidente
Mentre mi trovavo in Sicilia qualcuna di voi mi ha suggerito l’ultimo libro di Umberto Galimberti. [1] Ho accettato l’incontro e quel che ho trovato è la conferma alla scommessa e l’ipotesi per le quali - oramai più di trent’anni fa - è nato il nostro Centro di pratica. Zen D'Occidente! Si tratta di una constatazione e di una soddisfazione. Avevamo visto giusto.
È un passaggio storico che spero tanto avvertiate. Non tanto per la novità del tema, quanto per la sua radicale definizione. Per questo oggi vi chiamo attorno al fuoco di quanti (come appunto Galimberti, proveniente dalla riflessione filosofica che sgorga dal pensiero di Emanuele Severino) oggi non possono che proferire un commiato…
L’età della tecnica ha posto fine sia all’incanto del mondo tipico dell’antichità, sia al suo disincanto tipico della modernità, perché sia l’una che l’altra ancora esprimevano i tratti dell’uomo che agiva in vista di scopi inscritti in un orizzonte di senso… L’età della tecnica ha abolito questo scenario “umanistico”, e le domande di senso che sorgono restano inevase, non perché la tecnica non è ancora abbastanza perfezionata, ma perché non rientrano nel suo programma trovare risposte a simili domande. La tecnica, infatti, non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona...[2]
Se questo è l’amaro e definitivo commiato, cosa resta?
Una sorta di “etica del viandante” che, non disponendo di mappe, affronta le difficoltà del percorso a seconda di come di volta in volta esse si presentano e con i mezzi al momento a sua disposizione… Per quanto drammatica possa sembrare la scelta, non dimentichiamo che la “decisione etica” è una decisione che fonda, senza possedere altro fondamento al di fuori di sé. In questo senso è evento assoluto e quindi realtà tragica. Non è l’assoluto pacificato dall’idea, ma l’assoluto della scelta degli eventi che si presentano. [3]
Affrancarsi dalla meta significa abbandonarsi alla corrente della vita, non più spettatori, ma naviganti e, in qualche caso, come l’Ulisse dantesco, naufraghi. A differenza del viaggiatore… il viandante sa che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale e che ogni progetto che tenta la comprensione e l’abbraccio totale è follia. Nietzsche, che del nomadismo è forse il migliore interprete, così scrive: “Se in me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora scoperte… il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo: orsù! coraggio! vecchio cuore!”
L’appello al cuore dice che siamo oltre i territori presieduti dal nostro Io, ma questa ulteriorità dice cose più profonde di quanto non lasci pensare l’impiego di una terminologia psicologica. Per il nostro Io vivere significa aderire a un senso, anzi “conferire senso”. Per il viandante significa cancellare ogni meta e quindi ogni visualizzazione del mondo a partire da un senso ultimo. [4]
Il quadro che va formandosi ci è familiare. Gli ultimi passaggi di Galimberti che proporrò lo confermeranno.
Non si legga quindi il nomadismo del viandante come anarchica erranza. Il nomadismo è la delusione dei forti che rifiutano il gioco fittizio delle illusioni evocate come sfondo protettivo. È la capacità di disertare le prospettive escatologiche per abitare il mondo nella causalità della sua innocenza non pregiudicata da alcuna anticipazione di senso, e dove è l’accadimento stesso, l’accadimento non inscritto nelle prospettive del senso finale, della meta o del progetto, a porgere il suo senso provvisorio e perituro come provvisoria e peritura è la vita.
Se siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate convinzioni, quando il radicamento non ha altra profondità che non sia quella della vecchia abitudine, allora il nomadismo del viandante ci offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza, perché desitua, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare le nostre costruzioni, perché l’apertura che chiede sfiora l’abisso dove non c’è nulla di rassicurante, ma dove è anche scongiurata la monotonia della ripetizione, dell’andare e riandare sulla stessa strada, con i soliti compagni di viaggio, senza nessuno da incontrare. [5]
Resta ancora un passo. Un passo, si badi bene, che non faremo poiché serva una conferma esterna al nostro vivere e praticare la grande Via. Noi non abbiamo avuto dubbi quando abbiamo cominciato a sedere. Ritornare al silenzio di corpo-mente-cuore senza aggiungere nulla ci è da subito apparso il miglior modo di rigettare quella espressione del dominio di una “volontà”: la volontà di Dio…[6], stazione di partenza a partire dalla quale oggi Galimberti può proclamare la sua etica del viandante [7].
Questo è il passo: Nella tradizione il termine “trascendenza” ha un senso escatologico, e quindi religioso, che il viandante non ospita. La sua trascendenza, infatti, è, come ribadisce Jaspers, all’interno dell’immanenza…, e ciò significa proiettarsi non in “nuovi cieli e in nuove terre”, ma qui su questa Terra che è l’unica che il viandante percorre, perché è l’unica concessa all’uomo. [8]
Dove quel che ci interessa è il richiamo all’immanenza:
Ora, questo campo della vacuità può aprirsi nel sé quando il sé è veramente nella sua terra natia. Questo campo sta nella terra natia del sé. È proprio sotto i suoi piedi, direttamente a portata di mano. Il radicamento della possibilità del mondo e dell’esistenza delle cose,
ossia il luogo in cui si fondano il mondo e l’esistenza delle cose, si può dire che stia nella terra natia di ciascun uomo, sotto i suoi piedi e a portata di mano. [9]
Giunti qui resta un dubbio. C’è qualcosa che viene lasciato sullo sfondo, qualcosa intravisto allorché l’etica del viandante vien detta drammatica. Chiediamo: che
abitare è questo abitare il mondo nella causalità della sua innocenza? Meglio: che carattere ha questa causalità e questa innocenza?
L’abitare il mondo, per noi, ha il carattere dell’Aperto, dove ogni cosa è se stessa pur scivolando dolcemente
nell’interdipendenza con tutte le altre, nessuna esclusa, da cui il primigenio ecologismo di questo abitare.
Nella misura in cui l’essere del sé è presente nella terra natia di tutte le cose, il sé non è il sé… Questa è la consapevolezza sorgiva. [10]
In questo andare, in questo stare, in questa consapevolezza sorgiva non c’è spazio per alcuna rappresentazione drammatica. Giocare gioiosamente in
questo samadhi, come dice Dōgen Zenji. Forse è qui che abbandoniamo la riflessione di Galimberti, peraltro fruttuosa e coraggiosa.
A questo punto possiamo affiancare ogni viandante, pur se con il nostro carattere: andiamo a mani vuote per la grande Via nella terra di sunyata, la santa vacuità,
nell’adesso con spirito mushotoku. [11]
Una cosa è certa: Buddha non ha più gli occhi a mandorla!
Vicenza, 17 Febbraio 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
[1] Umberto Galimberti, L’etica del viandante, Feltrinelli 2023
[2] Umberto Galimberti, op. cit. pagg.27-28
[3] Umberto Galimberti, op. cit. pag.38
[4] Umberto Galimberti, op. cit. pagg.41-42
[5] Umberto Galimberti, op. cit. pagg.42-43
[6] Umberto Galimberti, op. cit. pag.331
[7] All’ordine “cosmologico”… quale era stato concepito dalla cultura greca, la cultura giudaico-cristiana sostituisce un ordine “antropocentrico”, in cui la natura è risolta in puro materiale da utilizzare… Umberto Galimberti, op. cit. pag.333 Si veda Genesi, 1, 26
[8] Umberto Galimberti, op. cit. pagg.55-56
[9] Keiji Nishitani, La religione e il nulla, Città Nuova 2004, pag. 207
[10] Keiji Nishitani, La religione e il nulla, Città Nuova 2004, pag. 206
[1]1 Mushotoku: senza scopo né spirito di profitto.
Mancare il punto
Quello che, a volte, succede nel sangha mi tocca tanto da attraversarmi da parte a parte, come la lama di una spada. Quanta inutile sofferenza (che inutile certo non è). [1]
Del resto, non è una novità. In questi anni mi avete spesso sentito dire: il nostro è un camminare fra i rovi. Così può accadere che ci sia chi si ferisca significativamente.
Dal mondo della cecità (per ragioni impossibili da comprendere senza misticheggiare) a volte capita di ritrovarsi in un sangha. E all’inizio ci esaltiamo. Tutto ci sembra perfetto. Si profila un altro mondo... Un altro modo...
Ma il mondo di prima non è scomparso poiché ne siamo impregnati come una spugna nell’acqua. Così, senza saperlo, senza volerlo, senza vederlo cominciamo a riprodurre sofferenza.
La maniera più comune di farlo è quella di caricare sulla figura del maestro [2] aspettative e desideri. Il maestro dovrà sciogliere i nodi che mi legano, altrimenti non è un maestro. È così che pensiamo. Non sapendo ancora che il compito più importante del maestro è sottrarsi.
So bene quanto questo provochi sconcerto e resistenze. È talmente controintuitivo da sembrare pura cattiveria. Ma come, io affogo e tu ti sottrai?
Accade così perché quanto in questa fase il discepolo trasferisce sul maestro è la sua illusione; sostenerla significherebbe rafforzarla, producendo - stavolta sì - un comportamento inaccettabile. A veleno s’aggiungerebbe veleno. Con l’aggravante d’aver dato fondamento alla dipendenza dell’uno verso l’altro.
Non è questo… Non è così che pratichiamo. Liberi, ricordate? Felici, ricordate? Forti e quieti, ricordate? Vasti...
Anche perché sottrarsi non è non esserci. Sottrarsi non confligge con quanto ripetuto altrove (questa estate, per esempio, ho detto così: allorché siete in difficoltà, incontrare il maestro), giacché incontrare alla nostra maniera è trovare uno specchio che rimanda al mittente l’illusione prodotta. E perciò è, nuovamente, sottrarsi.
Altrimenti, come mostrare la mente illusa che parla di amore laddove c’è soltanto attaccamento? Sottrarsi, infine e significativamente, è stimolare la ricerca di quel punto raggiunto il quale lo spirito (di maestro e discepolo) non è più diviso. E questa non divisione è quanto di meglio possa auspicare il discepolo. Solo qui, difatti, accade il riconoscimento che non c’è mai stato alcun discepolo né maestro, ma solo vita risvegliata che fermenta. Ecco l’amore!
Far mancare la presa… Se dapprincipio v’è un totale disequilibrio, può però essere uno choc provvidenziale. Da qui in avanti il discepolo potrà rimodulare completamente le sue aspettative nei confronti della pratica. E sarà, forse per la prima volta, compresa e realizzata la nostra fortunata sentenza: Come alberi stiamo in piedi da soli, e come alberi godiamo di essere foresta! [3]
In tutto questo, ferite e gioie, il maestro osserva in silenzio augurandosi che nel traghettamento non vi facciate troppo male. Tifa per voi, ma resiste alla tentazione di abbracciarvi fino a che non sarete al sicuro. E quando, infine, lo sarete, l’abbraccio non sarà più necessario poiché è già avvenuto in segreto, in silenzio, nell’abbraccio di entrambi - maestro e discepolo - per Buddha.
Infine - e a meno che frattanto il rancore e l’incomprensione non abbiano avuto il sopravvento - sarà una nuova vita e una nuova pratica.
In questa fase, vi prego, è essenziale aver chiaro che il drago che vi ha atterrato e lo stesso che vi porta oltre, laddove non c’è più conflitto.
Altrimenti… Altrimenti si abbandona. Non c’è da disperare. Si è semplicemente mancato il punto. E, necessariamente, prima o poi, occorrerà ripartire proprio da lì.
Vicenza, 27 Gennaio 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
[1] E qui bisognerebbe ricominciare daccapo. Interrogando la necessità di quella sofferenza. È questo il limite strutturale ed ineludibile dello scrivere. Si perdono le sfumature. Sfumature che, molto spesso, sono essenziali.
[2] E, anche qui, sul nesso maestro-discepolo, quanto imbarazzo. Il fatto è che l’orizzonte è troppo vasto per essere contenuto in qualche riga. Ne ho parlato spesso. Nel caso specifico valga Il maestro invisibile, rinvenibile anche sul sito alla home.
[3] Andate a guardarvi la home del nostro sito web.
A proposito di volontà di potenza
Oggi mi sono imbattuto in questo articolo: Nel sesso serve intelligenza. Artificiale. ¹ Si tratta di un sito web dove l’IA risponde ad ogni quesito erotico senza censure…
A rendere il tutto estremamente comico, la sex coach tedesca Mariah Freya ne racconta così la genesi: offrire strumenti per migliorare il benessere sessuale… fisico, mentale, emotivo e sociale.
Ora, il motivo per cui ne parlo è un buon motivo anche per noi. Dacché quel che la signora Mariah dice è che offre strumenti; ovverosia offre una tecnica. Ma anche quanti, ormai sparsi in ogniddove per l’orbe terracqueo, si affannano per questo e per quello offrono una tecnica; addirittura ho il sospetto che anche qualche insegnante Zen stia offrendo zazen come una tecnica… Vale a dire, insomma, una procedura per la quale e attuata la quale, presumibilmente e verosimilmente dovrebbero ottenersi certi risultati. Risultati che - ops! - ci farebbero diventare altro da come pensiamo di essere.
È una storia antica. Addirittura delle origini di quanto si chiama civiltà occidentale. Cioè di noi.
Il variare del mondo è sin da principio interpretato come appunto un “diventar altro” non soltanto da parte della creta che diventa brocca, ma anche da parte del cielo, degli uomini, dei mortali, dei divini, della terra: tutto è un “diventar altro”. ²
Ribaltando allegramente il tavolo, com’è nostro uso, noi ci ostiniamo a vivere all’incontrario.
Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto. Dōgen? no. Parmenide nel suo Poema sulla natura.
Da qui in avanti la strada è in discesa per raggiungere il fondamento malato, putrescente e oramai del tutto inavvertito - putrescente proprio perché inavvertito - di questo profluvio pensare a strumenti e tecniche.
Per mondo si intende infatti ciò che, diventando altro, può essere in qualche modo dominato e, per dominare qualcosa, è necessario che non sia un monolite: è necessario che sia franto, che sia spezzato, che sia diviso… Solo la parte è dominabile. Quest’atteggiamento che vede la condizione del mondo nella frantumazione, nello squartamento del dio, è in consonanza con la volontà di potenza che definisce l’uomo, che definisce il mortale: per essere potenti bisogna aver che fare con parti separate
le une delle altre. ³
Eccola la ragione profonda di esistenza delle innumerevoli signora Mariah Freya. Ed ecco, anche, il fiume carsico dell’Occidente: la dominazione, la
potenza. ⁴
Esattamente a questo voltiamo le spalle ogniqualvolta non chiediamo alcunché alla nostra vita-pratica nel dharma; questa la nostra forza tranquilla che abita il tutto indiviso; questa la pace. Non c’è parte da rincollare a parte. Non c’è l’angoscia del tempo, che diverrebbe necessario nel diventar-altro ⁵. Non c’è più il demone poiché convertito ⁶.
Questo fare, che forse è meglio dire non-fare, è, esattamente, vita e opera di Dōgen. Partire dal tutto- che-vive. E, piuttosto che restare a contemplare la singola tessera del mosaico, muovetevi dal mosaico intero. Lì, da lì, qui, qualunque cosa operiate, qualunque pratica pratichiate, avrà sempre riflessi a cascata sul tutto, senza toccare niente. Senza cambiare niente. È per questo che il nostro sedere - zazen - non chiede niente; il mosaico sa cosa fare, mosaico che, a volte, chiamiamo Buddha.
È così perché quel tutto-che-tiene è un tutto, appunto, e non schegge impazzite che vagano solitarie. Così, se soffrite d’insonnia o se i demoni amano farvi visita, affidatevi al quadro d’insieme, a Buddha, abbandonando ogni specificità. Così, senza saperlo, ogni cosa è abbandonata alla rete che tiene, rete che, sola, può intervenire sulle sconnessure
del mosaico.
Non credetemi sulla parola e, vi prego, fate un esperimento con me.
Affidatevi al respiro. Adesso, abitate il respiro. Non come - ancora una volta -
una tecnica. Siate vasti. Esperite da voi stessi. Lentamente. Chiudete gli occhi. Inspirate. Espirate. Non c’è fretta. Espirate. Inspirate. La mente tace! È quanto attesta inspiro-espiro: che questo inspiro, questo espiro, è tutto-quello-che-c’è, e che non c’è altro, che non c’è un oltre. E quando non verrà più un nuovo inspiro, anche allora, questo sarà
tutto-quello-che-c’è. ⁷
L’ignoranza originaria da cui parte Śākyamuni è tutta qui: non vedere come l’idea del diventar-altro (e perciò il tempo, il sogno, il sì ed il no, illusione/illuminazione) sia il gioco della mente illusa che, costantemente delirando, così produce dukka, l’universale sofferenza, l’universale attaccamento...
La diagnosi di partenza è perciò sempre la stessa: Il dolore che rende folli dev’essere cacciato dalla mente con verità. ⁸
Śākyamuni? No, Eschilo!
Vicenza, 23 Gennaio 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Il Venerdì di Repubblica del 19 Gennaio 2024, pag. 66
² Emanuele Severino, Volontà, destino, linguaggio, Rosenberg & Sellier, 2010, pagg. 15-16
³ Emanuele Severino, Volontà, destino, linguaggio, Rosenberg & Sellier, 2010, pag. 16
⁴ E qui, per quanto scurrile, un detto siciliano: cummannare è megghiu che futtere.
⁵ La legna diventa cenere e non torna ad essere legna. Ciononostante non si deve pensare che la cenere sia il dopo e la legna il prima. O anche: Il pesce nuota nell’acqua, e se nuota non c’è limite all’acqua; l’uccello vola nel cielo, e per quanto voli non c’è limite al cielo… Rinvenibile nel nostro A mani vuote, Conversazioni sullo Shōbōghenzō Genjōkōan di Dōgen Zenji, 2015.
⁶ Essendo il demone esattamente la parte, nel tutto-che-vive non ce la fa a sopravvivere.
⁷ Quando c’è vita, è tutto vita. Quando c’è morte, è tutto morte. Dōgen.
⁸ Eschilo. Agamennone, Inno a Zeus
Itaca
Martedì scorso, alla fine della pratica vi ho letto una poesia di Kavafis, Itaca, che troverete in fondo a queste righe. Racconta molto della nostra pratica. Racconta addirittura l’essenziale.
Il viaggio è quel che conta, certo, come poeticamente argomenta Kavafis; ma si tratta di un viaggio, si tratta di una vita, ai quali non manca e non è mai mancato niente. Neppure Itaca.
Torna Il primo passo è anche l’ultimo (Krisnamurti) e tornano quei moniti consueti nel nostro andare per la grande Via: Non muovetevi! Mente immobile! Natura di Buddha!
È qui l’essenziale: deposto il demone del progetto, vien subito meno la dislocazione temporale che le sarebbe stata necessaria. E se è così, se accade questo, tutto è qui. Fine d’ogni alterità. Dualità, bye bye!
Non so se lo vedete. Ma se Itaca - o Buddha - abita il nostro cuore in origine come è naturale che sia, il viaggio/vita non potrà che essere uno svelamento piuttosto che un’acquisizione. Eccola la mente che mente (Osho). Ecco la pratica!
A questo punto, qualunque sia il nostro viaggio, comunque si snodi la nostra vita, non ci sarà mai guadagno né perdita, poiché tutto quello che ci serviva, l’essenziale appunto, non lo abbiamo trovato in un altrove né può essere perduto. Ecco la pace!
Se, difatti, veramente tutto è qui, non sarà più possibile discriminare o scegliere. Ed ecco che la cosiddetta vita ordinaria si fa santa. Risveglio. Lavarsi la faccia al mattino o sedere in zazen vivranno della medesima potenza, poiché manifestanti, sia l’uno che l’altro, il tutto che è qui!
Se questo tutto che è qui! - il tutto che vive - è veramente tutto, non vi sarà alcun bordo oltre il quale affacciarsi in cerca di altro. E se è così, se veramente è così, tutto quello che c’è, qui, è inspiro ed espiro. Ad ogni inspiro ed espiro tutto il tempo, tutte le esistenze, tutta la vita, tutta la morte, pulsano presenti. Adesso! Ecco l’Aperto!
Non si può fuggire. Giacché il me neanche onestamente desiderandolo [1] potrebbe esperire cos’è il tutto che è qui! Si tratta, allora, come è, di un cambio di paradigma. Sediamo. Questo è il cambio di paradigma! Sediamo una vita in zazen per niente proprio perché questo così avviene. E si tratta di una cattiva notizia solo per la mente illusa.
Eccola la rivoluzionaria pratica dello Zen di Dōgen Zenji!
Cosa resta? Non muovetevi!
Vicenza, 18 Gennaio 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
[1] Ed ecco chiarito, si spera una volta per tutte, perché non ci interessa la buona volontà o la brava persona...
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ITACA
Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze. I Lestrigoni e i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere, non sarà questo il genere di incontri se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. In Ciclopi e Lestrigoni, no certo, nè nell’irato Nettuno incapperai se non li porti dentro se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga. Che i mattini d’estate siano tanti quando nei porti - finalmente e con che gioia - toccherai terra tu per la prima volta: negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambre tutta merce fina, anche profumi penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi, va in molte città egizie impara una quantità di cose dai dotti. Sempre devi avere in mente Itaca - raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo sulla strada: che cos’altro ti aspetti? E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
Alchimia, non conflitto
Nel cammino per la grande Via serve una precisa attitudine - si può dire anche postura - senza la quale si fraintende il dharma e si corre dritto in bocca ai demoni.
Ne abbiamo parlato alla fine della pratica formale, giovedì scorso, laddove ho riportato vivo e presente nello zendo il mio amato maestro di Aikido, Giampietro Savegnago, sottolineando quanta vicinanza ho riscontrato tra quell’attitudine e postura con le nostre.
Attitudine. Postura. Vale a dire come attraversiamo il vivere, come attraversiamo, cioè, il samsāra. In ultima istanza, come ce la caviamo con quel pervicace riflesso condizionato della mente illusa nel suo continuamente proporci la dualità. Questo-quello, alto-basso, santo- peccatore, buono-cattivo…
Non che ci sia alcunché di sbagliato nel procedere della mente illusa; come ogni altro essere, la mente illusa pratica la sua propria pratica ¹, vale a dire
continuamente produrre illusioni; purtuttavia, occorre sapere come stare di lato, per dir così, lasciando passare.
Questo stare di lato, essenzialmente è stare prima!
Questa e-sistenza, pur sempre nel tempo, è sempre all'inizio del tempo. Sebbene sia una vita nata dai genitori, è tuttavia “prima che i genitori siano nati”… E questo inizio si
svela proprio là dove, e nell’attimo in cui, il corpo-mente cade. ²
Questa è l’alchimia. Sebbene… tuttavia… il corpo- mente cade. E si potrebbe anche finire qui. Giacché, qui, questo, altro non è che il nostro sedere. Zazen. Pratica
quotidiana. Vita ordinaria. Laddove accogliamo tutto, nell’Aperto che siamo - il corpo-mente cade -, trasfigurandolo, passandolo al setaccio del silenzio e dell’immobilità di questo corpo-mente caduti!
In tal modo esaurita la paura, cessa ogni ragione di aspettative e progetti che avrebbero dovuto sanare quella paura. Eccoci nella gioia, forti e quieti, a bere il vento sul pianoro. Da ogni parte… Vastità!
… questa e-sistenza si distacca dal samsāra proprio nel bel mezzo all’esistenza samsārica. Essa si
tiene lontana dalla sua nascita-morte perché, ad ogni occasione, sta continuamente all’inizio,
dove quel tempo viene alla pienezza del tempo, all’inizio del tempo stesso. ³
Buona alchimia.
Vicenza, 7 Gennaio 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
¹ Andate a rileggervi il teisho Una falla nel cosmo del 1 Gennaio scorso
² In Keiji Nishitani ovvero sul cavar sangue (di dharma) dalla rapa filosofica, nostra nuova pubblicazione, pagg. 54/55
³ In Keiji Nishitani ovvero sul cavar sangue (di dharma) dal
la rapa filosofica, nostra nuova pubblicazione, pag. 55
Una falla nel cosmo
Dedicato all’ultima principiante del duemilaventitré
Alla fine… Alla fine anche il mal di gambe pratica zazen. Insieme a tutto il resto.
Ecco, questo mal di gambe e questo insieme sono un buon modo di parlare della nostra pratica in questo primo giorno dell’anno.
Se il mal di gambe non praticasse la sua propria pratica, ci sarebbe una falla nel cosmo e le costellazioni franerebbero. Praticare la propria pratica non è altro che essere se stessi. Così il mal di gambe si esprime semplicemente come pratica del mal di gambe. Tutto qui.
Ma poi arriva l’insieme. Come a dire la luminaria di ogni cosa nel cosmo che pratica esattamente questo, che pratica esattamente così. Pratica esattamente la propria pratica. È semplicemente se stessa.
Sedere in zazen (kekkafuza) è corpo retto, spirito retto, corpo e spirito retto. È il retto Buddha e il retto Patriarca, è la retta pratica del risveglio verificato, è il vertice, è la vita. (Dōgen Zenji)
Ed ecco che si può dire così: L’universo non è altro che un’unica perla brillante!
Se intendiamo in tal modo non tarderemo a capire quel che ripeto da tempo: la nostra pratica/concentrazione non è di tipo immersivo quanto e piuttosto di tipo espansivo. Anche perché, pur praticando la profondità, quel che si incontrerà una volta andati in immersione non sarà altro che il pianoro dell’Aperto! La santa Vacuità! Sunyata!
È quel che succede a partire dalla pratica del mal di gambe (o dei precetti, del respiro, di questo o di quello…)… Praticare veramente se stessi, difatti, non è (solo) praticare se stessi, in quanto la gioia e la pratica del se stessi è aprirsi ad ogni altro se stesso, trattandosi della medesima materia. E, di nuovo, l’insieme, l’Aperto, l’andar oltre ogni recinto o barriera.
Gyātē gyātē. Hārā gyātei. Hārā sō gyātē... Andare al di là, al di là dell’aldilà… Come recita il mantra del nostro amato Sutra del Cuore.
Non qualche possibilità ma tutte le possibilità!
Fedeli, anche in questo, a Bodhidharma ed al Ch’an:
Imperatore Wu: … parlami della sacra dottrina…
Bodhidharma: Niente di sacro. Vastità.
Vicenza, 1 Gennaio 2024
Salvatore Shōgaku Sottile
Il drago, ecco...
A Eihei-ji, ogni sera gli spiriti del drago venivano a chiedere i precetti o a supplicare di essere inclusi nelle dediche quotidiane di merito offerte dall’assemblea… [1]
Leggendo così, nella quiete profonda della montagna buia, in un lampo appare tutto chiaro… Tutto chiaro da sempre quel che, da sempre, è la pietra d’inciampo di chi percorre la grande Via: che cos’è e che farne del karma? Come si srotola, nel nostro cammino, la legge di causa-effetto?
Tutti i nostri Patriarchi si sono confrontati con la questione. E Dōgen, rilanciando la non-dualità e la santa Vacuità di Nāgārjuna, ha sostenuto così: … Sin dal principio vita e morte non interferiscono l’una con l’altra. Cattivo comportamento e felicità sono ambedue vuote, senza un luogo dove dimorare. [2]
Visto così, io ora domando: chi sono questi esseri che bussano per chiedere di salvarsi? Il drago, chi è? Dov’è?
E qui è conveniente prendere fiato. Respirate, quieti.
Se il drago, gli esseri a cui il nostro voto ci chiama -salvare tutti gli esseri -, fossero là, nel mondo, fuori di noi, la nostra Via sarebbe un imbroglio. Cosa che non è giacché la nostra, come sapete, è pratica non-duale con tutto-quel-che-c’è. Occorre, perciò, dimenticarsi… Ricordate il nostro Patriarca? Ricordate cosa ci dice?
Inverare le cose mettendo avanti se stesso: questo è l’illusione; partendo dalle cose inverare se stesso: questo è il risveglio…
Studiare la Via del Buddha è studiare se stesso. Studiare se stesso è dimenticare se stesso. Dimenticare se stesso è essere inverato da tutte le cose. Essere inverato da tutte le cose è libertà nell’abbandonare corpo e spirito di se stesso e corpo e spirito altrui. È risveglio che riposa da ogni traccia di se stesso, è risveglio che perpetua il non lasciare traccia di se stesso. [3]
Visto così, io ora domando: chi sono questi esseri che bussano per chiedere di salvarsi? Il drago, chi è? Dov’è?
Ebbene... Noi siamo quegli esseri; noi siamo quel drago; noi chiediamo i precetti o di essere inclusi nelle dediche di merito offerte… Proprio noi che, insieme, siamo l’assemblea che li offre.
Insieme. Insieme offriamo insieme riceviamo. Se non c’è il me/noi, se veramente mi sono dimenticato, offrire e ricevere è un unico gesto, inconosciuto e potente.
Pure, fate attenzione: non è il me che offre e non è il me che riceve. Piuttosto, oceano che gioiosamente spruzza acqua in faccia all’oceano… Ah, che meraviglia!
Riuscite a vedere, riuscite a sentire, il formidabile corto circuito? Riuscite a vedere, riuscite a sentire, il drago che siete e che chiede in voi? Riuscite a vedere, riuscite a sentire, quanto siamo vasti?
In zazen le moltitudini di esistenze che ci abitano si fanno vivide, tra cui - spicchio tra spicchi - , quel che chiamiamo io. Non siamo altro che il terminale senza inizio né fine di spinte, tendenze, sofferenze, gioie a cui è quasi inadeguato dare il nome di moltitudini.
Accade esattamente come quando, di notte, su un pianoro accendete un fuoco. Acceso, non c’è luogo in cui la luce non vada; alto, basso, avanti, indietro… E così è con le esistenze: nell’intero universo non c’è luogo da cui, nell’adesso del nostro lasciar andare corpo e mente - shin jin datsu raku - , le esistenze non si tuffino in quel passaggio offerto dalla mudra delle mani di chi - sconosciuto a se stesso - siede in shikantaza. E lì silenziose chiedono di essere salvate. [4]
Ma senza l’offerta, senza aver messo in campo nella nostra vita - adesso - la possibilità stessa dell’offerta, ovverosia andare quieti e forti per la grande Via, quelle moltitudini sarebbero ora spiriti affamati. Ecco cosa sono gli spiriti affamati, i demoni, ed ecco come si sana ogni ferita. E adesso, solo adesso, capisco perché da anni predico di convertire i propri demoni portandoseli in zazen.
Non è pacifico sentire così. Eppure il boato è fragoroso e la carne trema…
Non c’è niente, là fuori, non c’è niente che non pulsi al ritmo del silenzio del nostro sedere. Illusione e risveglio si conoscono e convivono, mano nella mano [5], nel cammino. Non c’è da averne paura.
Acqua e sabbia. È come filtrare acqua e sabbia. Zazen dopo zazen. Sesshin appresso a sesshin. Giorno per giorno. Acqua e sabbia si conoscono. Acqua e sabbia convivono. E noi filtriamo...
Vicenza, 18 Dicembre 2023
Salvatore Shōgaku Sottile
[1] In Dōgen di Steven Heine, Ubiliber 2023, pag. 171
[2] Raccolta estesa dei discorsi di Dōgen, volume 5, discorso 391
[3] Dōgen, Shoboghenzo Ghenjokoan, nella versione di Divenire l’essere, EDB 1997, pagg. 17/18.
[4] Definitivamente deponete le armi del dualismo. Questa luce non è l’altra faccia dell’oscuro, ma tutto-quel-che-c’è. E tutto-quel-che-c’è è questo, totale e senza sbavi. Avrei potuto parlare dell’oscurità, sul pianoro, e non sarebbe cambiato niente.
[5] Mi sovviene, per la potente bellezza e l’infinita dolcezza, quel che dice Parmenide: … Benigna m’accolse la Dea, con la mano mi prese la mano...
Buon anno al Sangha
Amare il dharma per il dharma
e la vita per la vita.
A prescindere.
Qualcuna di voi ricorderà di aver ricevuto questo monito in occasione della trasmissione del Kesa. Così che, qualora dubitasse, le basterebbe rivoltare la busta e… Rinsavire. Giacché proprio di uscire dalla follia si tratta. La follia della mente illusa che non fa altro che fantasticare.
In quel monito riecheggiano temi sempre attuali per quanti praticano la grande Via, temi che, oggi, come personale augurio per voi in questo tempo che viene, discuterei così.
Non c’è alcun dharma che non sia anche vita o vita che non sia anche dharma, per noi che abbiamo immeritatamente ricevuto il dono di incontrare Buddha, vivendo. E che si dica dharma, che si dica vita, non c’è modo di uscire da qui, nel senso che - se di dharma si tratta - è tutto dharma; e nella vita, tutto vita. Pensare sia possibile starsene alla finestra a guardare è quanto solitamente fa la mente illusa che, difatti, nella vita s’immagina un’altra vita… Da qui la follia…
Ma il punto che importa, la pietra rovente, l’inciampo che salva… Non correte, non date per capito… Vi assicuro che è questione di vita o di morte... L’inciampo che salva è quanto va incontro alla persistente follia e amorevolmente le dice così: a prescindere!
A prescindere dal fatto che quel dharma-vita-Buddha contraccambi, se mai fosse possibile azzardare una scempiaggine del genere; a prescindere dal fatto che sia una vita felice, in salute, rigogliosa. Senza questo, in mancanza di questa composta chiarezza, che renderebbe definitivamente inutile ogni a prescindere,
si sarà sempre sbilanciati e deboli. Sempre sul punto di cadere.
Non vedere come ogni cosa si compia nel cerchio perfetto dell’amare (il dharma per il dharma, l’albero per l’albero, la vita per la vita, il dolore per il dolore…) senza mai uscire da sé, espone a non comprendere perché si pratica la grande Via.
Questo amare, questo amore, non è l’altro dell’odio, non sta perciò nella dualità ma, esattamente, è tutto quel che incontro. Un incontro che abbraccia, non esclude e non rigetta mai nulla. Tutto quel che incontri è la tua vita, mi disse il mio maestro agli esordi dell’addestramento. Fu un cazzotto allo stomaco, che non ho più dimenticato. Perciò, questo amare, questo amore è l’incontro indiviso, non duale, nella contrada della Vastità [1]. E torna l’Aperto! Torna sempre...
Amare in-funzione-di, invece, amare cioè a patto che mi si ami o che la vita proceda senza inciampi e-come-la-voglio-io, è vendere-e-comprare, e perciò purissima dukka, sofferenza. Poiché amare è dono, fuse. A prescindere, appunto.
Attendersi, auspicare, chiedere - così come accade solitamente nel mondo - che il dharma-vita, ovvero Buddha, consapevolmente risponda all’amare è mettere in scena in terra l’inferno, poiché a quel punto si sarà in due, io e il dharma, io e la vita, io e Buddha, e perciò stesso nuovamente e disperatamente persi nel samsara.
Visto così, se vi capita di provare amore per il dharma-vita-Buddha, quel che troverete è che è tutto qui, conchiuso, senza sbavi e senza alcunché che manchi.
Mi azzardo, felicemente imito l’irriverente passo del nostro Patriarca: Non è che sia il dharma, non è che sia la vita, spiegarlo è arduo, addestrarsi no… [2]
Guardate bene. Guardate bene. Nel silenzio, guardate bene. È tutto perfetto in questo amare andata e ritorno; eccolo qui l’amato dharma, eccola qui l’amata vita, eccolo qui l’amato Buddha; e facendo così ecco il miracolo…
Il miracolo…
Il miracolo è che si permette al mondo, al dharma, alla vita, a Buddha - e per ciò stesso a noi stessi - di venire alla luce… Non c’erano, un attimo prima.
Vicenza, 12 Dicembre 2023
Salvatore Shōgaku Sottile
[1] L’imperatore Wū a Bodhidharma: parlami della sacra dottrina. E Bodhidharma: niente di sacro. Vastità!
[2] Riprendo, col sorriso sulle labbra, gli stilemi di Dōgen con i quali ci siamo intrattenuti alla sesshin appena conclusasi: La mente stessa è Buddha. Addestrarsi è arduo spiegarlo no. Non è che sia la mente, non è che sia il Buddha. Spiegarlo è arduo, addestrarsi no. Il tutto rinvenibile nel teisho Patchwork.
Succede così.
Succede così. Succede come a chi, volendo accendere un fuoco, versa acqua sulla catasta.
Succede, è successo a quanti negli ultimi anni hanno lasciato e abbandonato la pratica.
Si tratta dell’ostacolo più insidioso, ma anche del più ovvio e, direi, del più semplice; non riuscire a vedere che è proprio il me la fucina in cui si fabbrica dukka, la sofferenza.
Pure, non è veramente possibile che l’alchimia accada, che si acceda nell’Aperto, portandosi sulle spalle il cadavere di se stessi, il soggetto comunemente inteso, questo bozzolo psicologico-culturale che nasce nell’istante in cui, per la prima volta, magari davanti ad uno specchio e con l’indice puntato verso il riflesso, abbiamo detto: io!
Niente da dire su quel dire, semplicemente necessario. Non c’è mai, nemmeno per errore, infantilismo nella nostra pratica. Nessuna nostalgia da paffutelli. La questione è un’altra, ben più corposa, ed è adesso, qui, in questo samadhi. Nascita-morte la chiama Dōgen. Fare decisi il passo, e... E cosa?
Lasciar cadere il me, abbandonare in qualche vicolo l’ossessione per se stessi, non implica scomparire nel cosmo; sprofondare negli abissi; evaporare in una bolla. Lasciar cadere il me è - semplicemente e nient’altro - vedere l’illusione in quanto illusione, sorridendo. Continueremo ad avere la stessa faccia di prima e, magari e purtroppo, il medesimo pessimo carattere; ma non crederemo più alla narrazione di noi stessi a noi stessi.
Fatto così, si aprirà un’altra vita pur non essendoci mai mossi da qui, un orizzonte di libertà. A portata di mano tutte le possibilità invece di una soltanto. Gioia.
Gioco appresso a gioco, zazen di seguito a zazen, mente quieta ed immobile, lo scollamento procederà deciso e… E cosa? Non si può dire. Si può però fare.
Giocare gioiosamente in questo samadhi - Jijuyū zammai - così Dōgen chiama l’Aperto. Partendo dalla constatazione, dal vedere, che il samadhi è questo, è qui, è già e da sempre in nostra attesa. Dopodiché, visto così, non resta altro che praticare questo vivere.
Chi non ce l’ha fatta è rimasto/a sepolto/a dalle macerie di se stesso/a - una sorda e cupa paura di perdersi accompagnata da una non modesta dose di superbia - non vedendo che è il me che è e che ha paura.
Perciò, nuovamente: succede come a chi, volendo accendere un fuoco, versa acqua sulla catasta.
Chiesero a Bodhidharma chi fosse. Non lo conosco, fu la risposta. L’unica possibile.
Vicenza, 31 ottobre 2023
Salvatore Shōgaku Sottile
Finché sarà così...
Finché, in un balzo, non usciremo dal sogno; finché
ameremo restare in compagnia della mente illusa, al
calduccio del me/io, parleremo d'amore ma sarà
attaccamento; parleremo di compassione ma sarà pietà;
parleremo di equanimità ma sarà indifferenza.
Amore. Compassione. Equanimità. È da qui che bisogna
passare.
Vogliamo che ci siano sempre altre cose dentro noi
stessi oltre al semplice noi stessi. (1)
E facendo così finiamo col non vedere quel che c'è.
Diciamo: Ah, quanto amo questa persona! Quanto amo
queste cose!
Appunto, altre cose dentro di noi; e se son cose, se è
così, non potrò impedirmi di volerle per me, così come
piace a me. Ecco l'attaccamento!
Ma, silenziosi, guardate ora quel noi stessi (che non è
noi stessi ma l'Aperto) e quel che troverete è già amore.
Amore che non tocca niente, che respira e lascia tutto
così com'è. Ecco l'amore!
Diciamo: Oh, poveretto! Sta soffrendo!
Appunto, altre cose dentro di noi; stavolta l'altro, unodiverso-
da-me-che-mi-sta-di-fronte. Ecco la pietà!
Ma, silenziosi, guardate ora quel noi stessi (che non è
noi stessi ma l'Aperto) e quel che troverete è già
compassione. Non c'è mai stato nessuno là fuori che mi
guarda, per la semplice ragione che la trama fine della
vita non è divisibile. La rete di Indra. (2)
Ogni cosa che incontri è la tua vita, diceva il mio
maestro. Ecco la compassione!
Diciamo: Ah, questa cosa non mi interessa. Davvero,
non provo alcun attaccamento!
Appunto, altre cose dentro di noi; cose a cui possa
decidere di volgere le spalle. E quanto mi è venuto
incontro e avrebbe fermentato la mia vita, è sfumato.
Ecco l'indifferenza!
Ma, silenziosi, guardate ora quel noi stessi (che non è
noi stessi ma l'Aperto) e quel che troverete è già
equanimità. Intreccio. Katto, la chiama Dōgen. È come
l'amore e la compassione, non rimuove mai niente e dà
luce a tutto. Ecco l'equanimità!
Vicenza, 8 Ottobre 2023
Salvatore Shōgaku Sottile
(1) Thich Nhat Hanh, Soffrire non basta, in Buddhismo impegnato, Neri Pozza, 1999, pag.
15
(2) L’universo è come un’enorme rete che si estende all’infinito in ogni direzione, la rete
di Indra, per includere ogni aspetto dell’esistenza, senza eccezioni. Al punto di
intersezione di ogni nodo della rete c’è una lucente gemma dalla superficie riflettente.
Ciascuna gemma riflette ogni altra, generando una vasta rete di sostegno che include
tutto. Per quanto il loro numero sia infinito, nessuna gemma esiste senza le altre o può
essere considerata a sé stante. Ciascuna di esse è ínterdipendente dalla presenza di tutte
le altre. Se ne appare una, appaiono tutte. Se non ne appare una, non ne appare nessuna.
Se comparisse un puntino nero su una qualunque delle gemme, comparirebbe su tutte. È
una metafora molto antica, tramandataci dalla tradizione buddhista. Contiene una verità
fondamentale per capire cos’è la vita e il nostro rapporto col mondo: l‘interdipendenza
di tutte le cose. Il fatto che siamo legati gli uni agli altri da legami indissolubili , che si
estendono a tutti gli altri esseri e a ogni elemento dell’universo.
Una faccenda che può rivelarsi mortale
Cercate di seguire e tenetevi saldi sulla sedia.
Questa faccenda che si chiama meditazione non avviene
allorché siamo seduti in meditazione nelle occasioni formali;
diciamo meglio: prima che avvenga nelle occasioni formali
deve accadere altro; diciamo ancora meglio: meditazione è
momento per momento; diciamo un po' più raffinatamente:
quel processo vitale chiamato meditazione è un flusso che ci
attraversa, similmente al respiro. Diciamo perfettamente: la
meditazione non è altro che uno stato mentale! Non
dimorare, la chiama Daikan Enō. Non ristagnare, la chiamo
io.
Nel post che vi ho inviato qualche giorno fa, a
proposito dell'ottimo volume sul Sesto Patriarca (1),
nell'introduzione si legge così: Nel 'Sutra del soglio'... la
meditazione non è vista come un insieme di tecniche
finalizzate all'ottenimento della saggezza; meditazione è
piuttosto un esercizio costante della saggezza nella vita
quotidiana. (2)
È tutto qua l'insegnamento del Sesto Patriarca
(Huìnéng/Daikan Enō).
La sua critica al gradualismo, difatti, si fonda su una
questione che si può dire così: se limiti il tuo praticare la
grande Via a quel ritaglio della tua vita detto pratica
formale; e poi, nella vita quotidiana, sei sciatto ed
inconsapevole; ebbene, allora questa tua pratica formale è
una tecnica volta ad un fine. Ed è esattamente qui che il
sedere non serve a niente. Ed è esattamente in ragione di
questo qui che abbandonerete.
Allorché la vita ci va di traverso... Ecco l'occasione
ineguagliabile per meditare, ovverosia per vedere come ci
facciamo sballottare qua e là dai marosi di una mente
ingovernata. Euforia segue depressione. Felicità appresso a
disperazione. Et voilà! Vi presento monsieur Dukka!
Sospetto cosa pensate: come si fa? Cosa fare per rimanere
presenti, silenziosi, insomma guadagnare il corretto stato
mentale?
La buona novella è questa: non si fa! Non si fa giacché quel
fare è, piuttosto, farsi; si-fa-da-sé, come l'uovo che nel
pentolino bolle esattamente quando deve bollire.
E dico che si tratta di una buona novella perché, altrimenti,
il demone ci avrebbe già ingurgitati e digeriti. Se si trattasse
di qualcosa da fare alla nostra portata... Per fortuna, santa
fortuna, non è così.
E allora? Allora praticate e vivete, vivete e praticate, senza
confini o recinti. Non dimorando. Non ristagnando. Non
attaccandovi a niente, nemmeno Buddha.
Adesso sapete che c'è una faccenda che può rivelarsi
mortale...
Un cioccolatino:
Allorché il Quinto Patriarca, Hóngrĕn/Daiman Kōnin, a
mezzanotte, conclusasi la disputa delle strofe scritte sul muro (3), si
recò nella sala della macina del riso dove Huìnéng/Daikan Enō
lavorava gli disse: Chi non conosce la mente fondamentale, non
trae alcun beneficio dallo studio del Dharma. E ancora: Colui che
cerca il percorso per il Dharma dimentica il proprio corpo, non è
così? E infine: È maturo il riso? Huìnéng/Daikan Enō rispose: È
maturo da tempo...
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Huìnéng:
L'essenza della bodhi non è un albero,
così come lo specchio brillante non è un supporto.
In origine non v'è alcuna cosa:
dov'è dunque che la polvere si posa?
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(1) Huìnéng, Sutra dal soglio del sesto patriarca, Bompiani, Luglio 2023
(2) Huìnéng, op. cit., pag.17
(3) Shénxiú:
Il corpo è l'albero della bodhi, la mente come
il supporto di uno specchio brillante.
Spesso e diligentemente va pulita: non lasciate
che vi si posi la polvere.
Vicenza, 15 Agosto 2023
Salvatore Shōgaku Sottile
Non fatevi illusioni
Una storiella Ch'an.
Ambientazione consueta. Monastero con centinaia di monaci. Montagna selvaggia. Un giorno, preoccupato per il morale della truppa, lo shusso si decide e va nella camera del vecchio maestro. Bussa, ma nessuno risponde. Bussa ancora... Poi, discretamente scosta la porta della camera. Il maestro è seduto davanti alla finestra aperta, immobile. Da dietro, non si capisce se è morto, sveglio o semplicemente assorto. Maestro..., fa lo shusso. E quello, senza muoversi, gli fa cenno con la mano di avvicinarsi... Guarda..., gli dice. E quello guarda, ma non vede altro che il consueto giardino e, oltre, la cima delle montagne... Che volevi?, fa il maestro, che ha subito inteso come il discepolo non veda. Ah, sì... risponde lo shusso, come per un attimo si fosse perso anche lui. Sono preoccupato, maestro... Preoccupato? Sì, maestro. I tuoi discepoli non sanno che pensare, sembrano disorientati... Disorientati? Sì. Si chiedono come mai non tieni più un discorso di dharma. È passato tanto tempo dall'ultimo, a dire il vero molto stringato... Ah, fa il maestro. Sì, fa lo shusso. Silenzio. Poi il maestro, sempre guardando fuori dalla finestra, dice, Va bene, amico mio, oggi terrò loro un discorso. Sollevato, lo shusso si inchina e corre a dare l'annuncio.
All'ora concordata, in una sala del dharma stracolma, arriva il maestro che, senza guardare nessuno, sale sulla pedana e si siede. Attende che lo shusso offra l'incenso sull'altare. Sistema il kesa sulle spalle, poi dice: Cari fratelli... e solo ora volge lo sguardo sulla sala. Cari fratelli... Li vede tutti. Li conosce tutti. Li ama tutti. Cari fratelli... Non fatevi illusioni! Dopodiché si alza, scoppia in una grande risata e se ne va. Esattamente quanto aveva detto e fatto nell'ultima occasione.
Non fatevi illusioni! Su di voi, su di me, sul Buddha, sulla pratica, zazen, l'illuminazione... Non caricatevi sulle spalle un carico che non vi serve e andate leggeri, liberi.
Niente di quel che pensiamo o ascoltiamo è veramente importante; niente, tranne venire qui e sedere; venire alla sesshin e praticare. Praticate-e-basta. Senza sapere, senza capire nemmeno perché lo fate.
Ora, cercate di capire. Perché mai niente di quanto pensiamo è importante? Finché ci sarete voi a pensare voi stessi, non riuscirete. Così, se vi sfioro - e vi sfioro apposta -, subito fate il broncio. Se faccio qualcosa che non vi piace, vi irrigidite. L'ho già detto più volte. E allora? Allora provate ad essere com'è Buddha e come sono stati i Patriarchi: Nessuno! Toc, toc... C'è qualcuno in casa? Non c'è nessuno lì nella capoccia e perciò mai niente da difendere. Chi potrebbe mai risentirsi? Liberi. Finalmente liberi da se stessi.
Imperatore Wu: Chi sei?
Bodhidharma: Non lo conosco.
Oppure. Vi ho consigliato un libro per la sesshin di Aprile. E lì trovo così: Una volta Maezumi Roshi e io stavamo viaggiando su un treno ad alta velocità in Giappone. Roshi sedeva vicino a me, e di fronte avevamo una coppia. Il marito era membro del direttivo dello Zen Center di Los Angeles... La moglie non era una praticante zen. Mentre stavamo chiacchierando, la donna guardò Roshi e disse: “Tra tutte le persone che conosco, lei è probabilmente quella che si trova più a suo agio nel non sapere chi è”. 1
Ma... E invece ancora moraleggianti e abbarbicati al pensiero di se stessi. Troppo educati; quando la grande Via è barbara. Meravigliosamente barbara.
Poi... Poi di illusioni ce ne facciamo di continuo. Soffriamo, a volte, per pensieri persistenti; costruiamo trappole perfette nelle quali ci lasciamo cadere avvitandoci come turaccioli; diventiamo pallidi, senza forze... Finché, colpo d'ala, di tutto questo colpevolizziamo l'universo mondo, quando - Non fatevi illusioni! - abbiamo fatto tutto da soli. Ecco perché il vecchio Patriarca si limitava a richiamare così.
Il problema, difatti - come dovremmo sapere -, non è l'illusione in sé, che è santa come ogni altra cosa (samsara- eppure-nirvana. Nishitani); il problema è non vedere l'illusione in quanto illusione.
Visto questo, visto così, ci diventa possibile lasciare il vecchio maestro davanti alla sua finestra... Lo vedete? Sembra un bambino occupatissimo a giocare con un filo d'erba...
Ah, che meraviglia!
Vicenza, 14 Marzo 2023
Salvatore Shogaku Sottile
NOTE
1. Dennis Genpo Merzel, Se l'occhio non dorme, Ubaldini 1993, pag. 45
All'inizio...
Qualcuno di voi, giovedì scorso 29 Settembre, alla fine della seduta e della pasticceria ormai quasi regolamentare, mi ha detto due cose interessanti.
Mi ha detto (1°) che la nostra pratica è, al tempo stesso, difficilissima e facilissima.
E mi ha detto (2°) che non vorrebbe sentirsi dire come va a finire, perché intende scoprirlo da solo.
Trattandosi di un principiante, si tratta di due questioni notevoli che potranno essere utili a tutti. Tanto che, qui, ne discuteremo.
Sulla prima questione (dando per inteso che il difficile è riferito alla postura e il facile all'approccio scevro da sovrastrutture della nostra pratica) direi così: che è vero ma che non è tutto. Certo, il principiante si trova ad affrontare l'inferno, sulle prime; sedere non è proprio un pranzo di gala, come si diceva a proposito della rivoluzione, per quanti hanno la mia età.
Pure, proprio questo - e a patto che ciò non provochi un abbandono, proprio qui, dico proprio in questa primissima fase, sta il momento che deciderà tutto. Tanto che (per qualche ragione che non è possibile individuare in quanto destinale, qualcuno direbbe karmico) se qui non desiste, il praticante troverà la via d'uscita. Che, semplicemente, consiste nell'intuire che occorre puntare avanti, al di là della difficoltà, mirando oltre, oltre... Gyate, gyate... Guarda caso, la fine del nostro amato sutra Maka Hannya...
Esattamente il contrario, perciò, del rannicchiarsi nel disagio e nel lottare per sopportarlo; e ciò è possibile se attraversiamo il disagio stesso da parte a parte, senza evitarlo bensì – scandalo! - abbracciandolo. Come? Non c'è la ricetta. C'è solo un'attitudine, un'indicazione. È là che bisogna arrivare. Cioè qui, qui seduti quietamente e fortemente dinnanzi ad un muro.
È come coi demoni. Ne abbiamo parlato spesso, in questi anni. Davanti ai demoni che, caparbiamente, ci fanno visita, non serve fuggire; la nostra paura è il loro carburante. Quel che serve, quel che ne mostra la loro reale natura di fumo, è - abbracciandoli - invitarli a sedere con noi sul cuscino nero, tenendoli stretti. Hanno paura anche loro!
In questi frangenti, nel nostro sedere da principianti, è d'aiuto portare l'attenzione nell'hara, tre-dita-sotto-l'ombelico, come diciamo spesso a proposito del punto d'equilibrio di corpo-mente-cuore. Zazen.
Potrà essere utile - in questa e soltanto in questa fase -produrre una visualizzazione. Dopo essersi seduti, sistemata la postura, chiudere gli occhi e trasferire il naso dalla sua consueta posizione lì, tre-dita-sotto-l'ombelico. E da lì respirare! Sarà il respiro a risolvere l'impasse. Il disagio non scomparirà mai del tutto, ma non disturberà oltremodo. Da acerrimi nemici a conoscenti. E non si lotterà più.
E siamo alla seconda questione: Non dirmi come va a finire perché voglio scoprirlo da solo.
Shakyamuni, detto il Buddha, in inizio di predicazione, a quanti gli chiedevano cosa insegnasse, rispondeva: Venite a vedere! È, perciò, da considerarsi un buon atteggiamento quello di porsi come uno sperimentatore, qualcuno cioè che, per proprio conto, intende scoprire cosa produce la pratica della grande Via.
Detto questo, va subito dichiarato un rischio assai presente in questo per proprio conto; un rischio che ha per nome solipsismo, individualismo; l'atteggiamento di quanti, cioè, pur percorrendo sentieri e pratiche comunitarie, si tengono da parte, manifestando così, che lo si sappia o meno, quell'alterigia e quella superbia tipica del tipo di umano delle nostre latitudini.
La soluzione, naturalmente, sta nell'armonizzare i due aspetti. Da un lato, non è possibile prescindere dal fatto che la pratica si incide sulla mia carne, e non su quella degli altri; dall'altro, non c'è mai, veramente e in ultima analisi, mia e altri ! (Nota 1)
Come abbiamo voluto mettere nella home del nostro sito, tutto questo è detto così: Come alberi stiamo in piedi da soli; e come alberi godiamo di essere foresta!
E qui la questione si fa delicata, soprattutto nell'ottica del principiante; giacché se non c'è alcun dubbio che la pratica ha a che fare con la mia, personalissima, vita-morte, pure, sarà proprio quel mio che la pratica dissolverà. L'illuminazione - ammesso per un attimo che sia qualcosa -non potrà mai essere mia. Sarebbe come pensare che il cielo mi appartenga.
Da qui deriva, forse, la vera difficoltà nel praticare lo Zen. Non la postura, non il male alle gambe, non i pensieri galoppanti ma - ecco il punto - questo transitare pacificamente tra me-e-mondo e mondo-e-me, questo far confluire la vita (che è sempre singolare) nel vivere (che è sempre plurale). Non privilegiando né l'una e né l'altro.
Concludendo, per quanti si tengono abbarbicati a se stessi, la pratica risulterà impossibile; mentre per quanti prenderanno a giocare - come giocano le onde con l'oceano -, sarà quel che per noi è: una delizia!
E siamo tornati ai pasticcini...
Vicenza, 1 Ottobre 2022
Salvatore Shogaku Sottile
Note
1. Con la medesima armonia trattiamo la relazione silenzio/parola. Tenendosi stretti al silenzio, parlare. In fin dei conti, anche qui, né l'uno e né l'altro. Pur essendo ovunque nell'Aperto, noi non siamo mai - non ristagniamo - da nessuna parte.
Concentrazione
Ieri sera vi ho parlato di due aspetti della pratica di zazen strettamente connessi. Li riprendo, qui, affinché non si indugi a condurre il nostro sedere lì dove deve andare.
Parliamo della particolare forma di concentrazione che attuiamo in zazen, e di come questa sia influenzata e, infine, determinata, dal modo in cui teniamo gli occhi.
Spesso, come ho più volte ripetuto, vi vedo in zazen con gli occhi completamente chiusi. E, più volte, vi ho invitato ad abbandonare un tale atteggiamento. La postura degli occhi, difatti, è fondamentale nel determinare il tono di quel che avviene sedendo, tanto è vero che l'insegnamento proviene direttamente da Dōgen, che ne parla nel suo Fukanzazengi: … Tenete sempre gli occhi aperti...
Gli occhi completamente chiusi portano velocemente a precipitare nell'inconscio dove, la conseguente concentrazione, frutto dell'immobilità e del silenzio di corpo-mente-cuore, non potrà che assumere natura immersiva. In più, lo stato generale si farà torbido e potrà giungere il sonno. Tutte condizioni, queste, che non producono uno zazen come pratica di risveglio.
Più che all'immersione, il nostro sedere tende all'espansione; da cui la corretta concentrazione in zazen sarà espansiva e non immersiva; affinché questo si determini, gli occhi saranno socchiusi, la palpebra cala ma mai del tutto, in maniera tale da consentire alla luce di raggiungerci.
Questa espansione è, come ho detto ieri sera, quanto Bodhidharma chiama Vastità! E questa Vastità altro non è che Sunyata, la santa Vacuità!
Buona pratica a tutti.
Vicenza, 19 Agosto 2022
Salvatore Shogaku Sottile
La cura
Ieri sera, durante la seduta formale, ho detto così: Vi prego, prendetevi cura della vostra pratica; solo così la pratica si prenderà cura di voi. Vorrei sviluppare questo spunto.
Se noi e la pratica non siamo divisi e se fluiamo con essa, non c'è pericolo di credere che prendersi cura della propria pratica sia dare spazio alla mente illusa. Prendersi cura della propria pratica è essere pratica, silenziosi, invisibili alle ragnatele dell'ego.
Se accade così, la pratica ci riconosce e perciò si prenderà cura di noi. Buddha si prenderà cura di noi. Buddha che - oh, meraviglia! - ha (e ha sempre avuto) la nostra stessa faccia. Accade, allora, che lo spazio attorno a noi si espande all'infinito e il respiro scende nelle profondità di ogni corpo, incluso il nostro. E questo, che si sappia oppure no, che si senta oppure no, questo è il satori. Inconscio. Inconosciuto. Universale. Completo abbraccio che non lascia fuori niente. Ed ecco il così-com'è!
È questo il senso del nostro essere esatti in tutto ciò che facciamo, nello zendo come altrove; ogni nostra azione inizia, si svolge e si compie. Perfetta. Senza sbavi e senza inutili lentezze che darebbero spazio alla mente di formulare giudizi. Essere esatti così, di fatto, è prendersi cura. E subito dopo dimenticare. Altrimenti, ci resta il mondano così-come-viene e il tanto-per-fare. Ma così impediamo allo specchio del dharma di compiere la sua funzione e manchiamo il riconoscimento; e se questo accade non ci resta che vivere nella solitudine e nella paura. Che sono, esattamente, il paese natale dell'ego.
Buona pratica a tutti.
Vicenza, 22 Aprile 2022
Salvatore Shogaku Sottile
Cuore arreso
Se amiamo il mare, la cosa migliore da fare è essere mare. Noi invece, per solito, andiamo semplicemente al mare. E così, il mare, resterà sempre altra cosa per noi.
Che Kajo - Vita ordinaria, vita comune - provocasse inquietudini era facile prevederlo. È il problema di molti di voi; talmente molti che può capitare perfino di non accorgersene.
Come conciliare la vita comune e la Via? Una faccenda, è stare nell'ambiente protetto del dojo; un'altra, sentirla vibrare al lavoro, in famiglia, nelle relazioni con quanti, magari, non capiscono che ci facciamo lì immobili seduti dinnanzi ad un muro. Ma la questione che pone Dōgen è, semplicemente, che non c'è questa faccenda; c'è solo questo!
E questo è il mare, il grande oceano, che non si cura delle onde. È sempre è solo questo. È sempre e solo mare. A ben vedere, perciò, la soluzione di questo pseudo-enigma viene prima. E può essere detta così: allorché sto per immergermi nel grande oceano, io ci sono? Se sì, com'è di solito, non sono essere mare; sono un bagnante. E il mare non mi riconosce.
Perché mai credete che, in zazen, si continua a ripetere che occorre abbandonare-corpo-e-mente, Shinjin-datsuraku? Perché, altrimenti, zazen non ci riconoscerebbe. E se non ci riconosce, possiamo star lì a riscaldare un cuscino nero per l'eternità...
Mutando sguardo, e paradossalmente, diciamo che l'inizio della pratica della Via, in un modo che possiamo dire misterioso, avviene prima ancora di entrare per la prima volta in un dojo zen. Perché accade così? Perché (per il fatto stesso che vi entreremo, in un dojo, e prima che ciò accada), siamo stati esposti sul pianoro dell'Aperto, senza neanche saperlo. Chi fa questo, quale forza ci espone nudi sul pianoro, non è da indagare. Chi fa questo, però, ha un nome: ecco bodaishin, la mente che cerca la Via. Che è sempre l'antefatto nascosto della nostra storia. Pratico, ma non so bene perché.
La mente che cerca la Via... Ma di che mente si tratta? Nient'altro che la mente della natura di Buddha che siamo. Questo è bodaishin! Se – ecco le ragioni misteriose – è sufficientemente potente, senza alcun merito da parte nostra, opera in silenzio e prepara le carte... Poi, tocca a noi fare il passo. Ed eccoci entrati per la prima volta in un dojo zen.
Tutto il resto della questione che vi interroga, la possibilità, o meno, di conciliare vita comune e pratica della Via, monachesimo o non monachesimo incluso, è un sofisticato alibi. Sul monachesimo, per esempio: ma qualcuno vi ha mai invitati a lasciare lavoro e famiglia per entrare in un monastero che, oltretutto, non abbiamo?
Praticate totalmente, fortemente e generosamente, con corpo-mente abbandonati e cuore arreso in ogni momento ed in ogni circostanza; con saggezza, calibrando le azioni ai contesti nei quali verrete a trovarvi. Direi, per esempio, che non è proprio necessario mettere in zazen il proprio capo ufficio.
Praticando così sarete voi stessi questo, e non ci sarà più alcun dubbio. La Via sarà la vostra vita e il dharma, tramite il nome che eventualmente avrete ricevuto, vi richiamerà a ciò.
Senza questo preliminare cuore arreso al dharma, dono di sé (da non intendesi in termini cristiani, poiché qui non c'è alcuno che decide di donarsi), la Via e la vita vi resteranno incomprensibili e inaccostabili. Senza questo, tutt'al più farete i bagnanti. Ma sono sicuro che non è quello che volete.
Trissino, 4 Marzo 2022
Salvatore Shogaku Sottile
KEIJI NISHITANI
ovvero
sul cavar sangue (di dharma) dalla rapa filosofica
Riflessioni su alcuni snodi dell'opera di Keiji Nishitani "La religione e il nulla"
Non lasciare tracce
Nello zendo camminiamo a piedi nudi.
Questo vuol dire che a piedi nudi camminiamo nel mondo, giacché lo zendo non è (solo) lo zendo, ma la grande terra.
Perciò, vi prego, da oggi in poi ogniqualvolta farete ingresso nello zendo non fatelo pesanti di voi stessi; provatevi a non produrre alcun rumore in modo da non disturbare gli innumerevoli esseri che vi abitano; entrate volando, appena pochi centimetri da terra, e vedrete che vi riuscirà.
Io vedo un senso forte in tutto questo. Non è solo questione di sacralità del luogo dove sediamo in zazen, ma pungolo che va ancora più in profondità; tanto in profondità da essere erba tenera dei prati. Completamente esposta. Completamente offerta. Fuse.
Questo è, per quanti percorrono la Via, non lasciare tracce! Toccare appena il mondo, calcare lo zendo dolcemente e, subito, sparire. Leggeri come nuvole (unsui, emblema del monaco zen) passiamo carichi di pioggia e svaniamo.
Non attaccatevi a niente; nemmeno allo zendo, nemmeno ai propri piedi, nemmeno alle nuvole. Solo così passeremo lasciando ombre fuggevoli sulla terra, ombre fragranti; solo così matureranno i rossi cachi dell'albero di Buddha.
Buona pratica.
Trissino, 4 Marzo 2021
Salvatore Shogaku Sottile
Un asino che si crede coccodrillo
La liberazione del cuore (la pace, il risveglio, la felicità) non è mai un oggetto (fisico o mentale); e quando diciamo oggetto intendiamo anche formule magiche, mantra, riti, "pensieri positivi"; la liberazione del cuore non è mai il risultato di qualcosa; la liberazione del cuore è, esattamente, lasciar andare. Il cuore lascia ogni presa e, così, da se stesso, si libera.
Questa è la libertà; non dipendere da niente; avere il tesoro in casa. Questo è zazen.
Zazen non è un oggetto. Zazen è un processo. Perciò, avviandoci alla pratica di zazen andiamo verso il render vivo un processo che, esso stesso, è liberazione. Ecco perché zazen non finisce mai.
Se accettiamo questo quadro, dopo averlo verificato, ecco che viene il tempo che viene, adesso, poiché è adesso che abbiamo praticato il lasciar andare e gustato la libertà del cuore. Ecco perché non abbiamo mai bisogno di/del tempo, giacché abbiamo sperimentato che, adesso, non manchiamo di niente.
Se abbiamo verificato che cosi è, che il tesoro, la liberazione, la pace, sono qui, già qui, ecco rilucere che non pratichiamo zazen perché orfani, monchi, mancanti ma, al contrario, paradossalmente, rivoluzionariamente, pratichiamo poiché siamo Buddha.
Non potremmo, se no. Sarebbe come un asino che sognasse di diventare coccodrillo.
Vicenza, 20 Settembre 2020
Salvatore Shogaku Sottile
Zazen ed il mare
Avete mai fatto caso a come sfumano i contorni corporei una volta che si è in acqua? Immersi, nella corretta postura del lasciar essere, altrimenti si annega, svaporiamo un po', essendo tutt'uno con l'acqua che solo allora sostiene, e possiamo godercela.
Questa è un'ottima immagine della nostra pratica, del nostro zazen.
Anche in zazen tendiamo a sfumare, si fa fatica a sapere con esattezza dove sia la gamba destra o l'altra, le braccia, ci sono ancora?, perdiamo insomma i contorni e, anche lì, come già in acqua, siamo non-due col vivere.
Nella corretta postura il mare ci tiene; ed è quel che accade in zazen; seduti nel lasciar andare, nel lasciar essere, la vita ci tiene. Questo può accadere, in un caso come nell'altro, perché nella realtà vera, profonda, non siamo mai (solo) noi, bensì non altra cosa dal mare, non altra cosa dal vivere.
Solo così, nell'un caso come nell'altro, possiamo godercela.
Vicenza, 17 Agosto 2020
Salvatore Shogaku Sottile