meditazione zen Vicenza

Vita del sangha

Questa sezione riporta momenti della vita e della pratica quotidiana del sangha e i teisho, discorsi del dharma ed esposizioni dell'insegnamento che hanno luogo nel corso della seduta di zazen.

Eros nello zendo

Facciamo  così.  Cominciamo  decisamente.  Cominciamo esponendo  la  tesi  che  discuteremo.  E  la tesi  è  questa: zazen  e i corpi che l’incarnano sono esseri erotici!

Questa  tesi,  che  magari  -  lì  per  lì  -  a  qualcuno  potrà sembrare  strampalata,  è 
estremamente  amica  di  quel che   conosciamo   bene:   l’intendimento   di   Dōgen   di
shikantaza.    Shinjin-datsuraku,    lasciar-cadere-corpo-e mente.

Eros strappa il soggetto da se stesso e lo volge verso l’Altro...¹

Per   essere   così,   per   essere   erotici,   affinché   ci   sia mondo,  serve  innanzitutto 
abitare  la  terra  ed  il  cielo, piuttosto  che  Google  Earth  e  il  cloud.  ²  Poi,  con  quel
passo  di  lato  che  amiamo  tanto  e  che  imbarazza  da impazzire il me, di colpo sgusciar via non facendoci mai trovare lì dove ci aspetta il demone. Solo così si lascia entrare  -  realizzandolo  -  l’esser-mondo.  Ecco  l’Altro! Ecco l’Aperto!

l’Eros rende possibile un’esperienza dell’Altro nella sua alterità che strappa il soggetto dal suo inferno narcisistico. L’Eros mette in    moto    una    volontaria    “autonegazione”,    un    volontario “autosvuotamento”.    Il    soggetto…    sperimenta    un    peculiare “indebolimento”,  che  tuttavia  è  accompagnato,  al  tempo  stesso, da un  sentimento  di  potenza.  Ma  questo  sentimento  non  è  la “prestazione propria” del soggetto, bensì il “dono dell’Altro”. ³

C’è  aria  di  famiglia.  Sia  nell’indebolimento,  sia  nella potenza.   A   mani   vuote   
esprime   il   medesimo,   nel linguaggio  che  ci  è  proprio.  Sembra  indebolimento  -  il vuoto delle mani -, ma solo così si può essere ricolmi.

L’Eros è appunto una relazione con l’Altro, che si colloca al di là della  prestazione  e  del  potere.  L’”impossibilità-di-potere”  è  la forma   negativa   del   suo   verbo   modale…   Il   buon   esito   della relazione con l’Altro si esprime come una specie di scacco. ⁴

È quanto accade ai corpi in postura. Senza bisogno di saperlo,  senza  bisogno  di  alcun  nome  -  Buddha,  Altro, Aperto… - questo viviamo.

 L’amicizia  è  una  conclusione.  L’amore  è  una  conclusione assoluta. È assoluta in quanto presuppone la morte, l’abbandono del  sé…  Il  soggetto,  cioè,  muore  nell’Altro,  ma  a  questa  morte segue un ritorno a sé… proprio questo… è il dono dell’altro... ⁵

E,  assoluto,  qui  vuol  dire  non  limitato.  Ora,  anche considerando  il  nostro  amato 
samsara-eppure-nirvana di Nishitani, è evidente come quell’eppure preveda che il me sia caduto, lo sguardo liberato; e una volta caduto, una volta liberato, in verità non c’è più alcuna necessità né di samsara né di nirvana. Senza dimenticarsi, in altri termini  -  che  è  la  porta  d’accesso  per  Eros  -  quel  che resta sta tutto in quest’impietosa descrizione:

L’amore  si  positivizza,  oggi,  nella  sessualità,  che  è  comunque sottomessa    al    diktat   della    prestazione.    Il    sesso    è    una prestazione… Col suo valore di esposizione il corpo equivale a una merce.  L’Altro,  che  è  stato  privato  della  sua  alterità,  viene sessualizzato come oggetto di eccitazione: non può essere amato, ma solo consumato… ⁶

Il  soggetto  sessuale  rimane  sempre  uguale  a  se  stesso.  Nessun “evento”  gli  capita,  perché  l’Altro  non  è  oggetto  di  consumo sessuale… La sessualità appartiene all’ordine dell’”abituale”, che riproduce l’Uguale: è l’amore dell’”uno” per l’altro “uno”. ⁷

E, si badi, l’evento è l’inaudito, quel che non consegue a niente,    che    non    discende    da  una    situazione    e, irrompendo     così,     come     un     animale     selvaggio,
interrompe l’Uguale a favore dell’Altro.

Per  questo  Socrate  viene  paragonato  al  satiro  Marsia, accompagnatore   di   Dionisio,   il   cui   flauto   seduce   e inebria…

chiunque lo oda, cadrebbe fuori di sé. Alcibiade riferisce che, quando ascolta Socrate, il cuore gli batte assai più intensamente che a colui  commosso dalla danza dei Coribanti…. Sinora non si è prestata  in  alcun  modo  attenzione  al  fatto  straordinario  che proprio  agli  inizi  della  filosofia…  il  logos  e  l’Eros  intrattengono una relazione tanto intima. ⁸

Come  Eros,  l’Aperto  -  vogliamo  dire  banalmente  il risveglio? - è essenzialmente atopos, il senza luogo a cui fortunatamente non si può arrivare con nessuna mappa. Irrompe,  quando  irrompe,  come  l’amore,  solitario;  e perlopiù crea timore, tremore, spaesamento.

Si vorrebbe tornare nel   cantuccio dell’Uguale, lì dove regna il pensiero, il calcolo, la
prestazione, il guadagno, l’addomesticato,  il  prevedibile.  Così,  eccoli  qua  questi corpi  tutti  uguali,  carini,  strofinati,  levigati,  depilati, profumati,  dove  niente  più  si 
incide  ed  ogni  carezza scivola via. E, ancora, l’ossessivo pensiero di salute, di controllo,  che  tutto-vada-bene,  finché  non  ci  si  ritrova nella cupa altalena di euforie e depressioni...

Ma,  nell’Aperto,  basta  uno  sguardo  e  i  nostri  occhi cominciano  a  ridere  fino  alle 
lacrime...  Così,  senza  un perché… ⁹

L’Eros  riguarda  l’Altro…  che  non  si  lascia  risolvere  nel  regime dell’Io.  Nell’inferno 
dell’Uguale,  a  cui  la  società  contemporanea assomiglia sempre più, non c’è perciò alcuna esperienza erotica. Questa  presuppone  l’asimmetria  e  l’esteriorità  dell’Altro.  Non  a caso Socrate è chiamato, in quanto amato, atopos. L’altro, che io desidero e che mi affascina, è senza luogo. Si sottrae al linguaggio dell’Uguale. ¹⁰


In  conclusione  -  una  conclusione  che  non  è  senza conseguenze -, nella prefazione al volume di Han, Alain Badiou   titola   così   il   suo   intervento:   Reinventare l’amore. Non vi pare che sia la nostra pratica?

Vicenza 10 Maggio 2025

Salvatore Shōgaku Sottile

 ¹ Byung-Chul Han, Eros in agonia, Nottetempo 2019, pag. 19
²  Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che  vi  parlano  di  sovraterrene  speranze!  Friedrich  Nietzsche  in  Così parlò Zarathrustra.
³   Byung-Chul Han, op. cit. pag. 20
⁴ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 30
⁵ Byung-Chul Han, op. cit. pagg. 47-48 
⁶ Byung-Chul Han, op. cit. pagg. 31-32 
⁷ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 76 

⁸ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 86
⁹ La rosa è senza perché: fiorisce perché fiorisce, non bada a se stessa, non chiede se la si vede (Angelus Silesius)
¹⁰  Byung-Chul Han, op. cit. pag. 18

A cosa serve la pratica

La  pratica  è  un’attività  dinamica,  non  una  servitù.  La pratica fa venir fuori dal loro
cantuccio i nostri demoni. Uno per uno. Tutti in fila. Ecco qua...

Il punto, perciò, è: c’è qualcuno ¹ che aspetta al varco questa evacuazione? C’è qualcuno che li vede?

Accade,  invece,  come  è  accaduto  in  uno  degli  ultimi incontri, che demoni a frotte
s’accapiglino l’uno contro l’altro a partire dalla pratica del moppan, del mokugyo e  della  campana,  intorbidando  l’aria  e  rendendo  tutto difficile.  E,  allora,  ripeto:  c’è  qualcuno  che  aspetta  al varco questa evacuazione? C’è qualcuno che li vede?

Se, nella pratica, avviene il  dimenticarsi, accade come una nebbia che leggermente s’alzi, dai corpi seduti, che evapori, lasciandoci sempre più leggeri. Aperti.

È in questa apertura che - vedendo tutto - ognuno può scorgere   la   faccia   dei   demoni,   riconoscerli   e   così facendo consegnarli all’oblio. Kaputt. Morti stecchiti.

Ma  sembra  che  questo  non  accada.  È  quel  che  vi  è successo: inerti, pesanti, avvolti dalla nebbia tanto che, stavolta, kaputt siete stati voi, non i demoni.

Il  corpo  del  risveglio  è  spazioso,  silenzioso,  immobile, inamovibilmente dimenticatosi e purtuttavia totalmente presente. La rana di cui parlava Shunryu ².

Questo  corpo  non  si  precipita  col  peso  del  suo  karma sulla pratica, non insiste e non persiste col proprio sé, così che i suoni risulteranno sconosciuti perfino a chi li agisce, perfetti, tutti uguali, senza schegge di presenza.

Quante  volte  mi  avete  sentito  dire  che  la  campana  (e tutto il resto) si suona da sola? E per quante vite dovrò ancora  ripeterlo?  Vi  prego  di  rendervene  conto:  non abbiamo tutto questo tempo!

Ora, esattamente questo vedere è realizzazione.

Senza analitica contabilità, come se niente fosse, senza fare niente ³, giorno dopo giorno sedere e dimenticarsi, lasciando che la nebbia si sciolga.

E  quando  ciò  accadrà,  il  sogno  che  ora  siamo  (zendo, cuscini, campana, sesshin, affitto da pagare) ⁴ diventerà profumo, solo profumo di fiori appena sbocciati.

Questa è la pratica.

Vicenza 3 Maggio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile

 
1  Un qualcuno, nel nostro caso, che è un perfettamente Nessuno.
2     Ma guardate la rana. Anche una rana sta seduta come noi, ma non  ha  alcuna  idea  dello  zazen.  Osservatela.  Se  qualcosa  la disturba   fa   una   smorfia.   Se   le   passa   vicino   qualcosa   di commestibile,  lo  afferra  e  lo  mangia,  sempre  restando  seduta. Ecco quale è effettivamente il nostro zazen: assolutamente niente di speciale...Shunryu  Suzuki,  Mente  Zen  mente  di  principiante, Ubaldini 1976, pag. 65. 

3    Reb  Anderson  in  “Il  sorriso  della  montagna”  cita   Dōgen  così: Così ora lascio
semplicemente scorrere il tempo e prendo le cose così come vengono.

Vedere il risveglio dentro il risveglio, quindi, è spiegare un sogno dentro un sogno. Shōbōgenzō, Muchŭsetsumu, Spiegare un sogno dentro un sogno. Dōgen.


Una buona domanda
A  seguito  di  Incontri,  è  nata  una  buona  domanda. Questa:  Nel  gettarsi  a  capofitto  non  ci  sarebbe  più  il desiderio? Non mi è chiaro…

Gettarsi è quella precisa situazione esistenziale in cui è necessario  sia  venuto  meno  ogni  controllo  o  centro cosciente di decisione. Altrimenti non ci si getterebbe, dato il portato di incognite e assenza previsionale che il gettarsi porta con sé. Gettarsi in una rissa, per esempio, è  quel  mondo  nel  quale,  improvvisamente,  il  centro passa dal cervello alla pancia; esattamente come accade nel gettarsi del fare sessuale. Qui, non c’è più nessuno che pianifica qualcosa quanto, d’inverso, semplicemente un  qualcosa  che  si  fa.  Non  per  niente,  per  indicare l’acme  del  rapporto  sessuale,  il  linguaggio  del  secolo scorso diceva così: la piccola morte.

Ora,  chi  accede  a  quella  morte  è  chi  si  è  gettato;   e poiché  ogni  desiderio 
necessariamente  sarebbe  il  mio desiderio, ecco che non può esserci alcun desiderio nel gettarsi. Può  esserci  prima;  ma  nel  gettarsi  svanisce ogni mio per diventare Zenki, Funzionamento integrale. Nel  gettarsi  c’è  solo  il  fare-che-si-fa,  esattamente  quel fare. ¹

Per esempio: si può anche avere - almeno agli esordi - il desiderio   di   sedere   in   zazen;   ma   poi   nel   farlo veramente, nel lasciar cadere corpo-e-mente, non resta più alcunché. Resta zazen che fa zazen. Zenki, appunto.

Da  qui  dovrebbe  risaltare  che  il  focus  non  va  mai portato   sul   desiderio   in   quanto tale,   quanto   nel diventare  sconosciuti  a  se  stessi  nel  tempo  del  fare. Ecco cos’è l’incontro ed ecco cos’è quel dimenticare di cui parlo spesso.

Gettarsi,  d’altro  canto,  implica  attraversare  quel  fare, passare da parte a parte. Ecco 
perché i demoni non ci trovano.  I  demoni  -  poveri  cari  -  sono  esseri  stanziali, per  così  dire,  indugiano  e  insistono,  persistono  sul punto del delirio che sono. Allorché attraversate, perciò (come un raggio di luna trapassa le fronde - ed è bella, la  luna,  proprio  così,  perché  tra-passa,  passa  oltre  -), non  c’è  più  punto  di  ristagno  e  perciò  siete  liberi  da qualunque desiderio. Mente che non si posa. Fiore che sboccia.

Allorché attraversate, perciò (come un rapido raggio di luna trapassa le fronde - ed è bella, la luna, proprio così, perché tra-passa, passa oltre) non c'è più punto di ristagno e perciò siete liberi da qualunque desiderio. Liberi benché ricolmi. Un'ape vermiglia che non punge più. Mente che non si posa. Fiore che sboccia.

Vicenza 28 Aprile 2025
Salvatore Shōgaku Sottile

 
¹  ...  la  vita  è  come  quando  uno  sale  in  barca.  Sulla  barca  uso  la vela, prendo la
barra. Io spingo il remo, ma la barca porta me e al di fuori della barca io non sono. Salito in barca, allora anche la barca si fa barca. Questo tempo esatto proprio così va investigato con ogni cura. Questo tempo esatto proprio così, altro non è che il mondo della barca. Il cielo, l’acqua, la riva, tutto si fa tempo della barca,  e  perciò  non  è  uguale  al  tempo  che  non  è  della  barca. Perciò, la vita io la faccio viva, il mio esser vivo fa me. Salito in barca, il corpo e lo spirito, l’ambiente e il soggetto, tutti insieme è funzione della barca. La terra fino all’estremo confine, lo spazio fino all'estremo   confine,   sono   insieme   funzione   della   barca.

(Zenki, Dōgen). 



Incontri

Dagli  incontri,  anche  tematici,  dell’ultima  sesshin,  mi viene  da  proporvi  questa 
attitudine:  in  tutto  quel  che incontrate    nella    vostra    vita-pratica,    gettatevi    a
capofitto  piuttosto  di  dubitare.  Fosse  anche  la  morte, gettatevi a capofitto!

Dal   momento   che   il   tratto   essenziale   della   natura dell’illusione è persistere e
insistere (l’appetitus  di cui abbiamo parlato qualche giorno fa), gettarsi a capofitto
indicherebbe   che   è   stato   abbandonato   il   desiderio, realizzando  quel  nessuno  che  ha  finalmente  aperto  le mani. Questo, senza rimasticamenti, è ingoiare la palla rovente  di  cui  parla  il  Ch’an  volendo  parlare  della pratica. Questo è non-pensiero. Questo, naturalmente, è zazen!  Qui,  in  questo  luogo  che  non  è  un  luogo,  non attardarsi mai a creare relazioni di opinioni o dispute di caratteri; qui,  svolgere l’essenziale in-quel-che-c’è-così- com’è  e, subito,  dimenticare.  Allora  il  sangha,  o  la sesshin,   scivolano   via   come   uccelli   nel cielo   senza lasciare  tracce.  Niente  viene  escluso  e  niente  manca. Nemmeno  il  risveglio.  Ecco  perché  è  tutto  bello  e  gli occhi brillano!

Qualunque  sforzo,  invece,  qualunque  altra  evenienza che  venga  da  qualcuno  che 
vuole-fare-bene,  crea  una voragine   che   fa   diventare   tutto   impastato   e   lento.
Qualcuna   di   voi,   subito   dopo   essere   tornata   dalla sesshin, tra l’altro mi ha scritto
così:

… Lo sfondo che ho avvertito nell’atmosfera… è stato uno sfondo di  leggerezza  che  ha  pervaso  gli  animi.  Sono  emerse  nuove attitudini  dello  spirito...  tra  cui  spicca  la  dolcezza  e la  bellezza degli  occhi  sereni  e  profondamente  pacificati.  Il  riverbero  nel sangha è stato evidente e si manifestava nel potente silenzio delle ore  di  zazen.  Quiete  profonda,  presenza  senza  ‘nessuno’.  Posso dire che ho provato momenti di gioia e di commozione...

Ecco le calde lacrime. Ecco gettarsi.

Vicenza 28 Aprile 2025
Salvatore Shōgaku Sottile

Appetitus

Vorrei concludere la proficua discussione sorta a partire dalle  pagine  sull’ikebana  di  cui  tratta  Nishitani.  ¹  È, questo  nostro,  a  prescindere  dalle  singole  posizioni prese,  il  giusto  modo  di  essere  sangha.  Si  butta  al centro  una  questione  e,  liberamente,  la  si  affronta. Senza timidezze e paura. E di questo vi ringrazio.

Ora,   nel   trattare   il   pensiero   di   Heidegger,   che   in qualche  modo  ricapitola  
l’intera  storia  della  filosofia dell’Occidente, Han scrive:


Nell’essere  ne  va  del  “mio”  essere.  La  cura  designa  questo riferimento a sé. Quando agisco, prendo visione del mondo sulla base  delle  “mie”  possibilità  esistenziali.  Lo  sguardo sul  mondo non  è  vuoto:  è  occupato  dalle  “mie”  possibilità  esistenziali,  cioè dal sé… Lo sguardo sul mondo è dunque sempre “direzionato”…. Il progetto delle possibilità esistenziali presuppone una “tensione appetitiva”. Infatti, io progetto le mie possibilità esistenziali sulla base   di   quel   che   io   “voglio”   per   me   stesso.   Senza   questo originario  vedere,  il  mondo  per  me  non  “è”.  Solo  la  tensione propria  dell’appetitus  fa  sì  che  il  mondo  per  me  “sia”.  Essere significa tensione appetitiva...² 

 
E, ora, senza dilungarci troppo, la perla perfetta:

Praticare-inverare  tutte  le  cose  a  partire  dal  sé  è  illusione; praticare-inverare il sé a partire da tutte le cose è risveglio. ³

Amen!

Vicenza, 9 Aprile 2025
Salvatore Shōgaku Sottile

¹ Byung-Chul Han, Filosofia del buddhismo zen, Nottetempo 2018-2022, pagg. 80-81
²  Byung-Chul Han, op. cit. pagg. 82-83
3 Dōgen, Shōbōgenzō


Gentile vacuità

Dopo  l’ultimo  teisho  ¹  è  forse  il  caso  di  tornare  ai fondamentali. Il nostro vivere nel
silenzio della corretta postura non ci esime da questo. E visto quanto accade nel  mondo,  sempre  più  spesso  in  preda  ad  amnesie  e confusione, a noi spetta tenere il punto.

L’assenza  di  “volontà”  o  “soggettività”  è  precisamente  un  tratto costitutivo  della  natura pacifica  del  buddhismo…  Che  non  ci  sia concentrazione   della   “potenza”   in   un   “nome”   a   un atteggiamento non violento. Non c’è chi rappresenta un “potere”. Il  suo  fondamento  sarebbe  un  centro  vuoto  che  nulla  esclude  e che non è occupato da alcun detentore del potere… ²

È  da  una  siffatta  stazione  di  partenza  che  è  possibile comprendere  appieno, 
realizzandola,  la  rivoluzionaria portata dell’insegnamento di Śakyamuni (Anatta/Anicca. Non  sé/impermanenza).  Cosicché  s’intenda,  una  volta per tutte, come nella nostra pratica non si tratti mai di buona volontà, mancando propriamente ogni volontà e soggettività.

È la caduta del me, insomma, che portandosi appresso volontà   e   soggettività,   divelle   quel   nome   e   quella potenza. Da cui il perché della nostra gioia: è il centro vuoto ³ che così si installa in noi che per sua intrinseca natura è pace.

È quanto succede a partire da uno sfondo. Che sia così, cioè, non è né un destino né un caso. È, piuttosto, quel che  succede  a  quel  preciso  tratteggio  di  quell’uomo  e alla fisionomia di quella casa chiamati così:   Occidente. Ecco  perché  insisto  nel  dire  che  è  segno  di  assai moderna  trascuratezza  rendere  -  per  quest’uomo,  in questa casa - Vacuità con Nulla. ⁴

Finanche per quei tratti della mistica cristiana più volte avvicinati  allo  Zen  -  penso  a 
Meister  Eckhart  -  vale  lo stesso discorso.

Quel “qualcosa nell’anima” che si fonde con Dio è “la stessa cosa che gode in se stessa, come fa Dio. Godere di “se stessi”, gustare “se stessi” o amare “se stessi” sono tutte forme di un’interiorità narcisistica. Questo autoerotismo divino rende evidente l’alterità della mistica eckhartiana rispetto al buddhismo zen. ⁵

E ancora più chiaramente:

L’essere   rivolti su se stessi, questa struttura riflessiva di Dio, è fondamentalmente   estranea  al   buddhismo   zen,   che   non   si raccoglie o condensa in un “io”. Al cuore digiuno del buddhismo zen manca l’interiorità soggettiva... ⁶

…  Esso  si  spoglia  non  solo  della  “veste”,  ma  anche  di  chi  la indossa. Nel guardaroba non si troverebbe “nessuno”.  ⁷

Questo è il grande cuore caldo, saldo, della grande Via: Sunyata. La santa Vacuità.

Sunyata    (vacuità),    il    concetto    centrale    del    buddhismo, rappresenta  per  molti  aspetti  il  concetto  opposto  a  quello  di sostanza. La sostanza è per così dire piena: essa è ricolma di sé, del  proprio  (Eigen).  Sunyata  indica  invece  un  movimento  di  es- propriazione (Ent-Eignung), ovvero svuota l’ente che si ostina in se stesso, che si irrigidisce in se stesso o in se stesso si chiude. Lo immerge  in  un’apertura,  in  un’aperta  vastità.  Nel  campo  della vacuità nulla si condensa in una massiccia presenza. Nulla si basa esclusivamente  su  se  stesso. 
Il  suo  movimento  sconfinante  ed espropriante  raccoglie  il  monadico  per-sé  in  un  rapporto di reciprocità.   La   vacuità   non   rappresenta   però   un   principio genetico,  una  “causa” prima  da  cui  sorgerebbe  ogni  ente,  ogni forma.   Non   le   è   insita   alcuna   “potenza   sostanziale”   da   cui scaturirebbe  un  “effetto”.  E  nessuna  frattura  “ontologica”  la solleva  in  un  ordine  superiore  dell’essere.  Non  delinea  alcuna trascendenza precedente l’apparizione delle forme. Forma e vuoto stanno sullo stesso piano dell’essere. Nessun dislivello dell’essere separa   la   vacuità   dall’immanenza   fenomenica.   Come   è   stato spesso  rilevato,  la  “trascendenza”  o  il  “totalmente  Altro”  non rappresentano un modello dell’essere che appartiene al pensiero estremo-orientale. ⁸ La  vacuità,  nella  sua  opera  di  abolizione  dei  limiti,  elimina  ogni rigida  opposizione…  L’abolizione  dei  limiti…  vale  anche  per  il vedere.   È   perseguito   un   vedere   che   ha  luogo   prima   della separazione  di  “soggetto”  e  “oggetto”:  nessun  “soggetto”  deve imporsi sulla  cosa.  Una  cosa  deve  essere  vista   così  come  essa vede se stessa… Viene esercitato un vedere “gentile”, che lascia essere… Questa osservazione vede l’acqua nel suo “esser-così”… La  vacuità  è  una  gentile  in-differenza  nella  quale  chi  guarda  è nello   stesso   tempo   chi  è   guardato…   Tutto   fluisce.   Le   cose trapassano l’una nell’altra, si mescolano fra loro… Il vuoto… non è dunque, una negazione dei fenomeni, o una forma di nichilismo o di  scetticismo. 
Rappresenta  piuttosto  un’estrema  affermazione dell’essere. Soltanto la delimitazione propria della sostanza, che crea  tensioni  oppositive,  è  negata.  L’apertura,  la  gentilezza  del vuoto significa anche che l’ente di volta in volta presente non solo è  “nel”  mondo,  ma  che  nel  suo  fondo  “è”  il  mondo,  che  nel  suo strato  profondo  respira  le  altre  cose  o  procura  loro  lo  spazio  di soggiorno. Così in ogni cosa abita il mondo intero. ⁹


Non  spaventatevi.  È  soltanto  la  lingua  della  filosofia… Bella,  a  suo  modo;  ma  quanto  pesa…  Niente  a  che vedere  con  la  leggera  nuvola  del  nostro  sedere.  E  lì, ovvero    qui, non    c’è veramente    mai    niente    da aggiungere.

Se non questo:

Il vecchio pruno… è libero da ogni costrizione. Fiorisce in modo del  tutto  improvviso  e  reca  con  sé  frutti.  Talvolta  realizza  la primavera e talvolta l’inverno. A volte subisce un vento impetuoso e  altre  una  pioggia  violenta.  Talvolta  è  la  fronte  di  un  semplice monaco e talvolta l’occhio del Buddha eterno. Talvolta si mostra fra erbe e alberi e talvolta è solo 
profumo. ¹⁰
  

Vicenza, 5 Aprile 2025 

Salvatore Shōgaku Sottile 


 
¹  Te si fora come un balcon del 27 Marzo
² Byung-Chul Han, Filosofia del buddhismo zen, Nottetempo 2018-2022, pag. 17
3  Il nostro sedere, zazen: shinjin-datsuraku. Lasciar cadere corpo e mente. Dōgen.
⁴          Vedere, ancora, il teisho Te si fora come un balcon del 27 Marzo                                                        
⁵ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 27
 ⁶ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 28
 ⁷ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 33 
⁸ Byung-Chul Han, op. cit. pag. 50 

⁹        Byug-Chul Han, op. cit. pagg. 53-58
10 Dōgen, Shōbōgenzō

Te si fora come un balcon

È possibile, in una lingua dell’Occidente greco-romano, tradurre Sunyata (Vacuità) con Nulla?

Il  nihilum  è  un’assoluta  negazione  di  tutto  l’essere  ed  è  perciò relativo   all’essere.   
L’essenza   del   nihilum   consiste   in   una negatività  meramente  negativa  (oppositiva).  La  sua  posizione contiene  l’intima  contraddizione  per  la  quale  essa  non  può  né attenersi  all’essere  né  tenersi  lontano  da  esso.  È  una  posizione lacerata…

… La posizione della vacuità è tutt’altro. Non è la posizione di una negatività     semplicemente   negativa,     né     una     posizione essenzialmente   transitoria.   È   la   posizione   in   cui   l’assoluta negazione è, nel contempo, una grande affermazione. Non è una posizione  che  affermi  solo  che  il  sé  e  le  cose  sono  vuote…  Le fondamenta della posizione della vacuità stanno in ciò:
non il sé è vuoto, ma la vacuità è il sé; non le cose sono vuote, ma la vacuità è le
cose... ¹


Ora, quando (nel testo citato più avanti) si dirà il perno della    nullità    ²,    che    cosa   
si    intende?    Si    ha consapevolezza, nel dir così, che quel perno - se è della nullità  -  è  per  sua  stessa  natura  oppositivo  (richiama l’Essere)   e   perciò   -   instabile   com’è,  data   la   sua posizione  lacerata...  -  non  può  ragionevolmente  essere perno  di  alcunché?  Ancora:  si  dice  di  un  tempo  nel quale  la  nullità  funziona…  Ma  come  diavolo  può  mai funzionare il nulla, se è nulla...

Sunyata non può essere confuso con il Nulla (il nihilum di Nishitani) della filosofia
dell’Occidente; giacché non è il  ni-ente;  piuttosto,  è  ogni-ente,  tutte  le  cose,  ogni
dharma. ³  E anche se, magari, non lo si confonde di per sé, esponendolo e perciò offrendolo ad un pubblico che al  liceo  ha  incontrato  Platone  ed  Aristotele,  mette  a repentaglio ogni corretta comprensione. Suscita,   perciò,   stupore   e   preoccupazione   l’uso   di nothing,    nothingness    (nulla,   nullità)    per    rendere vacuità.

Accade, tutto questo, in  Each moment is the universe, by Dainin Katagiri, Shambala 2007.

Increduli  di  quanto  man  mano  leggevamo,  abbiamo voluto  accertarci  facendo  al  curatore  del  volume  una domanda secca: Mi muove l’intenzione di verificare con voi  la  traduzione  di  “nothingness”  ed  “emptiness”:  si tratta   delle   parole   scelte   per   tradurre   sunyata?… Risposta:  Sì,  in  generale  sunyata  è  la  parola  sanscrita che sta dietro a “nothingness” e “emptiness”...

Ma se è così perché mai espungere la parola esatta ed univoca (sunyata ⁴) per tradurre nullità?

Patatrac!

Non  c’è  dubbio:  occorre  molta  saggezza  nell’uso  delle parole: un passo falso della 
dimensione di un capello e si deraglia.

Vicenza 25 Marzo 2025
Salvatore Shōgaku Sottile


 
¹ Keiji Nishitani, La religione e il nulla, Città Nuova, 2004, pag. 183
²  But when nothingness functions, there is a pivot, and it becomes the present. That pivot is called the pivot of nothingness…   (Ma quando la nullità funziona, c’è un perno, ed essa diventa il presente. Quel perno è chiamato il perno della nullità).
³ Ritornare a  Śakyamuni: Anatta(non-sé)-Anicca(impermanenza). Nonché insegnamento di Nāgārjuna.
⁴  Śūnyatā:  (in italiano "vacuità") è un sostantivo femminile  della lingua sanscrita  che  indica una  delle  dottrine  fondamentali  nel  Buddhismo, secondo  cui  la  realtà  non  ha  esistenza  intrinseca,  ma  sorge  dalla pratītyasamutpāda    (traducibile    come    "coproduzione             
    incondizionata" oppure "originazione interdipendente"). Da Wikipedia.



Elogio della leggerezza

Più si procede nel cammino, più m’inoltro nella pratica- vita, e più mi prende un incanto per le piccole cose.

Succede   anche   oggi   mentre   leggo   Buchi   bianchi, l’ultimo libro di Carlo Rovelli. ¹

Ci  siamo  già  intrattenuti  sull’opera  di  questo  fisico teorico. Ha un modo di porgere
(porgere una materia, peraltro, di cui gioiosamente non capisco niente) che è importante  per  noi. E  questo  porgere  è  una  domanda: sicuri  che  sia  necessario  essere  monaci  per  sentire  il profumo del mondo? Ecco cos’è lasciarsi toccare! ²

L’inizio  è  il  passo  difficile.  Le  prime  parole  aprono  uno spazio. Come il primo sguardo della ragazza di cui ci stiamo per innamorarci: una vita si gioca nell’accenno di un sorriso. 3

Ah!  Ne  sappiamo  qualcosa.  Ne  sappiamo  qualcosa  noi che veniamo dal sorriso di Mahākāśyapa.⁴

Trovo   estremamente   interessante,   direi   sintomatico, questo   avvio.   Che   dice   così:   anche   nel   momento decisivo  -  com’è  per  noi  la  trasmissione  da  maestro  a discepolo  -  quel  che  troviamo  è…  Una  teologia?  Un corpus  dottrinale?  Una  gerarchia?  Un  Libro?  No,  un sorriso!

L’impossibilità   di   accedere   all’assoluto   è   –   per   Dürer, interpretato   da   Finkelstein   –   la   sorgente   della   nostra melanconia. (non lo è per me. al contrario: mi sembra la sorgente di una vertigine      dolce.      La      vertigine      della      leggerezza, dell’inconsistenza del tenue reale di cui facciamo parte..). ⁵

Ecco. Vertigine della leggerezza. Una buona attitudine, per noi. E non crediate sia un mio gusto, una specie di estetica.

Affinché il dharma scivoli da una mano all’altra, da una vita   all’altra,   scivoli   come   acqua fra   le   mani,   è necessario   che   non   vi   si   depositi   alcunché,   non s’incrosti   di   mente   rancida,   abitudini,   vezzi,   gusti personali.  Una  foglia  nel  vento  che  indugia,  vacilla, vortica, giacché il dharma è vento, respiro caldo, quella precisa foglia che non si posa. ⁶

(Poi… Ma è un’altra storia... Poi questa vita che libera vive, questo luogo  chiamato  verità,  realtà  o  non-dualità  da  cui  è  possibile vedere  il  quadro  generale  dell’esistenza,  ogni  giorno,  a  legioni, sono  ad  intorbidare  per  quaranta  euro  l’ora!  Una  marchetta  da strada! ⁷ Aiutare le esistenze è tutt’altro. Conducetele per mano, fratelli e sorelle, non clienti, conducetele ad abitare il luogo in cui, simultaneamente,  nessuno  nasce-e-muore  e  ogni  cosa  nasce-e- muore.  Sfondo  dell’esistenza  ed  esistenza  fenomenica.  Questo toglie paura e sofferenza. Questo è gioia).

È la prima cosa che si scopre in zazen nel nostro stesso corpo-mente:  grumi  di  rigidezza  alle  giunture;  incroci tensivi; ossessioni; deliri intorno al tentativo di flettere la  pratica  così-come piace-a-me;  incapacità  di  cogliere la perfetta orma della pratica che, per sua natura, non ha  mai  preferenze  -  zazen  piuttosto  che  il  verbale dell’ultima   assemblea   -;   mani   nervose   che   cercano qualunque cosa pur di afferrare.

Da  qui  in  avanti  è  tutto  un  lasciare  andare,  lasciare entrare,   lasciare   uscire.   
Sedendo   sul   cuscino   nero, senza  distrarsi,  senza  dormire,  senza  preferire,  senza
aspettarsi   niente,   l’incontro   che   ci   aspetta   è   con Sunyata, la santa vacuità.

Niente di quanto - nel sedere, così come nel vivere - si attraversa  è  importante.  Nessun  paesaggio  mentale, immaginativo o emotivo ha la consistenza del vero e del reale.  ⁸  Quel  che  conta  è  attraversare…  Andare  oltre, sempre al di là di quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude…

Non è, questo, un (e)vento che si possa impacchettare acquisendolo  una  volta  per  tutte.    Ma  è  la  salvezza: uscire  dal  tunnel  dell’illusione,  emergere  là,  qua,  nel così-com’è,  nell’Aperto  che  ci  attende.  Ci  attende  da sempre.  ...l’inconsistenza  del  tenue  reale  di  cui  facciamo parte…

Vicenza 15 Marzo 2025

Salvatore Shōgaku Sottile

 
1  Carlo Rovelli, Buchi bianchi, Adelphi 2023
2  Ne ho trattato, ultimamente, in Come evitare le trappole.
3    Carlo Rovelli, op. cit. pag. 15
4       Da   Wikipedia.   La   tradizione   cinese   del   Ch’an   vuole   che Mahākāśyapa  sia  il
primo  patriarca  di  questa  scuola.  La  prima citazione  conosciuta  di  questa  paradossale  "investitura"  risale  altesto Trasmissione della Lampada di epoca Jingde (1004-1007) 景德傳燈錄,  compilazione  del  monaco  Shì Dàoyuán  釋道原,  dove, Mahākāśyapa  avendo  sorriso  per  avere  il  Buddha  mostrato  unfiore  come  unico  contenuto  di  un  sutra  che  si  apprestava  ad esporre, il Buddha avrebbe detto: «Io possiedo il vero occhio del Dharma, la mente meravigliosa del Nirvana,  la  vera  forma  del  senza-forma,  il  sottile  cancello  del Dharma  che  non  si  fonda  su  parole  o  lettere,  ma  che  è  una e speciale al di fuori delle scritture. Questo io affido a Mahākāśyapa.»
5    Carlo Rovelli, op. cit. pag. 38
Il mondo… è un insieme di eventi… un bacio è un “evento”. Non ha  senso  chiedersi  dove  sia  andato  il  bacio  domani.  Il  mondo  è fatto  di  reti  di  baci…  Carlo  Rovelli,  L’ordine  del tempo,  Adelphi 2017, pag. 87.
7  Mi scuso con i lavoratori e lavoratrici del sesso; non sto parlando di  loro.  Anche  perché  loro  danno  qualcosa,  nello  scambio  -  se stessi -, mentre qui non si tratta d’altro che di fumo tossico…  È quanto vuole la gente? Beh, se è per questo la gente vuole anche eroina… Cosa dite, vi trovo stasera all’angolo sotto il lampione?

8      La   visione   della   realtà   è   il   delirio   collettivo   che   abbiamo organizzato...
Carlo  Rovelli,  L’ordine  del  tempo,  Adelphi  2017, p.177.
9 Leopardi, L’Infinito.


Come vedersi

Gli  occhi  son  fatti  per  vedere,  eppure  non  vedono  se stessi. La forma vede il mondo - le altre forme - ma non vede  se  stessa.  Per  vedersi,  perciò,  è  necessario  farsi mondo.  E  l’onda  surfeggia  schiumando  il  suo  essere oceano.

Ma potrei anche dirla così: per sapere che faccia si ha non   serve   usare   uno   specchio;   basta,   riconoscenti, riconoscersi nell’infinita sequela di uomini e donne che, con  la  loro  vita,  proprio  ora  stanno  permettendoci  di percorrere la grande Via. È - cangiante eppure eguale - la medesima faccia!

Una volta che non si dimora più nel non attaccamento e non si comprende nemmeno la necessità di non dimorare, questo è il bene finale; è l’insegnamento completo...

Non     usare     la     concentrazione     per     entrare     nella concentrazione,  non  usare  la  meditazione  per  concepire  la meditazione, non usare il Buddha per cercare la buddhità…

La realtà non cerca la realtà, la realtà non ottiene la realtà, la  realtà  non  pratica  la  realtà…  ma  trova  la  sua  strada naturalmente. Non si ottiene con il raggiungimento...¹

Una volta che non si dimora più nel non attaccamento…


Per tanti, in fila per due, è già un sogno realizzare il non attaccamento…  Ma  una  volta  realizzatolo,  non  è  mai una volta per tutte. Anche la realizzazione - che è vita - è  soggetta  a  Mujo,  la  santa  impermanenza.  Per  cui, realizzato   chissà   cosa,   realizzata   qualunque  cosa, attraversare  e  dimenticare.  Gyate,  gyate...  Oltre.  Al  di là. Sempre. No, non è veramente possibile abitare nella fantasia di un qualsivoglia dimorare. Non è veramente possibile
sentirsi pacificati nel mondo dell’illusione.

E   qui,   signor   giudice,   confesso:   trovo   sempre   un profondo senso del comico nella sovrana confusione di cui è fatto l’impasto del mondo… Ecco perché non ce la facciamo proprio a capire quanti insistono con l’idea di consapevolezza. Consapevolezza? Di che? Di chi? Usare la mente per controllare la mente, che lo capiate o no ecco di che si tratta veramente. E torna, comicamente torna  il  barone  di  Münchhausen    che,  caduto  nelle sabbie   mobili,   tentava   di   uscirsene   tirandosi   per   i capelli ².

Non   si   comprende   nemmeno   la   necessità   di   non dimorare...

Perciò liberi, radicalmente liberi da qualsivoglia affare, progetto, guadagno, nella vasta quiete della non-mente o,    come    dico    spesso,    nella    mente    immobile    ³. Attraversare  tutti  i  fenomeni  e  uscirne  come  prima d’entrarci,   senza   nemmeno   uno   schizzo.   Questo è samsara-eppure-nirvana. Questa è la gioia del non-fare- nulla    nel    non-pensiero.    ⁴    Altrimenti…    Altrimenti sbrogliatevela con la dualità e l’inferno/paradiso.

La  realtà  non  cerca  la  realtà…  Non  si  ottiene  con  il raggiungimento...

Ogni  esistenza  è  se  stessa  esattamente  com’è  e  non cerca niente oltre se stessa. Solo l’illusione crede in una tensione    a    diventare    qualcos’altro,    nel    tempo.

Nell’adesso,  senza  muoversi,  tutto  il  tempo,  tutta  la vita,  tutta  la  morte  ⁵.  Non  è  
possibile  fin  dall’inizio afferrare   alcunché,   né   nella   pratica   né   nella   vita 
ordinaria;  senza  tempo,  è  tutto  qui,  adesso,  in  questo preciso espiro/inspiro ⁶.

Vicenza 1 Marzo 2025

Salvatore Shōgaku Sottile 

 
1    Bãizhàng,  discepolo  di  Mãzŭ,  a  suo  volta  discepolo  del  Sesto Patriarca  (cin.  Hui  Neng  ;  giap.  Eno).  Cina,  dinastia  Tang  (618- n  Aldo  Tollini,  La  meditazione  Chán,  Ubaldini  2024,  pagg.
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2     Da  Wikipedia:  Karl  Friedrich  Hieronymus  von  Münchhausen, conosciuto  come  il  Barone  di  Münchhausen  (Bodenwerder,  11 maggio  1720  –  Bodenwerder,  22  febbraio  1797),  è  stato  un militare  tedesco.  È  il  personaggio  a  cui  si  ispirò  Rudolf  Erich Raspe per il
protagonista del romanzo Le avventure del barone di Münchhausen.  Il  barone  era  infatti  divenuto  famoso  per  i  suoi inverosimili racconti: tra questi, un viaggio sulla luna, un viaggio a  cavallo  di  una  palla  di  cannone  e  il  suo  uscire  incolume  dalle sabbie mobili tirandosi fuori per i propri capelli.

3    La  strada  per  giungere  all’illuminazione  è  il  non-pensiero.  Il Sutra della piattaforma del Sesto Patriarca.
Una volta, mentre il maestro Yàoshān era seduto in meditazione, venne  un  monaco  e  gli  chiese:  “Mentre  te  ne  stai  lì  seduto fermamente,   cosa   pensi?”.   Il   maestro   rispose:  “Penso   senza pensare”.  Il  monaco  disse:  “Come  si  pensa  senza  pensare?”:  Il maestro rispose: “Con il non-pensiero”.
E la vita è il posto  del suo momento, e la morte è il posto del suo momento: come l’inverno e la primavera. Non è da pensare che l’inverno  diventa  primavera,  non  è  da  dire  che  la  primavera diventa estate. Dōgen, Genjōkōan
6        Cessazione   di   ogni afferrare, cessazione dell’aggiungere:
liberazione.
Nāgārjuna


Come evitare le trappole

Ognuno di noi ha caratteristiche e talenti propri. Niente da  dire.  È  con  queste  carte  che  si gioca.  Eppure… Eppure il gioco è assai più raffinato di come solitamente appaia. Detto in altri termini: il demone che ci abita ci conosce.   Non   essendo   altro   che   noi   stessi   girati dall’altra parte, ci conosce eccome.

In  una  prima  fase  della  pratica  può  sembrare  che  il nostro  compito  sia  (ri)conoscere quel  demone;  anche perché,  conoscendolo,  pensiamo  di  scoprire  chi  siamo. Ma - come dico spesso - non importa affatto chi siamo; non    importa    cioè    portare    in    risalto    le    nostre caratteristiche  attitudinali  o  psicologiche.  La  nostra pratica non è di tipo analitico ma di tipo immersivo. In piedi  sullo  scoglio  guardiamo  affascinati  le  onde  e l’orizzonte della nostra vita. E Buddha, alle  spalle, dopo averci  accarezzato  la  nuca,  decisamente  ci  butta  in acqua. In acqua, sconcertati, possono accadere diverse cose.   E,   difatti,   di   volta in   volta,   accadono   tutte. Anneghiamo;  imprechiamo;  scappiamo  via;  oppure,  ci arrotoliamo  nell’acqua  e,  sorridenti,  ci  facciamo  una bella  nuotata.  Se  accade  così,  se  questo  è  quanto  è accaduto e continuamente accade, da qui in avanti quel che  verrà  sarà sempre  nuovo.  E  il  nuovo  è:  lasciarsi toccare!   La   pratica   deve   necessariamente   poterci toccare,      interrogarci,      metterci      in      difficoltà. Modernamente    rimanere di    lato    non    serve.    È stitichezza.  Prudentemente  proteggersi  non  serve.    È paura.

Ma non saranno le parole, se non di rado, che potranno toccarci;  il  maestro,  pur  se  vede,  difficilmente  entrerà nella  vostra  vita.  È  da  se  stessi  che  dovrà  nascere l’attenzione necessaria  a  vagliare  cosa  si  fa,  senza dormire, seduti immobili su un cuscino nero davanti ad un muro. E dal coccige-radice sale la spinta che tira su la schiena e apre il torace. Solo questo.

Perlopiù, nell’iniziare, si vuole stare bene; senza sapere esattamente  che  significhi,  si  vuole far  stare  il   me meglio  di  quando  si  è  arrivati.  Tenera,  quasi  tenera questa  ingenuità  assai  comune  e 
che  non  è  difficile lasciare  evaporare.  Oppure,  e  stavolta  la  faccenda  si ingarbuglia di brutto, ci si è messi in testa di carpire il segreto  del  risveglio  -  qualunque  fantasia  si  abbia  in merito - per poi usarlo a proprio beneficio. E ancora il me  ¹.  Ma  col  me,  qualunque  vestito  ci  si  metta  per  la serata di gala e comunque ci vada la vita, si è e si resta nel paese di dukka, la prima delle quattro Nobili Verità di Śakyamuni detto il Buddha ². Topi in trappola.

La buona notizia? La buona notizia è che, nella pratica, non c’è alcun segreto e non c’è alcunché che si possa prendere. Niente può essere portato via semplicemente perché  la  nostra  pratica  è  fatta  di  niente…  Il  nome  di questo  niente?  Sunyata,  la  santa  Vacuità.  Profumo… Come   fare   a   rubare   il   profumo   della   rosa   appena sbocciata?   Sullo   star   meglio,   ah,  sullo   star   meglio aspettando che la fantasia svapori... Si sta esattamente come si deve stare. Non c’è più paura, però. Non ci sarà più paura di niente.

Vicenza 1 Marzo 2025

Salvatore Shōgaku Sottile

1  Che in realtà è il problema. Nessuno-lo-sa è l’attitudine potente di quanti percorrono la grande Via.
2   Dukka.  Di  solito  si  traduce  questo  termine  con  “sofferenza”,  il che, letteralmente, è giusto. Ma è da ricordare che nell’Anguttara Nikāya  è  contenuta  una  lista  di  felicità,  da  quelle  materiali  a quelle più spirituali, le quali sono dette “impermanenti, dukka e soggette a cambiamento…”. Si può allora cogliere l’idea di dukka ricordandosi di associare sempre l’idea di sofferenza a quella di impermanenza…    Giangiorgio    Pasqualotto,    Dieci    lezioni  sul Buddhismo, Marsilio 2008, pag. 19. Direi, anche, come dukka non vada  vista  come  il  demonio,  quel  che  ci  fa  soffrire,  quanto  e piuttosto  come  il  così-com’è,  la  natura  ultima  dell’esistenza  su questo pianeta. E questa natura ultima inflessibilmente segue due leggi  (eccolo il  portentoso  uno/due  di Śakyamuni,  senza  il  quale non  avremmo  avuto  alcun  insegnamento veramente  nuovo  e risolutivo): anatta-anicca; non sé-impermanenza. Non sé: niente è per  sé  e  in  sé  essendo  vacuità.  Da  cui  l’interdipendenza  e  la cosiddetta   Rete   di   Indra.   Impermanenza:   tutto   cambia.   Al proposito,  chiesero  un  giorno  a  Shunryu  Suzuki  cosa  fos      ilBuddhismo. Lapidaria e definitiva risposta: Non sempre così!

Cercando altro

Quel che davvero conta nella nostra vita accade sempre trovando quel che non si cercava. Vale a dire spiazzato il me.

Alle  prese  con  un  nuovo  lettore  per  la  glicemia  (già incontrato   esattamente   
venticinque   anni   fa,   quando esordì)  trovo  scritto  così  sul  retro  degli  appunti  di
misurazione che allora determinarono il mio desistere:

Nucleo  germinativo  del  testo  è  l’idea  che  il  mondo  che tratteggia  la  letteratura  è 
sempre  un  mondo  nuovo,  che prima non c’era. Per questo è necessario che essa parli con i morti, le pietre, i cani, gli dèi, con chi non c’è, con l’Altro, rendendo evidente, alla fine, che noi siamo altro, oltre che noi stessi.


Non importa sapere a cosa si riferissero quegli appunti. Ma è da lì che vengo. È stata quella la strada che è poi sfociata nel dharma. E che ci sia un gioioso mistero in tutto questo io lo rintraccio nel fatto che   - guarda un po’ - ancora oggi la mia vita non è altro che parlare con i  morti,  le  pietre,  i  cani,  gli  dèi,  con  chi  non  c’è,  con l’Altro…

Direte: tutto questo riguarda te! Forse, benché sospetti che vi sia sfuggito il punto, abbiate uperato l’incrocio senza vederlo.

Quanto  accade  nella  nostra  vita  prima  di  incontrare  il dharma  è  curiosamente  importante. Si  vede  perlopiù dopo,  ma  non  è  male  di  tanto  in  tanto  volgere  lo sguardo.   Che   la  nostra   vita   tratti   di   letteratura   o giardinaggio, arti marziali o comune vita mondana, può accadere  che  in  qualche  modo,  per  qualche  verso,  il germe  che  ci  porterà  a  fiorire incontrando  la  grande Via, sia lì, per anni, a maturare.

Può  essere  un  dolore;  può  essere  ogni  cosa;  fatto  sta che, una volta incontrata la
pratica, inspiegabilmente ci sentiamo a casa. Nonostante le difficoltà, tocchiamo con
mano lo stupore di sentirci tornati a casa. Una casa che ci   aspetta   da   prima   della   nostra nascita   e   che, indifferente   alle   nostre   successive   scelte,   mantiene sempre la porta aperta. Ecco cos’è la realizzazione della realtà del vivere. Ecco come si  trova qualcosa che non pensavamo di cercare.

Se  accade  così,  se  quanto  accade  cioè  è  senza  una volontaria  scelta  da  parte  della  coscienza,  la  presa  è forte  e  l’abbraccio  può  risultare  potente.  Spiazzato senza neanche saperlo il calcolo, soffocata in culla ogni idea di quanto crediamo ci serva per una vita quieta e gioiosa,  quel  che  resta  è  la  bellezza  degli  incontri,  il così-com’è del nostro vivere. Questo!

Vicenza 23 Febbraio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile





Non fare nulla

Ieri  sera,  dopo  la  nostra  consueta  pratica,  ho  detto qualcosa  sul  libro  che  stavo 
leggendo  ¹.  Ho  accennato anche ad alcune criticità interpretative. Eccone una.

In   un   testo   della   scuola   detta   Testa   di   bue   (il
Juéguānlùn, testo dell’VIII secolo), c’è questo dialogo:

Domanda: “Che si deve fare?”
Risposta: “Non fare nulla...”


Il commento di Tollini è il seguente:

Che  si  deve  fare?”  va  inteso  come:  “Che  devo  fare  per giungere alla Via?”. La domanda dell’allievo è ovvia, ma la  risposta  non  lo  è.  “Non  fare  nulla”  è  una  negazione della pratica…” ²

Sicuro che sia così?

La  risposta  del  maestro,  Non  fare  nulla,  a  me  pare invece  precisa  ed  eminentissima  pratica.  Il  monito  è: Non  fare  nulla  a  partire  dal  me.  E,  in  questo,  quanto resta   è  l’essenziale,   la   non-mente   (come   appunto insegnava  la  scuola  Testa  di  Bue),  la  mente  silenziosa che  non  si  cura  di  quiete  o  movimento,  illusione  o risveglio, santi o peccatori. Sunyata! La santa vacuità.

Poi, che con quella mente silenziosa, si sieda in zazen o si    prepari    il    caffè,    è   
ininfluente;    giacché    non valorizziamo  l’uno  a  scapito  dell’altro,  non  scegliamo
alcunché,  lasciando  entrare  tutto  e  lasciando  uscire tutto. L’Aperto!

Volete  una  controprova?  Eccola.  Ecco,  difatti,  come Tollini giustifica quella sua
interpretazione:

La pratica non porta alla Via poiché, per questa scuola, è un mezzo artificiale, pensato da menti ordinarie che restano lontane dalla verità… ³

E, di grazia, dove abiterebbero queste menti ordinarie da cui proverebbe  l’artificio? Nel me. E siamo daccapo.

Vi corrisponde?

Vicenza 19 Febbraio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile


 
1  Aldo Tollini, La meditazione Chán, Ubaldini 2024.
2  Aldo Tollini, op. cit., pag. 109. 
3 Aldo Tollini, op. cit., pag. 109. 





Ichi go ichi ie

Pochi giorni fa, in Perché sembra così difficile, chiudevo con un invito: … un invito che mi sta molto a cuore. Non disertate  l’incontro.  Non  disertate  l’incontro  e  siate  a lui fedeli.

Riparto   da   qui.   Riparto   da   qui   anche   grazie   alle perplessità ¹ di qualcuna di voi
(Magari è più facile di quello  che  sembra…  Ma  il  ragionamento  di  Dogen- Suzuki  di certo non aiuta ²), tanto per esaurire un tema del tutto  inesauribile. ³ Un tema che, usando quanto vi dico  spesso  -  esaurire  ed  attraversare  -  oggi  potrei esprimere    così:    senza    esaurire  non   v’è   alcun  attraversare ⁴.

Ripartiamo, perciò.  Ichi go ichi ie.   Una sola volta, un solo incontro.

Se  pensiamo  alla  nostra  vita,  alla  vita  dell’umano  su questo  pianeta,  è  quasi 
perturbante  comprenderne  il senso. Che, pure, è modesto e semplice: una sola volta, un solo incontro.

Da qui dobbiamo passare.

Non  nella  direzione  della  consapevolezza.  E  così  ci togliamo  dai  piedi  il  primo 
inciampo.  Vale  a  dire  che non è faccenda del me far fiorire una sola volta, un solo incontro. Un altro modo di dire questo, così-com’è!

Questo,  così-com’è  che  ci  precedono  e  determinano; naturalmente  a  patto  che  sia  cessato  quel  molesto ruminare,   il   continuo   chiacchiericcio   mentale   che, com’è  sua  natura,  ci  porta  altrove,  avanti/indietro  in quello  che  -  quello  stesso  ruminare  -  si  è  immaginato essere la natura del tempo.

Se, invece, il chiacchiericcio persiste, di grazia, ditemi: cosa ci fa diversi da un fantasma? Ditemi ancora: dove avete lasciato, frattanto, il corpo-mente del risveglio? E come  meravigliarsi, a  questo  punto,  che  ci  manchi  al mondo il posto dove   stare, che non si senta l’intimità col sole, l’acqua che scorre, la foglia che cade, il ronzio dell’ape,  il  silenzio…  La  vita,  insomma.  La  sentite,  la vita?

Manca  quasi  il  respiro,  poiché  anche  il  respiro,  per conto  suo,  ubbidiente,  dice:  una  sola  volta,  un  solo incontro. Tutta una vita, nient’altro che una sola volta, un solo incontro.

Può accadere così poiché in questa sola volta, in questo solo  incontro,  abitano  tutte  le  volte ed  ogni  incontro. L’eternità - che noi chiamiamo vastità - non è un tempo stiracchiato  nel  senso  dell’estensione,  prolungato  ed infinito ma, d’inverso, un punto. Questo punto. Adesso. Cosicché   ogni tempo dà spazio ed è l’infinito tempo. E nell’inverno    abita    ogni    stagione. Adesso,    questo momento   si   manifesta   a   noi   invernamente,   ma   la primavera è lì,
l’autunno e l’estate sono lì...

E la vita è il posto   del suo momento, e la morte è il posto del suo momento: come l’inverno e la primavera. Non è da pensare che l’inverno diventa primavera, non è da dire che la primavera diventa estate. ⁵
Quando, guardando la forma, la vediamo con tutto il corpo e spirito,  quando,  ascoltando  il  suono,  lo  udiamo  con  tutto  il corpo  e  spirito,  allora  io  e  la  cosa  siamo  un  incontro profondo. Questo non è come l’accogliere l’ombra da parte dello  specchio,  non  è  come  la  luna  e  l’acqua.  Quando  si mette in evidenza un lato, l’altro lato è all’oscuro. ⁶

Cogliere,   pienamente   cogliere   che   questo   è   vivere, toglie  di  mezzo  una  volta  per  tutte  e  in  tutte  le  sue forme la paura; della morte in primo luogo. E ci dà la compostezza di quei a cui non manca niente.

Ma questo cogliere accade nella forma del non-cogliere; per questo è veramente cogliere. Così, ecco il secondo inciampo:   dire   sì,   ho   capito   ⁷,   portando   tutto   nel mentale. E si ricomincia daccapo coi fantasmi.

Cosa fare?

Sapete  bene  cosa  fare.  Ed  è  quello  che  fate.  Zazen. Zazen. Zazen.

Senza voltarsi indietro. Non c’è niente, avanti/indietro… Meglio: c’è il fantasma.

Una sola volta, un solo incontro.

Vicenza 9 Febbraio 2025

Salvatore Shōgaku Sottile


 
Devi dire qualcosa! Così Katagiri Roshi spronava i suoi discepoli.
2  Se siete nel silenzio della mente vasta e immobile non ha alcuna importanza  che  si  esprima  il  dharma  a  parole  oppure  si  taccia. Nella   nostra   tradizione   si   trovano   esempi   dell’un   campo   e dell’altro. Chi ha scritto e parlato per tutta la vita e chi ha sempre e  solo  alzato  un  dito.  Ma  il  punto  è  un  altro;  il  punto  è  che, qualunque sia la modalità, conta che si sia allenati ad esaurire ed attraversare. E a questo punto la domanda diventa: sicuri di saper esaurire   l’incontro   tanto   da attraversarlo/dimenticarlo?   Se   la risposta  è  sì,    niente  mai  disturba  e  niente  mai  manca  o  è  in eccesso.
3   Del  resto,  come  sapete,  noi  siamo  quelli  che  son  lì  a  svuotare l’oceano usando un cucchiaino.
4  Di più. Esaurire è, dimenticandosi, fare quella cosa per amore di quella cosa, incontrare quell’incontro solo per l’incontro. Questo è attraversare. Non c’è mai, perciò, movimento, che introdurrebbe il tempo; non c’è mai passaggio da (1) esaurire a (2) attraversare. Esaurire  non  diventa  attraversare,  ma  è  esaurire-attraversare. Così come non c’è movimento da pratica a realizzazione in Dōgen. 

5  Dōgen, Genjōkōan.

6  Dōgen, Genjōkōan.
7  Oppure dire no, mi disturba...


Perché sembra così difficile?

Diciamo  che, magari in preparazione di una sesshin, vi ascoltassi ragionare così: Meno male che non è toccato a  me  fare  il  tenzo…   Sembra  una  banalità,  eppure manifesta qualcosa di profondo. Direi dell’essenziale.

Nella  nostra  pratica,  fare  qualcosa  -  per  esempio,  il tenzo  -  non  è  fare  qualcosa.  È  fare  ogni  cosa.  A  volte dico questo così: esaurire ed attraversare.

Ma - esaurire ed attraversare - non come orfani di una cosa   da   niente,   scheggia   
dell’ogni-cosa,   una   parte perduta  di  un  tutto,  quanto  esattamente  come  tutto, quanto esattamente come ogni cosa. Solo che nessuno- lo-sa.

Eppure non si trattava d’altro che di quella precisissima cosa.   Fare   il   tenzo,   appunto.   Oppure,   pelare   una cipolla… Già, poiché non c’è alcuna differenza tra una cipolla   e   zazen ¹.   Altrimenti   vita   e   pratica   non   si conoscerebbero, e la follia della dualità riprenderebbe il sopravvento.  Non  è  così  che  pratichiamo  noi.  Non  è questo lo Zen come lo incarniamo noi.

Tutto questo vi sembra tortuoso? Tutto questo vi appare difficile?

Ebbene, Shunryu Suzuki, in un commento al Genjokoan di  Dōgen  ²  tratta  esattamente  di  questo,  mettendo energicamente  sull’avviso  quanti  insistono  nel  voler capire concettualmente la propria pratica. ³
Quando    troviamo    il    nostro    posto    nell’adesso    del momento,   allora   la   pratica 
 fluisce   e   questa   è   la realizzazione della verità.

Trovare  il  proprio  posto,  e  trovarlo  in  questo  preciso momento, è quanto abbiamo chiamato pratica del tenzo. In  questo  tempo  che  c’è,  adesso.  Questo,  solo  questo, esprime la realizzazione della verità, dice Shunryu; vale a dire che a questo, a solo questo, non manca niente.

Porsi,   invece,   come   purtroppo   vedo   spesso,   in   un atteggiamento   valutativo   dei   diversi   aspetti   della pratica  ⁴  è  un  pericoloso  fraintendimento  del  nostro modo di rendere viva la grande Via.

Così nella nostra pratica quando realizziamo una verità, incarniamo  quella  verità;  e  se  incontriamo  un'attività, completiamo quell'attività. Qui è il luogo, e qui conduce la  Via.  Quando  c'è  il  luogo  c'è  la  Via.  Questa  è  completa pratica  senza  chiamarla  buona  o  cattiva  pratica.  Quando incontrate un'attività, fatela con il massimo impegno. Questa è la Via.

Quindi,   Dōgen   dice:   "La   comprensione   non   è   sempre possibile,  perché  è  simultanea  al  completo  raggiungimento dell'insegnamento del Buddha". La realizzazione completa è simultanea 
 quando   si   pratica,   quindi   non   è   possibile comprendere  che  cos’è.  Se avvenissero  una  per  una  in momenti     diversi,     avresti     la     possibilità     di     vedere l'insegnamento   del   Buddha   e   le   sue   pratiche   effettive. Quando  vengono  simultaneamente  mentre  stai  praticando, c'è   già   realizzazione.   Quindi   non   c'è   modo   per   noi   di conoscere l'altro lato, che è realizzazione.

Simultaneo? Capite? Rileggete. Respirate…

Esaurire   ed   attraversare   questa   precisa-pratica-di- adesso, qualunque essa sia, senza discriminare tra cose che si pensa valgano e cose che si pensa siano triviali - zazen  e  cipolla...  -,  manifesta  in  un  lampo  il  completo raggiungimento  dell’insegnamento  di  Buddha,  ed  ecco perché    non    può    che    sfuggire    all’indagine    della coscienza. Ancora oggi, a qualcuno che mi chiedesse di spiegare perché siedo, non saprei che dire.

Quando sei occupato a fare qualcosa, non è possibile vedere ciò  che  hai  fatto.  Se  vuoi  vederlo,  devi  smettere  di  farlo. Allora saprai cosa hai fatto. Anche se non è possibile vedere ciò    che    hai    fatto,    quando    hai    finito    qualcosa    c'è realizzazione.

È  certo  possibile,  sta  dicendo  Shunryu,  sfilarsi  dalla santa   intimità   della   
pratica-di-adesso;   mentalmente allontanarsi  da  quel  meraviglioso  precetto  che  canta così: Quando c’è il posto, c’è il modo;  ma quel che ne verrà  sarà  un  soggetto  che  guarda  un  oggetto,  non riconoscendosi  più.  E  non  potrà  più  esserci  alcuna pratica. Non si potrà cioè più dire: Questa è una pratica completa…

Gyōji (pratica infinita); Gyōbutsu (buddha attivo); Gūjin (totale  esercizio);      Zenki      
(dinamismo      totale. Funzionamento    integrale).    Eccola    la    simultaneità. Eccolo  il  meraviglioso  segreto  dello  Zen  di  Dōgen.  Da cui, a cascata, l’intero suo insegnamento ⁵.

Quindi, né soggetto né oggetto. Non c'è soggetto che pratica e non c'è oggetto che viene praticato. Non sono esistiti sin dall'inizio.  Quando  la  pratichi,  la  realtà  appare.  La  realtà non  esisteva  prima  che  tu  la  praticassi.  Non  sono  esistiti fin  dall'inizio,  e  non  sono  nel  processo  di  realizzazione. Ogni  momento  è  realizzazione  e  non  è  nel  processo  di realizzazione.  Capisci?  Non  è  processo,  sai.  Allo  stesso tempo,  è  nel  processo  di  trasformarsi  in  qualche  altra pratica. Ma sebbene la tua pratica sia continua, allo stesso tempo è discontinua. Oggi hai fatto qualcosa, e ciò che hai fatto  continuerà  domani.  Ma  anche  se  non  sappiamo  nulla del domani, il domani è incluso nel presente. Il tuo lavoro ha il  suo  proprio  domani  e  passato.  Domani  ciò  che  hai  fatto avrà il suo proprio passato e futuro. Ciò che hai fatto oggi apparterrà   al   passato   domani.   Quindi   non   è   lo   stesso. Capisci? Non è affatto lo stesso. Domani è indipendente, e oggi è indipendente.
Domani   è   compreso   nel   presente.
..   E   s’avvicina   il vortice, il vorticare vivente del
così-com’è... Vivi, morti; alto,  basso;  pietre,  stelle.  Tutto  è  manifestantesi  in quanto
tutto; e in questa nostra vita, adesso, ecco, in un solo  gesto  -  un  tenero  semplice  abbraccio -  teniamo stretti  la  nostra  nascita  e  la  nostra  morte.  Tutto  già avvenuto. Tutto ancora da venire. Fluente… Questa è la gioia. Per questo siamo belli!

Eccola  la  nostra  pratica.  Ecco  perché  Shunryu  intitola così questo suo prezioso commento:   Il Buddhismo non è un insegnamento speciale. L’illuminazione non è uno stadio particolare.

Non c’è soggetto che pratica o oggetto con cui praticare… Quando  praticate  così  la  realtà  appare.  La  realtà  non  è evidente   prima   di   averla   praticata…   Ogni   momento   è realizzazione, non un processo di realizzazione. Capite? Non è un processo… Capite?   La vostra pratica non è in fase di realizzazione, è meglio arrendersi… non c’è speranza…

La  realtà  non  è  evidente  prima  di  averla  praticata… Non  c’è  alcunché  oltre  a  questo  non  duale  incontro- realizzazione, che è totale respiro di vita che vive; non un  processo,  insiste  Shunryu;  non  un  processo  poiché altrimenti  (ri)saremmo  nel  tempo,  ci  sarebbe  ancora bisogno di tempo. E saremmo di nuovo divisi. Separati dal fluire di tutto con tutto.

No,  non  c’è  veramente  alcuna  speranza  di  agguantare concettualmente  la  nostra  pratica.  Che  non  è  nostra, naturalmente, se è là dove deve essere... L’Aperto!

Finisco  con  un  invito  che  mi  sta  molto  a  cuore.  Non disertate l’incontro. Non disertate l’incontro e siate a lui fedeli.

Se non vi lasciate andare alle fantasie che vi piacciono così tanto, quel che incontrerete è sempre Buddha!

Vicenza 5 Febbraio 2025

Salvatore Shōgaku Sottile

1)  A volte, si piange in entrambi i casi.
2)      Wind   Bell,   n°   1,   2006,   pag.   41.   Il   Buddhismo   non   è   un insegnamento   
speciale.   L’illuminazione   non   è   un   momento particolare.
 Commento  del  23  Agosto  1967, quattro  anni  prima della  morte.  Colgo  l’occasione  per  ringraziare  chi  di  voi  ha lavorato alla traduzione.
3)   Noi  non  crediamo  che  ciò  che  realizziamo  sia  comprensibile concettualmente…  O anche:   Le   persone   cercano   sempre   di scoprire un modo particolare per loro stesse. Questo non è il vero studio della Via. Questo tipo di idea è assolutamente sbagliata…
4)   Invece  di  manifestare  quella  serena  attitudine  che  accoglie indifferentemente quanto ci viene incontro.
5) Di nuovo: Gyōji (pratica infinita); Gyōbutsu (buddha attivo); Gūjin (totale  esercizio);      Zenki      (dinamismo      totale. Funzionamento    integrale).   Snodi, tutti, che richiamano il tema qui trattato.

 




Il sangha volante

Ho sognato. O forse no, ho visto. Che sia l’uno o che sia l’altro,  piuttosto che immobili sul cuscino nero eravamo in  volo,  un  volo  sghembo,  in  diagonale,  alla  Chagall, maniche del kolomo felici a far da ali. Non so dire che sia stato. Pure, il sangha volava.

Succede,   in   zazen.   Succede   che,   da   sé,   si   aprano cataratte  da  cui  sgorga  acqua  limpida,  inconosciuta. Non serve investigare. Non è importante. Può darsi che sia  solo  questo:  lasciare  entrare,  lasciare  uscire.  Può darsi che sia solo la libertà del nostro sedere.

Eppure,  un  sangha  che  -  barbari  gentili  -  vola,  a  me mette allegria. Dopo il primissimo sconcerto, difatti, ho riso  come  un  bambino,  come  se  -  divenuto  chioccia  - avessi fatto l’uovo.

Ecco. Ho fatto l’uovo. L’uovo di una pratica condivisa e serena,   forte   poiché   leggera   che,  quando   gli   gira, scivola via e prende il volo.

Voi che ne pensate?

Vicenza 26 Gennaio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile


Il fuoco

Ad  una  di  voi  che,  recentemente,  chiedeva  intorno  a quel   fuoco   brillante   che   nella nostra   pratica   è   la relazione maestro/discepolo, ho risposto così (indicando l’essere    discepolo):    non    deve    essere    uguale    (al maestro);  non  può  essere  diverso  (dal  maestro);  si devono riconoscere le sue viscere.

L’indicazione del non deve, riguarda la necessità di non cercare la fusione, benché sia in atto una relazione che può  serenamente  definirsi  d’amore  ¹;  l’indicazione  del non può, riguarda le profondità (anche psichiche) della relazione.  In  qualunque  modo  la  si  viva  e  in  qualsiasi maniera la si risolva, la relazione - se relazione c’è o c’è stata - è intoccabile agli stessi soggetti che l’hanno resa vivente e, anche se interrotta, travalica nei sogni. Come accade a me. L’ultima indicazione, l’esporre se stessi, è quel  che  viene,  l’oro  di  quanto  è  appena  nato  dal crogiuolo della trasmutazione relazionale. E, qui, sia il maestro  che  il  discepolo  non  saranno  mai  più  come erano prima della relazione.

Il tema scotta. Brucia sottopelle come braci, soprattutto perché da tempo disabituati alle relazioni naturali. Non avrei   detto   diversamente   da   così   se   avessi   voluto parlare del nesso padre/figlio. Educare tossicamente un figlio, difatti, equivale a dirgli che deve essere com’è il padre;  da  cui  necessariamente  quel  che  verrà  sarà l’annichilimento     del     figlio     o     la     sua     rivolta- disconoscimento.   In   natura   è   così   che   accade: il falchetto alle prime prove di volo che vedo volteggiare dal  boschetto  davanti  casa,  non  sarà  mai  uguale  al genitore   che   l’accompagna;   non   potrà   mai   essere diverso  (geneticamente  e  fattualmente)  e,  una  volta svezzatosi, mostrerà egregiamente le proprie viscere. E quelle altrui...

Così è per noi che camminiamo insieme per la grande Via.  Questa  è  la  ragione  per  la  quale,  colui che  nella relazione  occupa  il  posto  della  guida,  se  veramente guida  è,  se  cioè  non  ha  alcuna  intenzione  di  produrre tossicità,   non   vedrà   l’ora   di   sfilarsi   e   scomparire, lasciando  il  discepolo-falchetto  alle  sue  giravolte.  Che, di  nuovo:  non  deve  essere uguale;  non  può  essere diverso;  si  devono  riconoscere  le  sue  viscere.  Tutto questo, alla fine, è quanto si dice così: trasmissione!

Anche   nel   tradizionale,   provvisorio   ²,   insegnamento della  zattera  e  dell’altra 
sponda,  usate  la  zattera  per quanto  serve.  Per  il  tempo  strettamente  necessario. Datevi   da   fare,   diamine.   Attraversare   è,   alla   fine, l’attitudine   esatta   che   vi   indico. E   attraversare   la relazione è - meraviglia delle meraviglie - renderla del tutto inutile in quanto dualità. Così facendo, ad un certo punto,   felicemente   maestro   e   discepolo   avranno  la stessa faccia. Quella di Buddha.

Allora, giunti qui, ditemi: a questo punto, giunti qui, che ne è dell’amore fra i due? Chi ama chi? Ecco l’Aperto: amore ama amore; dharma ama dharma; e la vita… Oh, la vita non ama altro che la vita ³.

Non  sempre  ho  visto  che  questo  è  quello  che  accade. Non  sempre  la  visione  di  quel  che  si  è,  nel  momento preciso  che  è,  è  risultata  limpida.  Da  cui  tristissime storie immancabilmente fattesi patetiche. Maestri che si aggrappano   infantilmente   ai   discepoli   e   eternamente innamorati del maestro.

È, perciò, necessaria la massima vigilanza dei due che formano la relazione. Che dovrà sempre essere fluida e soffice.  Profumata.  A  volte  felicemente  difficile,  ma liberata.  Solo  così  potrà  manifestarsi  enthusiasmós  e gioia.  È  questa  vita-pratica  comune.  È  questa  pratica- vita condivisa. Ve ne prego, non dimenticate!

Vicenza 12 Gennaio 2025

Salvatore Shōgaku Sottile


1 La  pratique  de la meditaion est une histoire  d'amour.  LamaDenis Teundroup
² Dico così poiché, come sappiamo, non c’è veramente alcuna altra sponda da raggiungere.
³ È la saggezza che va in cerca della saggezza. Shunryu Suzuki Roshi.


Fenomenologia
di   una cosa da niente

Sediamo.  La  nostra  pratica  è  sedere.  Sediamo  nella maniera trasmessa dal nostro Patriarca Dōgen Zenji.  In Fukanzazengi  (primo  testo  scritto  nel  1227  al  ritorno dalla Cina dopo aver incontrato il suo maestro e risolta la  grande  questione  della  vita  e  della  morte)  è  detto così:

Di  solito  si  mette  un  cuscino  quadrato,  largo  e  spesso,  sul pavimento e, sopra questo, un altro cuscino alto e rotondo su cui ci si siede. La posizione è con le gambe incrociate… Posa il dorso della mano destra sul piede sinistro e il dorso della  mano  sinistra  nel  palmo  della  mano  destra.  Le  punte dei pollici devono toccarsi leggermente. Siedi eretto, senza inclinare né a destra né a sinistra, né avanti né indietro. Le orecchie  devono  essere  in  linea  con  le 
spalle,  il  naso  deve essere  in  linea  con  l’ombelico.  La  lingua  riposa  contro  il palato.
 Le  mascelle  e  le  labbra  sono  chiuse  senza  sforzo. Tieni  sempre  gli  occhi  aperti. 
Respira  tranquillamente… Quindi siedi immobile...


Dopo  trentacinque  anni  trovo  ancora  affascinante  ed estremamente    intrigante    questa    fenomenologia:    il cuscino  quadrato  (zafuton);  il  cuscino  tondo  (zafu);  un
corpo-mente-cuore   nella   corretta   postura;   un   muro bianco.

Lo  zafuton  parla  alla  e  della  grande  madre  terra  che ogni  cosa  sostiene;  lo  zafu 
indica  il  nostro  gusto  e  la nostra  postura  di  vita,  la  montagna;  il  corpo-mente- cuore, l’innocente fede in ciò che senza saperlo siamo, buddha; e il muro… Il muro è un koan che ho il sospetto abbia a che vedere con uno specchio.

Sedersi così, sedersi come sediamo solo noi, ginocchia sprofondate nella terra; schiena dritta, meglio, arcuata; mento rientrato e nuca che spinge in alto a sostenere il cielo; torace che sfugge, come fosse una guglia sfugge in alto; occhi socchiusi delicatamente posati sul muro… Sedersi  così  dinnanzi  ad  uno  specchio  non  è  cosa  che possa   passare   senza   conseguenze. L' Alice   di   Lewis Carroll ne sa qualcosa. 

Ma cos’è questo specchio?

Questo    specchio    è    proprio    la    cosa    da    niente, semplicemente  quel  che  mostra  quello-che-c’è,  così- com’è; questo specchio insegna a vederci, per la prima volta  a  vederci per  quello  che  in  verità  siamo  sempre stati:    anatta,    non-sé;    anicca,    foglie    al  vento, impermanenti.

Giunti   qui,   e   se   veramente   giungiamo   dove   siamo dall’eternità,  qui,  qui  è  forse 
possibile  che  esploda  la gioia   di   vedersi   specchio   noi   stessi,   specchio     del
mondo; nuvole veloci che passano, fiore che cade preso nel vento. E ridiamo...

A questo serve una cosa da niente. Questo è zazen.

Zazen     non     consiste     nell’apprendere     a     meditare. Semplicemente  è  la  porta 
della  pace  e  della  gioia,  è  la pratica  avverata  che  arriva  alla  pienezza  del 
risveglio.  Il presente  si  fa  presente  con  evidente  profondità,  qui  non arriva la ragnatela dei condizionamenti e delle illusioni. Se qui   trovi   dimora,   è   come   il   drago   che   trova   l’acqua, assomiglia alla tigre che si inoltra nella montagna...

Alice: Per quanto tempo è per sempre?
Bianconiglio: A volte, solo un secondo.

Vicenza 6 Gennaio 2025
Salvatore Shōgaku Sottile

Il dharma è un vento

Concludo   quest’anno,   prossimo   al   trentacinquesimo dalla fondazione del nostro centro di pratica, volgendo uno sguardo all’indietro; facendo così, ecco, nell’istante si   condensa   un   bagliore,   ecco   Afrodite   che   ride, magnifica  ride  mentre  dona  agli  uomini  l’albero  del melograno.

Da qui in avanti, in un vortice, tutto si avvita finché Ade ancora,   di   nuovo,   un’altra   
volta   non   rapisce   la giovinetta Persefone, figlia di Demetra.  È il finimondo, come  sapete,  con  Demetra  disperata  che  vaga  per  la terra non permettendo più ad alcunché di maturare e di crescere.  Stallo.  Caos.  Interviene  Zeus.  Compromesso: Ade offre a Persefone un melograno, lei ne mangia sei chicchi  e  da  quel  momento  sarà  costretta  a  ritornare ogni  anno  negli  inferi  e  a  restarci  per  un  numero  di mesi pari ai semi ingeriti. Amen.

Perché   mai   sia   comparsa   Persefone,   il   melograno, Afrodite, è forse in ragione
dell’attimo in cui - chiusi gli occhi  di  palpebre,  riaperti  quelli  d’ognidove  -  mi  sono
lasciato  volgere  lo  sguardo  all’indietro…  E  allora  ho rivisto, rivedo ora le centinaia di
praticanti che in tutti questi anni hanno mantenuto acceso il fuoco, dando vita e  frutti  al  nostro  luogo  di  pratica.  Uno  per  uno,  nome per  nome,  hanno  anche  loro  mangiato  del  frutto  del melograno.  Senza  alcuna  condanna  a  ritornare  poiché gli  dèi  son  fuggiti...¹   Eppure...  Eppure  che  quegli uomini  e  donne  non  siano  ancora  qui,  in  silenzio,  in altro modo a sedere con noi, non ne sarei così sicuro.

Dissolvenza...

Potrebbe essere già successo. Potreste già aver intuito come  vanno  letti  questi  discorsi.  Il  che  implicherebbe che  camminate  saldi  nella  grande  Via.  In  ogni  caso, ecco il mio segreto. Poiché a scrivere questi discorsi è un corpo, prima che un  intelletto,  risulta  necessario  corrispondere.  Perciò: lettura ad alta voce alla ricerca del ritmo, in primissima battuta indifferenti ai contenuti concettuali. La scrittura per  sua  natura  produce  onde,  dapprima,  poi    danza. Ecco, se arrivate lì, se siete qui, vi prego di prendere ad abitare  questa  danza;  quel  che  ne  verrà  -  oltre  ad  un corpo che si avvia all’enthusiasmós ²  - sarà anche una limpidezza dei concetti.

È  una  maniera  insolita  ma  vi  assicuro  assai  virale  di accostarsi al dharma. Ed è quanto faccio, per esempio, quando  nello  zendo  vi  invito  a  cantare  i  sutra  con  il corpo.  Voce.  Che  è  poi  la  ragione  per  la  quale  non  li rendiamo in una lingua concettualmente comprensibile.

Si  tratta  di  una  attitudine  per  noi  decisiva.  Dapprima vibriamo,  senza  distinguere  tra  corpo-mente-cuore;  di modo che trapassi in noi, nella forma dell’incarnazione, il  silenzio  e  il non-pensiero.  Poi…  Poi  si  opera  come  il kairós  dell’adesso  invita.  Vita.  Zazen,  d’altro canto,  la nostra pratica seduta, non è molto diversa. La postura, per  esempio,  altro  non  è  che  un’antenna,  un’antenna che  senza  scegliere  capta  ognimondo,  lascia  entrare  e lascia  uscire  tutto  quello  che  c’è  -  vita,  morte,  sogni, disperazione,  gioia  -,   corrispondendo,  pur  lasciandoci immobili e a mani vuote.

Ogni  altro  approccio  non  funziona.  Vi  accanireste  su una  strada  stretta  e  colma  di  rovi.  Comincereste  a credere che io abbia qualcosa da insegnare che sia altro da come si sta nel vento, da come s’asseconda il robusto ritmo degli intestini, il canto, il corpo soffice che danza alla luna.

Così nascono questi discorsi. Un corpo sente il vento e l’accompagna, fino a che si ritrova a piedi nudi sull’erba bagnata   dove,   a   somiglianza   delle   foglie   prese   a mulinello,  vortica.  E  vortica  nella  precisa  figura  del cerchio; meglio, della spirale.

Se vi dicessi che ogniqualvolta inizio un testo non ho la minima idea di cosa voglio dire,
lasciando che il corpo, nella  scrittura  e  nella  lingua,  scavi  in  se  stesso  un tunnel di
senso… Se vi dicessi così mi credereste?

D’altra  parte,  trattandosi  qui  di  scrittura,  perciò  di lingua, non può non risaltare come anche comunemente è nominata la lingua: madre, lingua-madre; mandando a quel  paese  e  perciò  dimenticando  il  padre;  padre  che, da parte sua, ama da morire i concetti, e li vuole chiari e  distinti,  stalattiti  di  senso,  rigidi  come  nel  rigor mortis.

Ecco  la  ragione  di  Zendoccidente!  Ecco  lo  Zen  che pratichiamo  noi:   morbido  come  la  vita,  dolce  come  il fiore che flette, amando il vento.

E, di nuovo, enthusiasmós! E, ancora, L’Aperto!

Vicenza 31 Dicembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile


1    Nella  poesia  Brot  und  Wein  (Pane  e  vino)  del  1801  Friedrich lin  scrive:  “Più  non  son  gli  dèi  fuggiti  e  ancor  non  sono  i venienti”.
2   Naturalmente  non  sto  parlando  dell’asfittico,  triste,  entusiasmo del me; enthusiasmós è l’esserci di un dio dentro (l’essenza) di sé. Ἐνθουσιασμός: ἐν, en ("in") con theós (θεός, dio) e ousía (οὐσία, essenza).


 

Il dharma del pulcino

La  vita  è  espiro-inspiro;  la  vita  è  un  battito;  la  vita, infine, è un uovo.

E  anche  se  state  per  sentire  di  uova  e  di  pulcini,  in verità non si sta facendo altro
dal narrare un’altra volta, ancora una volta, la storia eterna, la storia dell’umano: perduto  nell’illusione  del  me  finché  -  se  gli  va  bene  - non inciampa nella pietra della grande Via.

Non  si  tratta,  naturalmente,  di  tematizzare  la  trinità. Uovo, pulcino e chioccia sono gli attori di un atto unico - unico,  è  proprio  il  caso  di  dirlo  -,  riflessi  di  quello
specchio  cosmico  che  è  il  cielo,  il  vivente  su  questo pianeta, riflessi che, con
Nishitani, abbiamo imparato a chiamare così:  samsara-eppure-nirvana!

Incontrare  nella  nostra  vita  la  grande  Via.  Lo  ripeto, affinché si  intenda bene: 
incontrare nella nostra vita la grande Via. Non è banale né scontato. E non c’è merito, in  questo. Non  c’è  mai  merito  ¹.  È  che  si  tratta  di  una faccenda così intricata (del perché qualcuno s’innamori del   dharma)   che   volentieri   la   evito.   Comincerei   a misticheggiare, come   qualcuna   di   voi   graziosamente ogni tanto mi dice.

Eppure,  capita  d’inciampare.  Capita  di  trovarsi  seduti immobili   davanti   ad   un   muro   e   di   dar   vita   ad   una comunità   di   quasi   folli.   Ridiamo   per   un   nonnulla;
mangiamo   cioccolatini;   ci   alziamo   all’alba;   viviamo liberamente in un mondo dove il centro è dappertutto e i   confini   da   nessuna   parte;   non   cerchiamo   e   non vogliamo niente tranquillamente a cavalcioni su ciò che non  sta  mai  fermo,  flusso,  vita,  ancora  respiro.  Ecco. Tutto   questo,   a   volte,   lo   chiamiamo   Buddha!   Ma   si potrebbe anche chiamarlo vertigine!

Eppure… Eppure l’intrico ritorna. E ritorna esattamente nel punto in cui, pulcini dentro l’uovo - seduti immobili mentre  le  ginocchia  prendono  fuoco  -,  senza  saperlo cominciamo    a    becchettare  dall’interno    il    guscio dell’uovo.   C’è   qualcuno   dall’altra   parte?   Meglio:   c’è l’altra   parte?   Succede,   difatti,   succede   sempre   che proprio quando cominciamo a becchettare, come un’eco risuona  qualcosa,  un  altro  becchettare  in  sincrono  col nostro. Toc! Toc toc!

Senza il pulcino che chiede, dalla sua culla serrata, che chiede   inconsciamente   battendo,   che chiede   senza saperlo, non ci sarebbe alcunché, non si darebbe alcun battito;  quel  che  conta  è  l’uno/due,  una  mano  si  tende ed un viso viene ora accarezzato ².

Di  volta  in  volta  uovo,  chioccia,  pulcino,  scivoliamo  via senza  mai  ristagnare.  Non 
abbiamo  paura  dei  riflessi nello  specchio  poiché  sappiamo  -  intimamente,  nella modalità del non-sapere - che è solo una fantasmagoria. Il  gioco  degli  dèi.  Così,  di  volta  in  volta, siamo  viso accarezzato  e  mano  che  accarezza.  Ecco  la  bellezza: essere dappertutto senza stare da nessuna parte.

L’agire  del  pulcino  -  l’arte  della  vita  -  è  nient’altro  che questo.   Non chiedere, non
desiderare, non progettare; solo    becchettare    il    guscio    nel    kairós    dell’adesso
realizzato
³. Questo è  sedere! Questa è vastità! Questa, infine,  è  fede.  A  ben  vedere,  la  nostra  è  la  pratica  del pulcino: giocare gioiosamente in questo samādhi ⁴.

Vicenza 22 Dicembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile

 

¹  Penso sappiate perché. Se mai ci fosse se   qualunque   cosa,  per   esempio   merito, necessariamente ci sarebbe anche il me. E saremmo punto e a capo. 

²  Qualcun’altra,  oltre  a  noi  che  fin  dall’inizio  di  questa  avventura  non  a  caso  ci 
siamo chiamati Zendoccidente, si è fatta la nostra stessa domanda: In che modo può il Buddhismo mettere radici nell’Occidente e influenzarne cultura, politica e spiritualità?… Il Dharma è per  Dōgen  un  “incontro”…    (Manu  Bazzano,  La  luna  di  questa  notte,  rinvenibile  in Dharma,
Novembre 2012, pp. 38-45). E, si badi, se d’incontro si tratta, è sempre personale, un corpo a corpo, occhi negli occhi.
³  Jijuyū  zammai,  Samādhi  dell’attività  autorealizzativa.  (Dōgen).  Laddove,  come  si  può leggere a pagina 47 del nostro La spina di Dōgen, la dualità è trattata in una meravigliosa forma paradossale: … il  samādhi dell’attività autorealizzativa indicava il  samādhi che allo stesso tempo nega e include il sé e l’altro… Il punto cruciale… è che in Dōgen gli opposti o le dualità non erano rimosse o… offuscate; esse erano realizzate, più che trascese...
⁴  Jijuyū zammai. Che, come dice la Bazzano nell’articolo citato, comporta necessariamente il rifiuto di una visione strumentale della meditazione, sia pure di una strumentalità nobile evirtuosa quale l’accumulazione di meriti o il miglioramento del carattere. Amen!



Poiché non ho niente da fare...

Proprio  perché  non  ho  niente  da  fare  vi  propongo queste  righe  tratte  dal  libro  che  ho appena  finito  di leggere. ¹  Ho sentito, forte, aria di famiglia.

… Soprattutto, è stata proprio una sua caratteristica il suo  essere  “sbagliato”,  il  suo  essere fuori  dall’ordine precostituito, il suo insegnare che nel muro c’è la porta
–  anche  se  al  momento  non  la  vedi  –  e  la  porta  va cercata nel muro. Quindi: la sua
volontà di discontinuità e la sua illuminante, e direi, pertinente, inesattezza…

Era  allora  che  cadeva…  il  discorso  sintatticamente impeccabile e veniva fuori tutta questa pluralità infinita di discorsi… spiegava, cioè, che senza una certa forma di  follia  non  si  poteva  riuscire  a  trovare  l’adito  nel muro...

Ecco, anche questo mi viene da Bernhard: aver capito che  la  strada  giusta  è  fatta  da  un’infinità  di  strade sbagliate...

Bernhard  scrive:  “Il  sintomo  nevrotico  ha  ragione”;  la malattia non vuole essere “guarita” ma decifrata…

Bernhard    scrive    che    il    paziente    deve    venire “contagiato”    dalla    sanità   
del    terapeuta;    squisita ambivalenza, che chiude tutto il senso tragico di quella lenta
operazione maieutica: altrove leggiamo che da un labirinto si esce solo per trapassare ad altro labirinto...²


Vicenza 15 Dicembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile

¹ Giorgio Manganelli, Il vescovo e il ciarlatano. Inconscio e letteratura: l’incontro con Ernst Bernhard, Sellerio 2024.
²     Giorgio Manganelli, op. cit. pag. 20-22-23-27-41-42



Vita nova

«In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice Incipit Vita Nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d'asemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sentenzia.»
Dante Alighieri.

Senza azzardi, con saggezza, dare libertà ai fantasmi o, come    dico    spesso,    ai    demoni,   fa    bene.    Parlo, naturalmente,    dei    propri    fantasmi-demoni,    quanto qualcuno chiamerebbe i reclusi nel subconscio.

Facciamo  così.  Proviamoci.  E  così  giunge  il  momento, nel  cammino  della  grande  Via,  di  togliersi  dai  piedi quest’inciampo.  Anche  perché,  altrimenti,  ci  toccherà portarci appresso per l’eternità una zavorra.

È  una  questione  delicata.  È  una  questione  da  non prendere  sottogamba.  È  una  questione,  infine,  da  cui continuamente  sgorga  sofferenza.  Tanto  che  anche  la pratica ne risente.

Giorno  dopo  giorno,  anno  dopo  anno,  la  pratica  della Via ci spiuma, come diceva Nicolas Bouvier; e facendo così  porta  in  evidenza  i  grumi  e  le  ferite.  I  nostri fantasmi, appunto.

Sono ancora lì e ancora dolgono; e sarà così per sempre se non saremo in grado di convertirli, come dico spesso; di sciogliere cioè la loro energia trasmutandoli. Come si faccia    tutto    ciò    non    è    semplice    ma    nemmeno impossibile.

Man mano che la pratica innerva la nostra vita, siamo in grado  di  scorgerli  e  lasciarli 
avvicinare;  si  avvicinano sempre  più    e,  piano  piano,  siamo  anche  in  grado  di trattarli con una certa dimestichezza. La questione che bisogna  conoscere  è  questa:  anche  loro  aspirano alla libertà. Vale a dire ad uscire dalla cella dove li abbiamo tenuti per una vita intera. Alla fine i  fantasmi amerebbero essere vivi.

Attenzione:      non      sto      proponendo      un’indagine psicologica; non ha alcuna
importanza capire i demoni; è, invece, dirimente non separarsi da quel dolore e, in un  abbraccio,  portarselo  in  zazen.  Così  com’è.  Non  è colpa  di  nessuno  e  non  sappiamo  nemmeno  il  loro nome.  Proprio  così  possiamo  accoglierli.  Proprio  per questo possiamo liberarli.

È probabile che nel processo appena descritto arrivino lacrime,   paura,   rivendicazioni…   Non   importa   cosa arrivi: va tutto accolto nel cerchio infinito della vastità dell’Aperto,  del  silenzio  e  della  mente  immobile;  va tutto accolto, accarezzato, cullato. È il nostro bambino (anche  se  non  abbiamo  mai  avuto  figli),  che  attende tenerezze, comprensione, ascolto.

Volgersi  dall’altra  parte  non  serve.  È  quanto  abbiamo fatto fin’ora. Ma così si rimane
deboli, zoppi, incapaci di esprimere  liberamente,  potentemente,  il  come  alberi stiamo in piedi da soli e come alberi godiamo di essere foresta, come leggiamo sulla home del nostro sito.

Qui,  se  non  tentenniamo,  può  accadere  il  miracolo.  Il miracolo di una vita ricomposta, di ogni cosa perdonata, di una luce nuova che non conoscevamo.

Dico  miracolo;  ma  non  è  che  postura  e  cuore  saldo. Postura  di  una  vita  delicatamente  centrata  sul  proprio cuore   risvegliato,   indifferente   alla   schiuma   perché flessuosamente intima  con  le  onde.  E  torna  Afrodite. Torna sempre. Afrodite che ride.

Potrebbe sembrare una faccenda squisitamente privata. Ed in parte lo è. Pure, prima o poi è necessario venirne a capo. Non potrà mai esserci vita nova, senza.

Vicenza 27 Novembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile

Il suono della vacuità

Il bodhisattva Avalokiteśvara
mentre praticava profondamente la prajñāpāramitā,
percepì che tutti i cinque skandha sono vuoti
e fu salvato da ogni sofferenza e angoscia ¹.


Ne  ho  parlato  martedì  scorso.  È,  come  sapete,  l’avvio del   Sutra   del   Cuore,   il   
nostro   amato   sutra.   Che potrebbe  anche  finire  qui  senza  che  nulla  manchi.  È
stato tutto egualmente detto.

1.   È   stato   detto   che   a   partire   dalla   pratica   della prajñāpāramitā  ²  (noi 
diremmo  shikantaza,  zazen),  si percepisce. Si vede.

2.  È  stato  detto  che  quel  che  si  vede  è  Sunyata,  la vacuità di ogni cosa.

3.  È  stato  detto  che  semplicemente  questo  vedere  è salvezza da ogni sofferenza.

Andando avanti, senza fine...

1.1. Di che percezione o visione si tratta?

2.2. La vacuità si può vedere/percepire?

3.3.  Perché  questa  percezione  o  visione  salva  dalla sofferenza?

Ma  ci  fermiamo  in  questo  che  non  può  essere  che  un gioco.  A  furia  di  spiegare  si  rischia  di  credere  nella spiegazione,  quando  il  punto,  lo  snodo,  il  passaggio  è altrove.

L’intero  processo  dei  passaggi  prima  elencati,  nella nostra   viva   pratica   si   risolvono nell’incarnare   ed attualizzare  gli  insegnamenti  di  Dōgen  Zenji;  in  primo luogo: lasciar-cadere-corpo-e-mente. Giacché, in questo cadere,  ognuna  delle  stazioni  indicate  si  manifesta. Senza che nessuno-lo-sappia.

Il  vedere,  perciò,  è  il  vedere  che  vede  se  stesso;  e questo  vedere  vede  quello  che  c’è:  sunyata,  la  santa vacuità. Vacuità che (nel richiamare anattā, il non sé di Śakyamuni)  è  esattamente  il  balsamo  che  salva.  È  ciò che salva, giunti qui, perché la culla dove di solito ronfa sofferenza  -  il  me  -,  è  vuota,  dissolta,  dimenticata. Eccoci nell’Aperto! Liberi, leggeri, soffici. E ci viene da ridere.

Non  indugiate.  Non  ristagnate.  Non  baloccatevi  con seducenti     spiegazioni.     La     
spiegazione     è     solo spiegazione. Il pensiero è solo pensiero.

Dite    che    lo    sapete?    Ma    lo    sapete    in    quanto spiegazione/pensiero  o  lo 
sapete  -  non  sapendolo  -  col corpo?   Sì,   perché   mentre   siete   lì   che   indugiate,
ristagnate,  pensate,  la  vita  vi  sorprende  alle  spalle.  È Mujo,   la   santa   impermanenza.  Perciò,   nuovamente, monito  sempre  buono  per  tutte  le  stagioni:  puntate  al cuore,  afferrate  l’essenziale.  Nessuno  sa  per  quanto ancora potremmo praticare.

Fate   attenzione:   non   c’è   alcunché   da   vedere   né qualcuno che vede; così come nessuna sofferenza da cui salvarsi.

Sedete  (vivete,  andate  al  ristorante,  giocate...),  nella postura corretta di corpo-mente, e tutto questo si farà avanti per forza sua ³.

Vicenza 17 Novembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile 




¹ Shōhaku Okumura Roschi, Il canto dello Zen, Ubaldini 2012, pag. 142
² Prajñāpāramitāsūtra ovvero Sutra della perfezione della saggezza o Sutra della conoscenza trascendente è il nome dato ad un insieme di trentotto sutra buddhisti, i più antichi dei qualio al VII secolo d.C., che sono, unitamente ndamento del Buddhismo Mahāyāna. (Wikipedia)
³ Occorre conoscere con correttezza che la realtà autentica si manifesta e si fa avanti per forza   sua   e   che distrugge innanzitutto l'intontimento  e  la  dissipazione…   Dōgen, Fukanzazengi.


Cos’è questo?

Nel teisho Lettera ad un’amica del 5 Novembre u.s. ho parlato del prima. Riprendo la riflessione.

Shunryu  Suzuki,  da  qualche  parte  la  dice  così:  Noi  cadiamo continuamente,  ma  lo  sfondo, l’orizzonte,  non  cade  mai.  Eno,  il Sesto   Patriarca,   all’agitazione   di   chi   chiedeva,
  con   mente racchiusa  nel  continuamente  cadere  (La  questione  della  vita  e della  morte  è
 troppo  urgente  per…)
,  rispondeva  (risponde  a  noi, adesso): Perché non vai nel paese della
non-nascita e non-morte?


Ecco. Chiedo: vi è chiaro che anche questo continuamente cadere è l’orizzonte che non cade mai? Vi è chiaro che senza il così com’è dello  sfondo  non  ci  sarebbe  nemmeno  il  cadere?  In  altro  modo: che senza la vacuità non esisterebbero nemmeno le forme? Ecco la fede.

La  sofferenza,  l’ignoranza,  è  cercare  di  rattoppare  il  cadere  per mezzo del cadere,
rimanendo nel recinto delle forme. Follia.

Ma  se  lanciate  allegramente  il  cadere  in  braccio  al  non-cadere, quel che ne risulterà sarà
samsara-eppure-nirvana! Ci sarà ancora il  cadere,  ma  non  disturberà  più.  Ecco  perché  i 
demoni  possono essere convertiti.

Ogniqualvolta   diciamo   sfondo,   orizzonte,   stiamo   nominando Natura di Buddha, così com’è, questo, risveglio... Ed ecco chiarito l’intendimento di Dōgen dello zazen come già realizzazione.

Vivere a partire dallo sfondo fa sì che qualunque accadimento si incontri nel mondo delle forme, nel samsara, viva di un’altra luce. Ecco perché non abbiamo paura.


Vicenza 10 Novembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile

Lettera ad un’amica


Cara amica, è tutta l’estate che ci parliamo. Ed ora l’estate è finita. Tutto  quanto  poteva  essere  detto,  lo  abbiamo  detto. Perciò ora, come succede all’acqua che filtra nella terra fino   a   che   non  incontra   la   sorgente,   ora   occorre cambiare passo.

Incomincia  dal  silenzio.  Incontra  il  tuo  silenzio.  Cosa che,  come  sai  (abbiamo  parlato  anche  di  questo)  non necessariamente   significa   non   parlare;   quanto,   non alimentare  più  la  confusione,  l’avidità  della  mente  che costantemente    vuole,    desidera,    brama;    afferrare, capire, costruire città immaginarie.

È  come  l’intendimento  di  pensare  in  Dōgen:  Hishiryō, pensare a partire dal non-pensiero. Dopodiché   siedi   (zazen),   nel   modo   che   ti   è   stato insegnato;  lasciati  tutto  alle  spalle  e  respira,  respira, negli  intestini  respira,  senza  volontà,  senza desiderio, senza nessun senso.

Ecco,  so  che  qui  recalcitri.  So  che  non  ti  viene  facile concepire un senza-senso; è
qualcosa che ti atterra, me lo hai detto molte volte… Eppure, respirare viene prima di ogni sensatezza; diamo un senso al mondo solo dopo; ecco, appunto, perciò respira…

Questo   silenzio   e   questa   quiete   sono   lo   sfondo, l’orizzonte   a   partire   dal   
quale   il   mondo,   come   lo conosciamo,  si  manifesta.  È  come  col  parlare;  non semplice star zitti, quanto parlare a partire dal silenzio di una mente quieta, vasta perché quieta, ed un cuore pacificato.

Così,  ogni  esistenza  sarà  libera  di  manifestarsi;  così, ognuno  vivrà  la  vita  che  le  è  propria.  Chi  sentirà musica, nel cuore, farà e sarà musica; e così di seguito.

Anche  di  questo  abbiamo  parlato.  E  anche  questo  ti  è sembrato un ostacolo. Ma io non ti ho mai proposto di vivere  due  vite;  peggio,  di  cancellarne  una  a  favore dell’altra. Piuttosto, nell’unità del vivere, manifestare la tua  indole  a  partire  da  quell’orizzonte,  dallo  sfondo  di una    vita    già    pacificata.    Pacificata    prima    degli innumerevoli eventi che ci è dato incontrare.

Se    è    così,    anche    lo    sforzo    ed    il    dolore    che, necessariamente, nel mondo
delle forme, incontreremo, acquisteranno dolcezza, vastità, esattezza, e saranno di aiuto e sostegno a noi ed al mondo.

Il fatto è che non c’è alcunché da realizzare: né il tuo progetto, né il mio. D’altronde, io non ho progetti; come quell’acqua    che    filtra    nella    terra,    semplicemente incontro  la  sorgente;  essenzialmente  non  c’è  altro  da fare poiché da lì veniamo e, immancabilmente, lì stiamo andando.

Andare  alla  sorgente  è  metafora  per  indicare  la  vita realizzata così com’è; vita che non è mia o tua, la vita è semplicemente vita di tutto ciò che vive.   In questo sta la pace; in questo brilla la gioia.

Non   abbiamo   da   dimostrare   o   controllare   niente; incontrare   la   sorgente   è   fatto  totalmente   naturale poiché tutto ciò che vive è quella sorgente, la manifesta a modo proprio, la fa brillare, oppure, come nel caso più comune,  come  è  accaduto  a  te,  la  soffoca  cercando qualcosa che crede di aver perduto o che pensa di dover trattenere.

In questo caso, l’unica cosa che si è perduta sei tu; si è perduta la tua gioia, il tuo sorriso, tanto che - giunti qui- per solito arrivano i demoni.

Ma  i  demoni…,  e  anche  di  questo  abbiamo  parlato,  i demoni sono esseri simpatici, forse bizzarri, ma non per forza  cattivi.  Il  fatto  che  a  volte  facciano  male  non dipende  da  loro;  è  che  incontrano  un  corpo  troppo contratto,  una  mente  ansiosa,  un  cuore  inquieto; ecco perché fanno male.

Ma  c’è  più  luce,  c’è  molta  più  luce  di  quella  che vediamo; ed è questa luce che
trasfigura il mondo, non una volontà.

Farsi  toccare  dal  silenzio,  bagnarsi  nella  sorgente,  è quanto  serve  ed  è  quanto  basta.  Niente  da  capire.  La pioggia  bagna  ed  il  sole  riscalda.  L’erba  brilla  sotto  i nostri  piedi.  Qualcuno  chiama  tutto  ciò  risveglio;  ma non è altro che giocare gioiosamente in questo samadhi, come  ha  detto  un  vecchio  monaco,  uno  che  siede  con noi, un nostro amico.

Abbi cura di te.

Vicenza 5 Novembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile

Battito

Vi  avevo  lasciato  che  facevate  surf  ¹.  Prendo  l’onda  e continuo…

Ogniqualvolta   cantiamo   il   nostro   amato   Sutra   del Cuore,  a  ognuno  di  voi  è  dato  vedere  lo  stato  della propria pratica.

È così che succede. Ed è così che succede dal momento che - nel canto, ma in generale nella pratica-vita - vanno sempre integrate due spinte: la prima, di forte presenza ed  energia  nel  manifestare  se  stessi  (nel  canto,  per mezzo  della  voce);  la  seconda,  altrettanto  importante, riguarda   l’armonizzare   ogni   personale   agire   con   il kairós  dell’adesso,  (nel  caso  del  canto  con  chi  in  quel momento guida la seduta).

Tutte cose stradette, in questi anni. Eppure, tutte cose non ancora incarnate. E dire che qui c’è il termometro del vostro spirito bagnato dalla pratica-vita.

Mi  interrogo  spesso,  e  non  da  ora,  sul  perché  questo accada.  Oggi,  interrogo  voi:  non  vedete  come  il  canto porti in evidenza un corpo-mente che si allinea al ritmo del mondo, che batte il ritmo con esso, esulta, lo ingoia e  sofficemente  lo  riproduce?    Evidentemente  non  lo vedete.

Il   fatto   è   che   se   non   vi   sarete   adeguatamente dimenticati ² non si potrà manifestare l’apertura per la quale  il  ritmo,  da  sé,  s’insedia  in  voi,  in  una  specie  di possessione. Altrimenti… Altrimenti il battito del mondo vi cerca ma non vi trova. E, allora, ecco come cantate il sutra per solito: a denti stretti, e perciò trattenendolo, trattenendovi,   appena  un   sussurro,   quando   l’onda dovrebbe scrostare il muro della sala, tanto è potente, tanto vibra.

State  bene  attenti,  ve  ne  prego.  Ponderate.  Rileggete. Non  tentennate.  Non  restatevene  in  disparte.  Magari dubitate, indagate, interrogate, ma poi venite a vedere, come esortava Śakyamuni.

Il   nostro   orientamento   è   così:   non   attraversare   il mondo, quanto lasciarsi
attraversare dal mondo ³.

Ma  perché  ciò  accada  il  nostro  spirito  deve  essere quieto,  vale  a  dire  che  -  come  ripeto  da  anni  –  nella nostra casa non deve abitare nessuno! Ed ecco come il semplice  cantare  il  sutra  (ma  anche  vivere,  ridere, sedere silenziosi...) porta a galla l’intero nostro andare nella grande Via.

Dire ritmo, dire battito del mondo, è il questo, è il così com’è. In fin dei conti è quanto, assai inadeguatamente, chiamiamo   risveglio.   Perciò   sedete,   quieti   e   forti. Battete  il   chiodo,   leggeri   e   senza   lasciare   tracce. Ritornate  a  sedere.  Dimenticatevi  ⁴.  Ecco,  il  velo  si squarcia…  Cadute  le  paratie  allegramente  il  mondo entra-e-esce, espiro-inspiro, lasciandoci nella gioia di un pulsare   ritmico,   l’Aperto.   Battito,   appunto.   Corpo trasfigurato. Mente soffice. Immobile.

Avanti, sangha! Serve un passo, un passo inaudito. Un passo  sghembo,  di  lato.  A  lato  dal  pensare  sempre  gli stessi pensieri. Buddha non è mai dove vi aspettate che sia.   D’altra   parte,   alla   lunga,   restare   con   i   morti attossica!


Vicenza 27 Ottobre 2024

Salvatore Shōgaku Sottile

 

¹ Il riferimento è a: La pratica del surf del 20 Ottobre 2024.
²  Una  volta  Maezumi  Roshi  e  io  stavamo  viaggiando  su  un  treno  ad  alta  velocità  in Giappone. Roshi sedeva vicino a me, e di fronte avevamo una coppia. Il marito era membro del  direttivo  dello  Zen  Center  di  Los  Angeles…  La  moglie  non  era  una  praticante  zen.
Mentre stavamo chiacchierando, la donna guardò Roshi e disse: “Tra tutte le persone che conosco, lei è probabilmente quella che si trova più a suo  agio  nel  non  sapere  chi  è”
. Dennis Genpo Merzel, Se l’occhio non dorme, Ubaldini1993, pag. 45. Ecco com’è! 

³  Inverare  le  cose  mettendo  avanti  se  stesso:  questo  è  l’illusione;  partendo  dalle 
cose inverare se stesso: questo è il risveglio.
Dōgen, Genjōkōan.
Apprendere la via di Buddha è apprendere se stesso. Apprendere se stesso è dimenticare se stesso. Dimenticare se stesso è essere inverato da tutte le cose. Essere inverato da tutte le cose è libertà nell’abbandonare corpo e spirito di se stesso e corpo spirito altrui. È risveglio che riposa da ogni traccia  a il non lasciare traccia di se stesso. Dōgen, Genjōkōan.


La pratica del surf

A Nicolas Bouvier 
   monaco malgré lui

Quanto   può   accadere   nelle   vicissitudini   di   chi   è dedito/dedita alla pratica della 
grande Via è di portare allo scoperto quanto lo/la abita. Non è forse quanto si andava cercando; pure, non è di poco conto sapere chi si è mentre il cammino ci spiuma. ¹


Nel  diventare  uomini  e  donne,  forme  nel  mondo  delle forme, per una infinità di ragioni, di contesti, di modi, si può aver avuto necessità di costruirsi una bella corazza tutt’attorno  a  se  stessi.  L’idea  di  partenza  potrebbe essere  stata  che  ci  si  debba  difendere  da  qualcosa. E così   dalla   paura   nasce   la   necessità   del   controllo, ovverosia la presa di distanza dalla viva vita che canta, batte,    pulsa; e,  a  cascata,  un’infinita  serie  di stratagemmi  a  cui    necessariamente  e  purtroppo seguono effetti. Uno per tutti: diventare lenti. Poiché ad ogni  incontro  che  la  vita  ci  offre  vien  contrapposto  un pensare che è un calcolare.  Calcolare quanto quest’incontro che viene potrebbe toccarci. 
Amen!


E  dire  che  la   vita  non  è  altro  che  incontri!  E  ancora, giunti  qui,  che  fare  di 
questi  volti  sprofondati  nel calcolo seriosamente atteggiati a posture che sembrano riflessive mentre la vita scorre loro accanto, non vista? ²

Ma non è finita. Poiché pensare abbisogna di parole e le parole  si  aggrumano  in  concetti,  così compiendosi  la tessitura della corazza che, ora, comincia a toglierci il respiro.… concetto deriva da cum-capere, afferrare… Afferrate dai concetti,  le  cose  perdono  quel  corredo  naturale  che  le accompagna… Il concetto è controllo, il controllo è dominio, il dominio ha in vista il possesso delle cose. ³


Eccoci in trappola. E abbiamo fatto tutto da soli.

Da  qui  in  avanti  diventa  arduo  incarnare  l’adesso,  il fluire  vivente,  la  gioia,  il 
silenzio, kairós - il momento opportuno -, il non-nato, la non-mente. Da qui in avanti è  perciò  necessario  sedere, sedere,  sedere. Semplicemente sedere. Shikantaza. Non c’è altro modo 4.

Per fare surf basta l’onda, il vento e, soffice, un corpo che fluisce con essi. Ecco la gioia. Ecco la libertà. Con la paura, il pensiero, il controllo - in una parola sola con la  consapevolezza  ⁵  -,  basta  quello  che  c’è:  un  corpo rigido con la sua selva di demoni.

La rosa che siete amerebbe fiorire; ma non ce la fa così serrata nel pugno!

Ecco, adesso capite perché non mi sono mai sognato di invitarvi ad essere consapevoli, nella pratica; si tratta di altro   controllo,   forse   appena   più   raffinato,   ma   pur sempre  controllo.  Dove  -  e  qui  è  il  punto,  qui  casca l’asino   -   necessariamente   viene   portato   in   scena l’agente, il soggetto, il me di un tale agire.

E l’onda ci passa accanto, magnifica. E la vita scolora. 

Vicenza 20 Ottobre 2024

Salvatore Shōgaku Sottile

 

1 E qui, abbiate pazienza, ma di tanto in tanto - adesso per esempio - tornano i miei incontri fatati: Un passo verso il meno è un passo verso il meglio. Quanti anni, ancora, prima di avere definitivamente ragione di quell’io che pone ostacoli a tutto? ...    Non si viaggia per addobbarsi d’esotismo  e  di  aneddoti  come  un  albero  di  Natale,  ma  perché  la  strada  ci spiumi, ci strigli, ci prosciughi… Diventare riflesso, eco, corrente d'aria... Nicolas Bouvier, Il pesce scorpione, Laterza 2006, pagg. XIII-XIV.
²  Non  è  neanche  da  dire  come  tutto  questo  pensare,  tutta  questa  paura,  il  controllo,  siano nient'altro che fantasie. Nessuno controlla alcunché,  figurarsi  la  propria  vita,  se  non  nelle sciocchezze. Ma questo sarebbe il tema di un altro discorso.
³ Umberto Galimberti, Idee: il catalogo è questo, Feltrinelli 1992, al lemma Profezia.
Cessare di ogni afferrare, cessazione di ogni aggiungere: liberazione. (Nāgārjuna)
⁵  Wikipedia: In psicologia, con il termine consapevolezza si intende la capacità di essere a conoscenza di ciò che viene percepito e delle proprie risposte comportamentali. Si tratta di un processo cognitivo distinto da sensazione e percezione.
Un'altra definizione la descrive come uno stato in cui un soggetto è a conoscenza di alcune informazioni  quando  tali  informazioni  sono  direttamente  disponibili  per  essere  trasferite nella  direzione  di  un'ampia  gamma  di  processi  comportamentali.  Il  concetto  è  spesso sinonimo di coscienza ed è anche inteso come coscienza stessa. Gli stati di consapevolezza,  in  modo  che  la  struttura  rappresentata  nella consapevolezza si rispecchi nella struttura dell'esperienza stessa. Treccani: consapevolézza s.  f.  [der.  Di  consapevole].  –  L’esser  consapevole;  cognizione,  coscienza:  avere  c.  delle proprie  responsabilità; agire con piena c.; la c. del  male  fatto  può essere  principio  di pentimento.




Quello che c’è

Nel  precedente  discorso  ¹  vi  ho  parlato  di  una  landa desolata;  oggi  torniamo  a  casa  dimenticando  i  morti. Pure, c’è un filo tra i due temi. A voi portarlo alla luce.

L’aspirazione  che  ci  muove  a  trovare  un  modo  di  vivere privo  di  sofferenza  è  solo  un  altro  desiderio  egoistico. Sostituiamo   un   desiderio   di   fama   e   ricchezza   con   un desiderio   di   emancipazione   e   risveglio.   L’oggetto   del desiderio  è diverso,  ma  ciò  che  accade  dentro  di  noi  è  la stessa  cosa….  Quando  ci  votiamo  seriamente  a  praticare, questa   diventa   una   questione   cruciale:   il   desiderio   di eliminare   l’ignoranza   non   è   forse   causato   esso   stesso dall’ignoranza? ²

Sembra  una  trappola.  Non  vanno  bene  i  master  in contemplative studies; la mindfulness; i corsi meditativi online;  l’avatar;  buddha  nel  metaverso…;    ma  non  va bene nemmeno aspirare al risveglio. E qualcuno di voi potrebbe  sentirsi  cacciato  in  un  labirinto  dove  non  si trova o non c’è uscita.

Lo capisco. Non mi è difficile da capire. Sono passato da lì anch’io. La pratica della grande Via necessariamente comincia col me; così come, anche qui necessariamente, la nostra vita nel mondo è cominciata col vagito. Pure, questo non implica che per tutta la vita si debba fare i poppanti. 
Pure,  questo  non  implica  portarsi  appresso per tutta una vita la zavorra del me.

Nella  misura  in  cui  lottiamo  per  eliminare  l’ignoranza  e  i desideri,  siamo  ancora 
all’interno  del  nostro  individuale  sé karmico, basato su ignoranza e desideri. Creiamo una faida senza fine tra i due lati di noi stessi. ³


E  qui,  lasciandovi  soli  -  come  sempre  siamo  -  nel ritrovare  quel  filo  e  dirimere 
l’intreccio,  si  pone  una grande  questione.  Forse  la  massima  questione.  E  la
questione   è:   se   non   è   il   me/io   quell’eppure ⁴   che conduce il samsāra al nirvana, cos’è? Ovvero, com’è che il carattere karmico traghetta nel Carattere dharmico?

La  pratica  della  grande  Via,  se  non  c’è  nessuno  che fantastica di intestarsene la
paternità, è per sua natura una pratica alchemica. Vale a dire che, non tralasciando e non escludendo niente, a suo modo porta tutto ad uno stato di ebollizione - diciamo così - tale da trasfigurare.

È così che le ossessioni, le abitudini, le idiosincrasie di ogni personale mi piace/non mi piace - in una parola il carattere   karmico   -,   piano   piano   scolorano,   non scomparendo  mai  del  tutto  benché  divenienti  sempre più   inefficaci.   E   i   demoni   continueranno   a   farci compagnia sedendo sul nostro stesso cuscino.

Chi  opera  tutto  ciò,  nel  destino  dei  nostri  giorni,  è  la costanza nella pratica, il
silenzio della mente immobile e la fede.   Giorno per giorno lasciamo che la pioggia ci bagni  e  che  il  sole  c’infiammi;  non  disperandoci,  non recriminando,  non  rimuginando,  non  lagnandoci  e  non sognando   scorciatoie.   A   furia   di   camminare   nella nebbia,  senza  che nessuno-lo-sappia  diventiamo  zuppi. Ecco, la nebbia è quel gyōji dell’imperturbabile pratica ininterrotta, come insegna Dōgen ⁵.

Cercare di mettere le mani su questo processo - giacché di processo si tratta e non di una sostanza in sé e per sé; anātman e non ātman -; cercare di mettere le mani su questo processo disequilibra e porta allo scacco.

Si tratta di far intersecare due nature diverse che di per sé non s’intralciano ma che non è possibile sovrapporre. La prima, il me/io è necessariamente sofferente e cieca; la seconda è l’Aperto. Sunyata. La santa vacuità.

Ecco,  guardate,  ora  vi  sto  donando  una  rosa.  Questa rosa. Ma questa rosa non è una rosa. Pure, proprio per questo è una rosa.

Qui, la terza rosa è assai diversa dalla prima in quanto trasfigurata  dal  suo  esser  passata  per  Anatta/Anicca  - non  sé/impermanenza  -,  e  perciò  ora  è  nell’Aperto.  E proprio per questo è veramente una rosa.

Il Sutra del Diamante la dice così: Vedere tutte le forme come senza forma è vedere la vera forma.

E allora, giunti qui, cosa fare?

Lasciate la presa. Qualunque presa. Mollate l’appiglio. Qualunque  appiglio.  Scoprirete  di  saper camminare sulle acque. Farete un passo oltre il ciglio della rupe e non cadrete. Canterete. Vi inchinerete, occhi umidi, al cielo che s’annuvola, abbraccerete un albero...

E Buddha - il flusso vitale, l’evento, un colpo di vento - non troverà più ostacoli. ⁶
E allora…

Allora  ci  sarà  un  riconoscimento  -  stesso  volto  stessi occhi -. E riderete.

Ecco quello che c’è! 

 
¹ Si tratta di Imbellettare i morti, del 9 Ottobre 2024
² Shōhaku Okumura Roshi, Il canto dello Zen, Ubaldini 2012, pag. 193
³ Shōhaku Okumura Roshi, op. cit., pag. 197 

Samsara-eppure-nirvana, di cui abbiamo parlato nel nostro Keiji Nishitani ovvero sul cavar sangue (di dharma) dalla rapa filosofica
⁵ È l’atto, l’agire quella particolare azione nella nostra esistenza fenomenica, il totale
esercizio di una singola cosa
(ippo-gūjin), o semplicemente il totale esercizio (gūjin), che realizza totalmente la nostra vita (genjō-kōan) e che le dà il verso giusto. Vedere il nostro Quattro passi con Dōgen.
6 ...un bacio è un evento. Non ha senso dove sia andato il bacio domani. Il mondo è fatto di reti di baci… Carlo Rovelli, Helgoland, Adhelphi 2020, pag. 87



Vicenza 13 Ottobre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile





Imbellettare i morti

Quel che si vede, oggi, della nostra pratica nel mondo: master   in   contemplative   studies;   linee   patriarcali ripiegate in counseling; corsi meditativi online; avatar… Ci  si  potrebbe  rattristare;  mentre,  invece,  quanto  mi sale alla gola è una poderosa risata, come ai tempi del Ch’an.

L’idea  di  fondo,  in  chi  facendo  così  si  gioca  la  vita  e mette  in  gioco  il  dharma,  è
 che  occorra  ammodernare l’antica pratica e l’antico insegnamento. Ma una cosa è l’abile   mezzo  e   l’abile   intelligenza   con   le   quali Śakyamuni    corrispondeva    all’interlocutore    ed    alle situazioni,  altra,  molto  altra,  immettere  in  un  corpo- mente   già   confuso,   altra   confusione,   altro   veleno. Confusione  e  veleno  che sono  lo  stemma  di  questo nostro tempo.

Dimenticando   Anatta/Anicca,   non   sé/impermanenza, quel  formidabile  tandem  dell’origine,  si alimenta  la sofferenza  e  si  propaga  l’illusione  che  sia  il  me/io  a poter   essere   condotto   alla   gioia   e   alla   liberazione. Quando, come sappiamo e come ha sempre insegnato la grande Via, il me/io è il problema e mai la soluzione.

Cessazione       di       ogni       afferrare,       cessazione dell’aggiungere:   liberazione   
(Nagarjuna).   O,   anche: Studiare il buddhismo è studiare se stessi; studiare se stessi è
dimenticare se stessi
(Dōgen).

Perciò  chiedo:  ammodernare  che?  Ammodernare  cosa se,   nel   fare   questo,   è   poi   necessario   partire   dalla menzogna   che   il   me/io   possa   essere   imbellettato piuttosto che dimenticato?

E se di questo si tratta, se di dimenticare si tratta, a chi si  proporrà  il  master,  i  corsi 
online…  Ma  veramente credere che il silenzio abbia bisogno di essere ammodernato?

Lascia  che  i  morti  seppelliscano i loro morti;  tu  va’  e
annunzia il regno di Dio.


Vicenza 9 Ottobre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile


IL DRAGO E IL BAMBINO

Un  drago  e  un  bambino  si  ritrovarono,  in  un’alba  lucente, nella   stessa   grotta   poco prima della cima di  un’alta montagna.

Il  bambino  forse  aveva  fame  e  piangeva,  dentro  il  cesto dov’era,  appallottolato  in  una  lana  del  colore  di  una  capra avvezza agli alpeggi, ai dirupi ed ai rovi. E alle merde.

Il  drago,  acciambellato  proprio  sul  fondo  della  grotta,  alle estremità la testa e la coda armata di aculei, a quel pianto si svegliò.   Non   ne   sapeva   niente   di   bambini   e   di  pianti; conduceva la sua vita solitario, forse solo, finito il tempo nel quale in ogni giorno il cielo veniva oscurato da quelli come lui.

Mosse la testa verso quel suono querulo e fiutò. Sentì l’odore dell’umano e tremò. Conosceva, quell’odore. Così si allungò, quasi   senza   muoversi,   cominciando   a   strisciare   verso l’imbocco della grotta e la pallida luce che ne proveniva.

Il  bambino  non  smetteva  di  piangere  e  di  dimenarsi,  tanto che   la   cesta   dov’era   
prese   ad   ondeggiare.   Il   drago s’immobilizzò. Ancora non capiva con cosa aveva a che fare. Poi... Poi fece andare avanti la coda, ad arco, pian piano, che strisciando con gli aculei sulla pietra delle pareti, faceva un controsuono,  un  altro  suono,  oltre  al  pianto.  Timidamente arrivò   alla   cesta;  la  toccò; si scostò;   la   toccò   ancora, prendendo ad assecondarne il dondolio.

Non durò molto. Ma ora che la cesta riconosceva la presenza della   coda   del   drago,   il   bambino   cessò   di   piangere, rintanandosi meglio nella coperta che sempre più - ora che s’alzava una nebbia di latte -, sapeva di capre e di bosco...

Ora, ora che è Settembre, un uomo siede nell’antica postura, sull’imbocco   della   grotta,   tra   le   spire   del   drago   che, guardandoci, sorride.


Vicenza, 27 Settembre 2024
Salvatore Shōgaku Sottile


Non c’è un altro modo

Ogni tanto sogno le vicissitudini di questa piccola comunità che da più di trent’anni siede e vivifica la grande Via e, nel sogno, vedo scorrere i volti, la voce e gli sguardi di quanti, centinaia, hanno lasciato le cose a metà dirigendosi altrove.

È assai probabile che si tratti solo del fatto che invecchio; in verità non ho grande interesse a ricordare e, tanto meno, a discutere la vita-pratica di qualcun altro.  Pure, è quello che accade.  Ed   è   con   questa   premessa   che   mi   accingo   a mandarvi questo messaggio in bottiglia...

L’inferno  è  la  parte  peggiore  del  samsara  ed  è  considerata  la  più straziante.  Ma 
Dongshan  disse  che  c’è  una  condizione  ancora  più dolorosa.  Quando  inseguiamo  qualcosa,  anche  il  Risveglio,  la  pratica diventa  un’attività  interna  al  samsara…  se  si  conosce… il  Dharma  del Buddha, si sono già ricevuti i precetti, già si indossa l’okesa e si pratica lo zazen e ancora si insegue qualcosa, non c’è modo di salvarsi. ¹

È  quanto  succede.  È  quanto  è  successo.  È  tutto  racchiuso, come il gheriglio in una noce,  in quell’angosciante  cercare continuamente qualcosa, continuamente assetati, inappagati, orfani, bisognosi, monchi. Perciò, si può anche aver praticato per  dieci  anni,  ma  se  quella  pratica  è  rimasta  un’attività interna al samsara, non potrà mai meravigliare l’epilogo. E non c’è veramente modo di salvarsi.

Perché  accade  questo?  Non  lo  so.  Non  si  sa.   È  come chiedersi  perché  questo  chiodo  penetra  agevolmente  nel muro e quest’altro s’affloscia… Quel che so, quel che conta, è incarnare pratica-risveglio di Dōgen Zenji...

Illusione  e  Risveglio  sono  entrambi  qui.  Non  vengono  né  negati,  né affermati,  né  afferrati.  Sediamo  sul  terreno  del  lasciare  la  presa  e lasciar andare… Non c’è altro stato da conseguire che la nostra pratica del lasciare la presa. ²

A questo punto, direi così: rivediamoci fra dieci anni...


Vicenza 22 Settembre 2024

Salvatore Shōgaku Sottile

¹ Shōhaku Okumura Roshi, Il Canto dello Zen, Ubaldinini 2016, pag. 99
² Shōhaku Okumura Roshi, Il Canto dello Zen, op. cit., pag. 74




Il suono della vacuità

Che  la  vacuità  possa  avere  un  suono  è  una  questione piuttosto che un’asserzione. E la questione è: ciò che è vuoto  può  avere  qualcosa?  Qualcosa  oltre  se  stesso, cioè vacuità?

È  il  medesimo  problema  che  sempre  pongono  questi discorsi. Tutti, in un modo o nell’altro, presi nella rete del lasciare andare, dimenticare, aprire le mani.

Ma, allora, perché fare questi discorsi?

Antica  –  e  a  me  appare  eminentemente  comica  -  mai risolta questione.

Questione  che  il  Ch’an  aveva  risolta  a  suo  modo:  Se parlate,    trenta    bastonate.    Se state zitti, trenta bastonate!

Risolta non risolvendola è come l’affronta il Ch’an; così come   irrisolta   risolvendola   è  la nostra   pratica   di camminare  sul  filo,  non  scegliendo  né  rifiutando.  Non vogliamo
fuggire l’illusione e non cerchiamo il risveglio, poiché  l’una  e  l’altro  non  sono  altro  che  sunyata,  la santa vacuità.

E  allora?  Allora  samsara-eppure-nirvana  (Nishitani)  ¹  , dove il focus è tutto qui: eppure.

E, di nuovo, trenta bastonate!


Vicenza, 10 Settembre 2024

Salvatore Shōgaku Sottile



1. Si può utilmente vedere il nostro Keiji Nishitan ovvero sul cavar sangue (di dharma) dalla rapa filosofica.




La grotta del Patriarca

Praticando la nostra pratica, vivendo la nostra vita illuminati dalla stella di bodaishin - la mente che cerca la Via - accade che ovunque ci troviamo, in qualunque faccenda siamo   affaccendati,   non   siamo   mai   veramente   altrove   che   nella   grotta   di Bodhidharma. Seduti insieme a lui. Seduti come lui.

Perciò, per noi, il luogo della pratica non è solo quello che definiamo così: zendo. Zendo  è  ovunque  siamo  presenti  in  questo  preciso  istante,  e  mai  nessuno  potrà portarcelo via. Il luogo della pratica è il nostro cuore risvegliato che non si smarrisce nella confusione.

Qui, nella mia grotta, dove presenzio a me stesso in attesa che la calura sbollisca, ora sto leggendo così (Il canto dello Zen, Shōhaku Okumura):
La pratica non è uno strumento per sbarazzarci di pensieri illusori… No, quello che dobbiamo  fare  è  sedere  in  zazen  e lasciare andare tutte le idee dualistiche. Così facendo la vera realtà si manifesta da se stessa. Illusione e risveglio sono entrambi qui.  Non  vengono  né  negati,  né  affermati,  né  afferrati.  Sediamo  sul  terreno  del lasciare la presa e lasciar andare. Questo è il significato dell' espressione di Dogēn: “Pratica e Risveglio sono tutt'uno” .

Ecco.  Così.  Né  negati,  né  affermati,  né afferrati. Non è difficile. Quel che conta è vedere che non ci manca e non ci è mai mancato niente. Vivere, infine, è il nostro meraviglioso zendo.

Ovunque  giri  lo  sguardo  ogni  cosa  è  in  postura.  Alberi,  pietre, fiumi e montagne, uccelli nel cielo.

Non   sprecate   la   vostra   preziosa   vita.   Non   fuggite.   Non   cercate   giocattoli.
Pratica-risveglio: una sola questione. 

Campodalbero, 31 luglio 2024

Salvatore Shōgaku Sottile







Samsara

Qualche  giorno  fa  mi  è  giunto  un  messaggio  da  un giovane  amico  attivo  nel  teatro  che,
 per  un  po’,  ha praticato con noi.

Il messaggio diceva così:

Abbiamo necessità di sogno e immaginazione. Questa è, per l’uomo, la resurrezione.

A cui ho risposto così:

Abbiamo necessità di silenzio per vedere e per sentire. E il silenzio è una mente che non corre più appresso a niente. Immaginare,  sognare,  desiderare…     Non finiscono  mai.  Vedere  e  sentire  veramente  è  scoprire che non ci manca niente. Fine della corsa.

Il  punto  del  pensiero  del  mio  amico,  per  quanto  teso artisticamente,  è  ribadire 
l’ovvio.  Quello  di  cui  parla, difatti,  da  duemilacinquecento  anni  almeno  si  chiama
samsara.   Che    è   la   consueta   condizione    di    vita dell’umano sulla terra. Sofferenza appresso a sofferenza poiché, appunto, i sogni non finiscono mai e niente può essere afferrato… (E non vorrei scomodare il mio amato Epicuro  e  il  suo  trattare  i  desideri…  Epicuro  che,  in ogni caso e in qualche modo, fa intendere come non sia esclusiva  del  buddhismo  questo  discorrere  intorno  ai desideri…)

Ora, vivere un’altra vita con un diverso orizzonte, vivere cioè  fra  desideri  e  sogni  dribblando continuamente desideri e sogni, non è niente di speciale, come hanno sempre  detto  i  nostri  maestri,  pure,  in  questo  niente accade un totale capovolgimento di scena. Al samsara, difatti, noi non opponiamo qualcos’altro, il  nirvana per esempio, poiché certi di come non ci sia  ¹  né l’uno né l’altro.

Se non facessimo così non eluderemmo affatto la dualità e,  a  quel  punto,  dovremmo 
necessariamente  operare una scelta fra uno dei due corni della questione. Ma se salta la contrapposizione stessa e la dualità cade, quel che  troviamo  è  l’esistenza  che esiste  senza  opporsi  a niente.  Semplicemente  esiste.  I  fiori  fioriscono  così come fioriscono (Dōgen).

Semplicemente,  eccolo  il  nostro  modo  di  camminare nella grande Via:
samsara-eppure-nirvana
(Nishitani).

E,   qui,   lasciamo   il   nostro   amico   al   suo   destino   e passiamo  a  noi.  Giacché  non
 sono  sicuro  che  abbiate capito.

Dite: ma come si fa a vivere dribllando desideri e sogni? Cosa ci resta? In altro modo: con quale energia vivere?

Torna   utile   qui   ricordare   cosa   ho   sempre   detto   a proposito   dei   personali   
demoni.   Cosa   ho   detto?   Di combattere    per    ricacciarli    indietro?    Ovvero    di
accoglierli…? Ma accoglierli come, senza farsi divorare?

Se  la  vostra  vita  è  guidata  dal  silenzio  della  mente immobile,  dalla  vivida  pratica  di zazen,  accogliere  i demoni  o  accogliere  i  sogni  è  il  medesimo  agire.  Fate passare    sogni,    desideri    e    demoni    dal    setaccio dell’immobilità  e  del  silenzio  e  quel  che  ne  verrà  sarà energia  fresca,  forte,  senza  dubbi.  Perché?  Perché, come ripeto da anni, la pratica è alchimia che trasforma senza scartare niente.  Ecco samsara-eppure-nirvana!

Non sarà mai la mente illusa a vagliare i sogni/desideri buoni da quelli cattivi per il semplice fatto che non può. Dimenticate  tutto  e  sedete  silenziosi  e  forti.  Da  lì,  da qui,  passa  il  fiume  della  vostra  vita  ²,  e  da  lì,  da  qui, passa il miracolo. Samsara-eppure-nirvana!

Nel  far  questo  abbiate  cura  del  vostro  spirito.  Non dormite.   La   mente   del   risveglio non   indugia,   non delega,  non  è  acquiescente,  ma  indaga,  scava  e  con
quieta passione ama il dharma per il dharma e la vita per la vita. A prescindere!

Amore  a  parte,  cielo  a  parte,  il  punto  è  in  quel  a prescindere. A prescindere dal me
poiché la grande Via, il  cielo,  conosce  solo  vastità.  E  i  miei  sogni,  i  miei desideri?   
Nuvole     prese     nel     vento     di     mujo, l’impermanenza. Resta il cielo. Resta l’amore.

Vicenza, 5 Aprile 2024

Salvatore Shōgaku Sottile


 
¹  Śākyamuni (anattā/anicca - non sé/impermanenza). Nessun fenomeno ha sostanza in quanto Sunyata, la santa Vacuità.
² In verità il fiume della vita di ogni esistenza...
 




Falso movimento


Della  lettura  di  questo  Dōgen  ¹  non  mi  resterà  molto. Aveva  scavato  di  più  Hee-Jin  Kim  ².  Pure,  proprio  in fondo  al  volume,  probabilmente  più  rilassato,  Heine sembra  risorgere.  Ne  darò  un  accenno,  qui,  perché connesso a quanto sperimentiamo insieme.

Per   Dōgen,   la   missione dell’insegnamento   non   consiste   nel portare il Buddha sulla terra… cosa che implica la discesa da un regno superiore. Piuttosto, raffigura l’impegno per un’autenticità che  trascende  ma  si  trova  pienamente  nel  quadro  della  vita quotidiana… 
L’obiettivo…  era  ribaltare  il  modo  di  vedere  degli allievi,  distogliendoli  dal 
considerare  i  metodi  di  pratica  come strumenti  per  alterare  l’esistenza  per  portarli  invece  verso  un punto  di  vista  basato  sulla  realizzazione,  in  cui  la  continua riflessività  contemplativa  si  sintonizza  con  la  qualità  sempre presente dei Buddha che diventano Buddha.
³

Prolisso  da  morire  ma  il  discorso  è chiaro.  Dove  mi interessa quel trascendere che in verità non trascende poiché   si   trova a proprio agio lì dov’è, nella vita quotidiana.   Un falso movimento, si potrebbe  dire; sebbene un movimento essenziale.

Mi  capita  di  parlare  di  trascendenza.  L’ultima  volta credo sia stato ne Il pane e lo Zen…

Ora,   perché   dire   trascendenza   se   poi   si   tratta   di immanenza?  Ecco  una  buona  domanda  che,  magari, avreste potuto fare voi. ⁵

Finché si resta nella coppia (trascendenza/immanenza), non c’è   soluzione né si può rintracciare la ragione per  la  quale,  in  questo  caso,  sia  io  che  uno  studioso  di Dōgen, come Heine, parliamo di trascendenza.

Ma  se  solo  si  riporta  la  questione  lì  dove  deve  stare, ovverosia  nel  silenzio  della 
mente  immobile,  allora  si intenderà che proprio questo aderire al corpo nella non- dualità - zazen - farà emergere che (anche) il corpo non è un corpo. ⁶

Ecco l’Aperto! Ecco Sunyata, la santa vacuità. E se - ad un certo punto del processo di evenienza della mente immobile - siamo qui, se veramente siamo qui, proprio questo toccare  amorevolmente il corpo nella più avvolgente e calda immanenza, conduce laddove...

… non c’è forma né sensazione, né percezione, né discriminazione, né coscienza;
non ci sono occhi né orecchi, naso, lingua, corpo, mente; non ci sono forma né suono, odore, gusto,
tatto, oggetti; né c’è un regno del vedere,
e così via fino ad arrivare a nessun regno della coscienza; non vi è conoscenza, né ignoranza,
né fine della conoscenza, né fine dell’ignoranza, e così via fino ad arrivare a né vecchiaia né
morte;
né estinzione di vecchiaia e morte; non c’è sofferenza, karma, estinzione, via;
non c’è saggezza né realizzazione...


Incontrare  il  mondo  con  mente  immobile,  difatti,  una rosa per esempio, fa sì che
nell’incontro, nel reciproco toccarsi,  si  apra  sia  la  rosa  sia  chi  la  tocca.  Non perdendo
niente,  se  non  l’illusione,  ma  dando  vita  al mondo.  Tutte  le  cose  sono  nella  terra 
natia  di  una certa cosa e fanno che essa sia ciò che è
. ⁸  Amen!

Vicenza, 25 Marzo 2024

Salvatore Shōgaku Sottile 




¹ Steven Heine, Dōgen. La vita e l’opera del fondatore della scuola Zen Sōtō, Ubiliber, 2023
² Hee-Jin Kim, L’essenza del buddhismo Zen, Dōgen, realista mistico, Mimesis, 2010
³ Steven Heine, op. cit., pag. 265
⁴ … a vivere l’esperienza dell’Aperto è la vita che siamo, che include la mia ma che decisamente la supera. Una trascendenza, perciò, pur rimanendo sempre ancorati a quel corpo che siede sul cuscino.
La pratica Zen è corpo! Nessun aldilà quanto, piuttosto, una gioioso aldiquà…
Capitolo: La meditazione...mi può servire per stare meglio?
Il punto dell’espressione sconcertante di Jashan è che il discepolo e il maestro devono essere in grado di sfidarsi l'uno dall’altro da pari, piuttosto che rimanere in una relazione gerarchica. In Steven Heine, op, cit. pag. 278
⁶ … stare semplicemente seduti non è solo una questione di stare seduti. In Steven Heine, op, cit. pag. 275
Maka Hannya Haramita Shingyo  o Sutra del Cuore.
⁸ Il nostro: Keiji Nishitani, ovvero sul cavar sangue (di dharma) dalla rapa filosofica, pag.
21

Questo testo è la prima cosa che gli utenti vedono sul tuo sito. É il luogo giusto per descrivere in breve di cosa si tratta.

L'architrave del mondo, ovvero
zazen non è (solo) zazen


Certo, nel mondo dobbiamo adoperarci affinché non si giunga all’atomica… Pure, non è sufficiente.
Pure, non è questo il punto.

Nel sedere, come sediamo noi; nello zazen di Dōgen il come è dirimente. La postura, difatti, non è a caso, così come capita, ma accuratamente studiata e vagliata dai corpi di generazioni di uomini e donne della grande Via. Dal Ch’an dell’epoca Tang, almeno.

Ora, quel che la distingue e la fa unica è che il tronco svetta, forte, mentre dal bacino in giù si sprofonda nella terra. Tenere il cielo in alto e la terra in basso: ecco la postura di zazen! Con la nuca spingiamo in alto il cielo e con le ginocchia confortiamo la terra che tutto sostiene.

La deflagrazione che temiamo più d’ogni altra, difatti, è che    il    cielo    declini    in   
giù    e    che    la    terra    - paradossalmente  -    non  abbia  alcunché  da  sostenere.
Questo è il punto.

Il punto è che il risveglio ¹ tiene unito e vivo il mondo, prima e a prescindere da come l’umano veda tutto ciò. Conformarsi ² a questo stato primordiale del mondo - il risveglio - fa sì che tutto risuoni e faccia luce.

Nella  postura,  e  perciò  nel  punto  -  per  l’umano  -  più dappresso   a   questo,   nel   far
  da   tramite   senza   che nessuno-lo-sappia   svolgendo   il   ruolo   di   Hermês   ³ affinché
tutto liberamente fluisca ma niente si confonda, in questo sta il senso ultimo di quel che noi
chiamiamo postura   di   risveglio.   Che,   da   oggi,   potremo   anche chiamare così: 
l’architrave del mondo!

Vicenza, 8 Marzo 2024

Salvatore Shōgaku Sottile



¹ Il così com’è di ogni cosa. I fiori fioriscono così come fioriscono (Dōgen).
² Con-formarsi, formarsi insieme a, aderire a questa forma.
³ Vedere il teisho Hermês.

Hermês

Enthusiasmós e zazen [1]. Ora, prendo slancio da quell’enthusiasmós e da quel dio dentro di sé, e gioco con voi.

Perciò domando: tra gli dèi della classicità greca quale s’adatta meglio al nostro essere viandanti della grande Via?

Io non ho dubbi: è Hermês! Hermês dalle ali lucenti, come recita uno dei suoi epiteti.

Da Wikipedia:

Ermes, Hermes o Ermete, (in greco antico: Ἑρμῆς Hermês), è una divinità della mitologia e delle religioni dell’antica Grecia. Il suo ruolo principale è quello di messaggero degli dèi. È inoltre il dio dei commerci, dei viaggi, dei confini, dei ladri, dell'eloquenza e delle discipline atletiche. Svolge anche la funzione di psicopompo, ovvero di colui che accompagna le anime dei defunti verso l’Ade. Figlio di Zeus e della Pleiade Maia, è uno dei dodici Olimpi. I suoi simboli sono il gallo e la tartaruga, ma è chiaramente riconoscibile anche per il borsellino, i sandali e cappello alati e il bastone da messaggero, il caduceo.
Per gli antichi Greci, infatti, in Ermes si incarnava principalmente lo spirito del passaggio e dell'attraversamento: ritenevano che il dio si manifestasse in qualsiasi tipo di scambio, trasferimento, violazione, superamento, mutamento, transito, tutti concetti che rimandano in qualche modo a un passaggio da un luogo, o da uno stato, all'altro. Questo spiega il suo essere messo in relazione con i cambiamenti della sorte dell'uomo, con lo scambio di beni, con i colloqui e lo scambio di informazioni consueti nel commercio nonché, ovviamente, con il passaggio dalla vita a ciò che viene dopo di essa.


Ed è qui il punto. Perché, mi son sempre chiesto, arrivare a porre una divinità per gli incroci di strade? Cos’è un incrocio? Ecco cos’è: in samsara-eppure-nirvana di cui ci ha parlato Nishitani [2] è, esattamente, l’eppure! Scandalosamente lasciando di lato, in prima istanza, i poderosi samsara-nirvana noi viviamo quell’arte che è indicata dall’eppure. Ed Hermês dell’arte della mescolanza s’intende!

A volte, tutto questo lo indichiamo dicendo: la spada di Manjusri! E, di nuovo, il filo della lama quale discrimine non per separare ma per includere. Così, nella nostra pratica, non diciamo mai vita-o-morte, ma vita-e-morte! [3] Tanto da disinnescare una volta per tutte ogni dualità.

Poi, e mi piace da morire, Hermês ama i mercati, le greggi e i pastori, tutto quanto è vita nel mondo, tanto da farmi ricordare dove si ritrova l’uomo risvegliato del Ch’an nell’ultimo quadro del Toro [4]. Dove si ritrova? In un monastero? In una cella da eremita? A casa sua? Ma và… Si ritrova in un mercato!

Poi… Poi che Hermês ami i ladri è un colpo di genio. Inconcepibile. Inspiegabile. Ma d’un immenso profumo di vita aperta e gioiosa, profumo che ancora oggi m’arriva alle narici.

Lo sentite anche voi?

Vicenza, 7 Marzo 2024

 

Salvatore Shōgaku Sottile 


[1] Ne ho parlato in L’arco e la freccia.
[2] Vedere il nostro Keiji Nishitani ovvero sul cavar sangue (di dharma) dalla rapa filosofica. 

[3] E alto-e-basso, santo-e-peccatore, buono-e-cattivo...
[4] Vedere il nostro Le foglie stanno volando via dal mondo. I dieci quadri del Toro. Un’antica storia Ch’an

L'arco e la freccia

Enthusiasmós  [1] e zazen.

Alla fine potremmo anche dirlo così il nostro vivere il dharma nella terra del tramonto…

A partire dal dio dentro di sé, sediamo immobili sopra un cuscino nero, sconosciuti a noi stessi.

Ecco l’arco da cui parte la freccia. Esuberanza gioiosa del dio che (si) dimentica.

Clarice Lispector la dice così: … Dimenticarsi di sé e tuttavia vivere molto intensamente...[2]

Questo è il punto.



Vicenza, 6 Marzo 2024
Salvatore Shōgaku Sottile

[1] Έv (in) theós (dio) e ousía (essenza). Con un dio dentro di sé.
[2] Clarice Lispector, Un soffio di vita, Adelphi 2019, pag. 17

Il Lonfo in zazen

Un giorno ti svegli e da un altro mondo è arrivato un dono… Si tratta di un testo di Fosco Maraini, Il Lonfo  [1], reso nell’interpretazione di padre e figlia [2] che mi ha scatenato inarrestabili lacrime di gioia nonché una profonda riflessione sulla nostra Via.

Il punto è cos’è il senso, chi lo dirige e che ripercussioni ha; il tutto specchiato nella nostra tradizione Ch’an e perciò nella nostra pratica e vita.

E torniamo... (giacché noi torniamo sempre allo stesso punto, all’adesso del kairós, il tempo opportuno che, sempre, è questo tempo…) torniamo a quanto abbiamo discusso recentemente. [3]

Platone… un esempio nefasto per la storia della filosofia, poiché ne condiziona l’intero sviluppo occidentale. È lui a strappare l’uomo alla molteplicità degli orizzonti possibili, imponendogli il tributo al logos e paralizzandone la creatività. [4]

Ma anche:

Aristotele soffoca l’areté, - cioè l’esaltazione d’un sapere pratico, aperto al mondo e alla vita - sottolineata dalla filosofia e dall’epica precedente, per porre in primo piano la ragione, la logica e la conoscenza. In tal modo “l’areté è morta e la scienza, la logica, e l’università come la conosciamo oggi, ricevono il loro atto costitutivo e la loro missione… È la nascita del sistema. [5]

E ora…

Non sto affermando il privo di senso, né l’ostile al senso: dico nonsense per sottolineare che le cose sono estranee al principio di non contraddizione. Il nonsense è il momento del nudo… “Tutto è lì”: il motto del nudo… Le parole del nudo sono costellate dal silenzio… I fatti avvengono… [6]

Io sento aria di famiglia. Non succede così anche a voi? Immanenza, silenzio, il mondo avviene. E la meraviglia è che, preso un tale passo ed un siffatto orientamento, quel che nasce è gioia contagiosa, effervescenza per cui se guardi il cielo, naturalmente ti inchini, se tocchi un albero, si trema… Le paratie cedono... Attenti. Il Lonfo s’avvicina...

Il nonsense si coglie sospendendo i nostri abituali punti di riferimento… è come un tramonto sul lago, uno stormo di anatre nei cieli. Per cogliere questi eventi, anziché “comprensione”, si dovrà parlare di “intuizione”, di apertura alla non significanza. [7]

Anche perché, senza quella sospensione chi potrebbe mai sedere silenziosi in zazen?

La domanda implica la ricerca del senso. Appena si apre bocca, si è lontani… Ogni risposta è già nella domanda… Ponendo la domanda, sbagliamo; non ponendola, sbagliamo… L’azione del domandare e del rispondere si compie senza saperlo. Si tratta di una consapevolezza inconsapevole. [8]

L’unica consapevolezza che contempli, come sapete.

Ma c’è ancora qualcosa che vorrei proporvi. Si tratta di temi molto presenti all’interno della nostra piccola comunità che non sarà male rimettere al centro.

Nella psicoterapia… il paziente si libera proprio quando s’accorge che le sue preoccupazioni erano infondate, irreali, e i suoi problemi illusori e inesistenti… È una
situazione straordinariamente affine a quella del discepolo Zen. Questi cerca di liberarsi dei propri desideri… Chiede dunque al maestro la via da seguire… “Che bisogno c’è di liberarsene?” - risponde il maestro, facendo capire che il problema è inconsistente; finché si crede al circolo ‘enigma(‘problema’)/’soluzione’ si è ancora lontani dall’illuminazione. Finché si crede a questo circolo, si pensa ancora, erroneamente, che esista un ‘io’ da salvaguardare, poiché il problema può esistere soltanto per un ‘io’ corrispondente. Quando però questo ‘io’… si rivela nudo, nessun problema può più essergli correlato, e si può tirare un respiro di sollievo… Da questo punto di vista seguo Alan Watts, che mi fece capire chiaramente come la nevrosi non dipenda dall’indebolimento dell’io, bensì… da un ‘io’ eccessivamente forte...
[9]

Senza aver visto e realizzato tutto ciò, Buddha latita, l’Aperto non si apre e la gioia del risveglio avvizzisce.

Pure…

Il Lonfo non vaterca né glutisce
e molto raramente barigatta...


Vicenza, 28 Febbraio 2024


Salvatore Shōgaku Sottile



 
1 https://www.labottegadelbarbieri.org/fosco-maraini-il-lonfo/
2 https://youtu.be/WJxb1y5FEXk?si=R7BtPbj_5qAHfc8E
3 Si tratta dei teisho Zen d’Occidente e I corpi, ovvero i giardinieri dello Zen.
4 Leonardo Vittorio Arena, Sul nudo, Mimesis 2015, pagg.12-13.
5 Leonardo Vittorio Arena, Del nonsense, QuattroVenti, Urbino, 2000, pag.27, nota 29. 
6 Leonardo Vittorio Arena, op. cit., pagg.14-15.
7 Leonardo Vittorio Arena, op. cit.pag. 28.
8 Leonardo Vittorio Arena, op. cit. pag. 32.
9 Leonardo Vittorio Arena, Del nonsense, op. cit.., pagg.42-43.



I corpi, ovvero
i giardinieri dello Zen


Quindi qualcosa di nuovo sta avvenendo… ¹

Questo nuovo Galimberti lo riassume così:

Inoltre al posto del “primato   dell’uomo”, che a piacimento e senza  limiti  dispone  della  natura,  l’etica del  viandante  propone  il  “primato  della  vita”  che  può continuare solo  se  l’uomo  rinuncia  al  suo  primato  su tutti i viventi e, dopo aver scoperto il suo indissolubile legame  con  tutti  gli  elementi  della  natura,  si  pone  a difesa dei diritti della terra. ²


Riprendo,   concludendo   qui,   quanto   già   trattato   nel precedente Zen d’Occidente. Ebbene, si dirà, che nuovo è  mai  questo  che  noi  da  sempre  viviamo  chiamandolo Buddhismo, Zen, nel caso specifico interdipendenza?

Ma non per noi è questo nuovo, ma per quell’Occidente a   cui   parla   la   riflessione   di   Galimberti.   Questo Occidente oggi ultimativamente chiamato ad un cambio di  paradigma,  pena  la  sua  eclissi;  ma  che  è  anche, d’inverso  -  proprio  in  e  per  quel  paradigma  atteso  e necessario  -,  quanto  permette  alla  grande  Via  che  noi percorriamo  di  risultare  un  innesto  riuscito.   ³   Zen d’Occidente,   appunto.   Come   profetizzammo   più   di trent’anni fa.

Il nostro orizzonte:

Samsāra  è  veramente  samsāra  come  samsāra-eppure- nirvāna;  samsāra  non  è  samsāra,  quindi  è  samsāra… Samsāra-eppure-nirvāna  è  il  vero  samsāra  e  il  vero nirvāna, il vero tempo e la vera eternità… Non sarebbe vita insieme veramente eterna  e veramente temporale...⁴

E   adesso   ascoltate   Galimberti   che,   nel   prefigurare l’orizzonte  del  suo  viandante,  il  paradigma  atteso  e necessario,  chiama  a  parlare  i  Guaraní,  antica  tribù della foresta uruguaiana, dicendo così:

La  via  indicata  dai  Guaraní  non  separa  l’umano  dal divino…Tra  l’escludenza dell’Uno  e  la  proliferazione indifferenziata dei significati, la via indicata dai Guaraní è la via del "duplice”… “dell’uno e dell’altro insieme”…5 

 
Cosa è accaduto? Di che cataclisma si tratta?

Ragione prima dell’attuale krisis (che però ha dato vita all’etica del viandante nonché allo scenario su cui Galimberti fa calare definitivamente il sipario) è questo pensiero:

L’anima  è  in  sommo  grado  simile  a  ciò  che  è  divino, immortale, intellegibile,
indissolubile, e sempre identico a  se  medesimo,  mentre  il  corpo  è  in  sommo  grado simile   a   ciò   che   è   umano,   mortale,   multiforme, inintelligibile, dissolubile e mai identico a se medesimo.
⁶ 
E  questo,  si  badi  bene,  prima  che  il  Cristianesimo  - sostituendo  conoscenza  con 
salvezza  -  si  appropriasse dell’anima platonica.

Scrive Galimberti:

Da allora in  poi, all’insegna  di  questo  monoteismo espresso  dell’idea (che  confligge  con il  politeismo con cui le cose sensibili si presentano)… pluralità,  molteplicità e differenze sono state… rimosse...⁷

Resta intatta, per fortuna, l’origine:

Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo. ⁸
Una e la stessa è la via che sale e la via che scende. ⁹

Ecco, allora, magnificenti i corpi! Ecco, allora, la nostra pratica che non traffica con l’Idea - il Buddhismo? - ma resta prossima alla realizzazione delle molteplicità e delle differenze. E perciò dei corpi.

Non ci interessa l’Albero, ma le miriadi degli alberi coi loro profumi, forme, colori. E perciò il risveglio, per noi, non è distesa uniforme che annulla i corpi, le differenze, quanto esaltazione di queste poiché piena incarnazione del  così-com’è.  Questo  albero. Questa donna. Questa vita. Proprio ed esattamente queste.

Non  crediate  che  questo  diverga  dall’insegnamento  di Dōgen  Zenji.  Di  più,  è  la  sua  linfa  segreta  giacché allorché cade corpo-mente - shin jin datsu raku - quanto si  realizza  è  il  dimenticare  la  scorza  (il  nome,  l’ego,  il me)   per   ritrovare,   ritornare   (senza   che   nessuno-lo- sappia) all’adesso realizzato di questo!

Di cosa pensavate mai parlasse il nostro Patriarca?

E torna kairós! Potente torna il nostro peculiare modo di   procedere   sulla   grande   Via. Non leggi   astratte, precetti buoni per tutte le occasioni, formule  valide una volta  per  tutte  lontane  dal  delicato,  intimo  e  gioioso tessuto del  vivente, ma questo-che-c’è, adesso, questo a cui solo corrispondo.

Un monaco chiese a Ts’ui-wei  quale fosse il significato del buddhismo.

Rispose  Ts’ui-wei:  “Aspetta  che  non  ci  sia  nessuno vicino e te lo dirò”.

Qualche tempo dopo il monaco tornò da Ts’ui-wei e gli disse:    “Adesso    non    c’è    nessuno.   Ti    prego    di rispondermi”.

Ts’ui-wei   lo   condusse   in   giardino   e   andò   fino   al boschetto di bambù, senza parlare. Siccome il monaco continuava a non capire, alla fine Ts’ui-wei disse: “Qui c’è un bambù alto; lì ce n’è uno corto!”

Vicenza, 24 Febbraio 2024

Salvatore Shōgaku Sottile


 

¹ Umberto Galimberti, L’etica del viandante, Feltrinelli 2023, pag. 373
² Umberto Galimberti, op. cit., pag. 375
³ Ora, a questo fiore che si voglia farlo attecchire nel nostro giardino, pur essendo quello che  la  propria  linea  di  tradizione  l’ha  fatto,  interessa  poco  sapere  quanto  -  su  quelle determinate  montagne  o  splendide  valli  -  era  rigoglioso;  o  il  kosmos  rappresentato  dal nostro giardino realizza tutte le condizioni necessarie a quella esistenza, oppure il nostro fiore dovrà modificarsi per non morire. Si chiama incubazione; si chiama attecchimento; si chiama infine, dar vita ai morti. Si tratta di  Kosmoszen, il nostro manifesto d'intenti del 1997, reperibile sul nostro sito.

⁴ Keiji Nishitani, La religione e il nulla, Città Nuova 2004, pag. 230/231
⁵ Umberto Galimberti, L’etica del viandante, Feltrinelli 2023, pag. 389
⁶ Platone, Fedone, 80b.
⁷ Umberto Galimberti, op. cit, pag. 395/396 

⁸ Eraclito, I frammenti, Traduzione di Franco Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano, 1989, pag. 39
⁹ Eraclito, I frammenti, op. cit., pag. 45 



Zen d’Occidente

Mentre mi trovavo in Sicilia qualcuna di voi mi ha suggerito l’ultimo libro di Umberto Galimberti. [1] Ho accettato l’incontro e quel che ho trovato è la conferma alla scommessa e l’ipotesi per le quali - oramai più di trent’anni fa - è nato il nostro Centro di pratica. Zen D'Occidente! Si tratta di una constatazione e di una soddisfazione. Avevamo visto giusto.

È un passaggio storico che spero tanto avvertiate. Non tanto per la novità del tema, quanto per la sua radicale definizione. Per questo oggi vi chiamo attorno al fuoco di quanti (come appunto Galimberti, proveniente dalla riflessione filosofica che sgorga dal pensiero di Emanuele Severino) oggi non possono che proferire un commiato…

L’età della tecnica ha posto fine sia all’incanto del mondo tipico dell’antichità, sia al suo disincanto tipico della modernità, perché sia l’una che l’altra ancora esprimevano i tratti dell’uomo che agiva in vista di scopi inscritti in un orizzonte di senso… L’età della tecnica ha abolito questo scenario “umanistico”, e le domande di senso che sorgono restano inevase, non perché la tecnica non è ancora abbastanza perfezionata, ma perché non rientrano nel suo programma trovare risposte a simili domande. La tecnica, infatti, non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona...[2]

Se questo è l’amaro e definitivo commiato, cosa resta?

Una sorta di “etica del viandante” che, non disponendo di mappe, affronta le difficoltà del percorso a seconda di come di volta in volta esse si presentano e con i mezzi al momento a sua disposizione… Per quanto drammatica possa sembrare la scelta, non dimentichiamo che la “decisione etica” è una decisione che fonda, senza possedere altro fondamento al di fuori di sé. In questo senso è evento assoluto e quindi realtà tragica. Non è l’assoluto pacificato dall’idea, ma l’assoluto della scelta degli eventi che si presentano. [3]

Affrancarsi dalla meta significa abbandonarsi alla corrente della vita, non più spettatori, ma naviganti e, in qualche caso, come l’Ulisse dantesco, naufraghi. A differenza del viaggiatore… il viandante sa che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale e che ogni progetto che tenta la comprensione e l’abbraccio totale è follia. Nietzsche, che del nomadismo è forse il migliore interprete, così scrive: “Se in me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora scoperte… il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo: orsù! coraggio! vecchio cuore!”


 L’appello al cuore dice che siamo oltre i territori presieduti dal nostro Io, ma questa ulteriorità dice cose più profonde di quanto non lasci pensare l’impiego di una terminologia psicologica. Per il nostro Io vivere significa aderire a un senso, anzi “conferire senso”. Per il viandante significa cancellare ogni meta e quindi ogni visualizzazione del mondo a partire da un senso ultimo.
[4]

Il quadro che va formandosi ci è familiare. Gli ultimi passaggi di Galimberti che proporrò lo confermeranno.

Non si legga quindi il nomadismo del viandante come anarchica erranza. Il nomadismo è la delusione dei forti che rifiutano il gioco fittizio delle illusioni evocate come sfondo protettivo. È la capacità di disertare le prospettive escatologiche per abitare il mondo nella causalità della sua innocenza non pregiudicata da alcuna anticipazione di senso, e dove è l’accadimento stesso, l’accadimento non inscritto nelle prospettive del senso finale, della meta o del progetto, a porgere il suo senso provvisorio e perituro come provvisoria e peritura è la vita.

Se siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate convinzioni, quando il radicamento non ha altra profondità che non sia quella della vecchia abitudine, allora il nomadismo del viandante ci offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza, perché desitua, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare le nostre costruzioni, perché l’apertura che chiede sfiora l’abisso dove non c’è nulla di rassicurante, ma dove è anche scongiurata la monotonia della ripetizione, dell’andare e riandare sulla stessa strada, con i soliti compagni di viaggio, senza nessuno da incontrare. [5]

Resta ancora un passo. Un passo, si badi bene, che non faremo poiché serva una conferma esterna al nostro vivere e praticare la grande Via. Noi non abbiamo avuto dubbi quando abbiamo cominciato a sedere. Ritornare al silenzio di corpo-mente-cuore senza aggiungere nulla ci è da subito apparso il miglior modo di rigettare quella espressione del dominio di una “volontà”: la volontà di Dio…[6], stazione di partenza a partire dalla quale oggi Galimberti può proclamare la sua etica del viandante [7].

Questo è il passo: Nella tradizione il termine “trascendenza” ha un senso escatologico, e quindi religioso, che il viandante non ospita. La sua trascendenza, infatti, è, come ribadisce Jaspers, all’interno dell’immanenza…, e ciò significa proiettarsi non in “nuovi cieli e in nuove terre”, ma qui su questa Terra che è l’unica che il viandante percorre, perché è l’unica concessa all’uomo. [8]

Dove quel che ci interessa è il richiamo all’immanenza:
Ora, questo campo della vacuità può aprirsi nel sé quando il sé è veramente nella sua terra natia. Questo campo sta nella terra natia del sé. È proprio sotto i suoi piedi, direttamente a portata di mano. Il radicamento della possibilità del mondo e dell’esistenza delle cose,
ossia il luogo in cui si fondano il mondo e l’esistenza delle cose, si può dire che stia nella terra natia di ciascun uomo, sotto i suoi piedi e a portata di mano.
[9]

Giunti qui resta un dubbio. C’è qualcosa che viene lasciato sullo sfondo, qualcosa intravisto allorché l’etica del viandante vien detta drammatica. Chiediamo: che
abitare è questo abitare il mondo nella causalità della sua innocenza? Meglio: che carattere ha questa causalità e questa innocenza?

L’abitare il mondo, per noi, ha il carattere dell’Aperto, dove ogni cosa è se stessa pur scivolando dolcemente
nell’interdipendenza con tutte le altre, nessuna esclusa, da cui il primigenio ecologismo di questo abitare.

Nella misura in cui l’essere del sé è presente nella terra natia di tutte le cose, il sé non è il sé… Questa è la consapevolezza sorgiva. [10]

In questo andare, in questo stare, in questa consapevolezza sorgiva non c’è spazio per alcuna rappresentazione drammatica. Giocare gioiosamente in
questo samadhi
, come dice Dōgen Zenji. Forse è qui che abbandoniamo la riflessione di Galimberti, peraltro fruttuosa e coraggiosa.

A questo punto possiamo affiancare ogni viandante, pur se con il nostro carattere: andiamo a mani vuote per la grande Via nella terra di sunyata, la santa vacuità,
nell’adesso con spirito mushotoku. [11]

Una cosa è certa: Buddha non ha più gli occhi a mandorla!

Vicenza, 17 Febbraio 2024 

Salvatore Shōgaku Sottile


[1] Umberto Galimberti, L’etica del viandante, Feltrinelli 2023
[2] Umberto Galimberti, op. cit. pagg.27-28

[3] Umberto Galimberti, op. cit. pag.38 
[4] Umberto Galimberti, op. cit. pagg.41-42  

[5] Umberto Galimberti, op. cit. pagg.42-43
[6] Umberto Galimberti, op. cit. pag.331
[7] All’ordine “cosmologico”… quale era stato concepito dalla cultura greca, la cultura giudaico-cristiana sostituisce un ordine “antropocentrico”, in cui la natura è risolta in puro materiale da utilizzare… Umberto Galimberti, op. cit. pag.333 Si veda Genesi, 1, 26
[8]  Umberto Galimberti, op. cit. pagg.55-56
[9] Keiji Nishitani, La religione e il nulla, Città Nuova 2004, pag. 207
[10] Keiji Nishitani, La religione e il nulla, Città Nuova 2004, pag. 206
[1]1 Mushotoku: senza scopo né spirito di profitto.



 Mancare il punto

Quello che, a volte, succede nel sangha mi tocca tanto da attraversarmi da parte a parte, come la lama di una spada. Quanta inutile sofferenza (che inutile certo non è). [1]

Del resto, non è una novità. In questi anni mi avete spesso sentito dire: il nostro è un camminare fra i rovi. Così può accadere che ci sia chi si ferisca significativamente.

Dal mondo della cecità (per ragioni impossibili da comprendere senza misticheggiare) a volte capita di ritrovarsi in un sangha. E all’inizio ci esaltiamo. Tutto ci sembra perfetto. Si profila un altro mondo... Un altro modo...

Ma il mondo di prima non è scomparso poiché ne siamo impregnati come una spugna nell’acqua. Così, senza saperlo, senza volerlo, senza vederlo cominciamo a riprodurre sofferenza. 

La maniera più comune di farlo è quella di caricare sulla figura del maestro [2] aspettative e desideri. Il maestro dovrà sciogliere i nodi che mi legano, altrimenti non è un maestro. È così che pensiamo. Non sapendo ancora che il compito più importante del maestro è sottrarsi.

So bene quanto questo provochi sconcerto e resistenze. È talmente controintuitivo da sembrare pura cattiveria. Ma come, io affogo e tu ti sottrai? 

Accade così perché quanto in questa fase il discepolo trasferisce sul maestro è la sua illusione; sostenerla significherebbe rafforzarla, producendo - stavolta sì - un comportamento inaccettabile. A veleno s’aggiungerebbe veleno. Con l’aggravante d’aver dato fondamento alla dipendenza dell’uno verso l’altro. 

Non è questo… Non è così che pratichiamo. Liberi, ricordate? Felici, ricordate? Forti e quieti, ricordate? Vasti...

Anche perché sottrarsi non è non esserci. Sottrarsi non confligge con quanto ripetuto altrove (questa estate, per esempio, ho detto così: allorché siete in difficoltà, incontrare il maestro), giacché incontrare alla nostra maniera è trovare uno specchio che rimanda al mittente  l’illusione prodotta. E perciò è, nuovamente, sottrarsi.

Altrimenti, come mostrare la mente illusa che parla di amore laddove c’è soltanto attaccamento? Sottrarsi, infine e significativamente, è stimolare la ricerca di quel punto raggiunto il quale lo spirito (di maestro e discepolo) non è più diviso. E questa non divisione è quanto di meglio possa auspicare il discepolo. Solo qui, difatti, accade il riconoscimento che non c’è mai stato alcun discepolo né maestro, ma solo vita risvegliata che fermenta. Ecco l’amore!

Far mancare la presa… Se dapprincipio v’è un totale disequilibrio, può però essere uno choc provvidenziale. Da qui in avanti il discepolo potrà rimodulare completamente le sue aspettative nei confronti della pratica. E sarà, forse per la prima volta, compresa e realizzata la nostra fortunata sentenza: Come alberi stiamo in piedi da soli, e come alberi godiamo di essere foresta! [3] 

In tutto questo, ferite e gioie, il maestro osserva in silenzio augurandosi che nel traghettamento non vi facciate troppo male. Tifa per voi, ma resiste alla tentazione di abbracciarvi fino a che non sarete al sicuro. E quando, infine, lo sarete, l’abbraccio non sarà più necessario poiché è già avvenuto in segreto, in silenzio, nell’abbraccio di entrambi - maestro e discepolo - per Buddha. 

Infine - e a meno che frattanto il rancore e l’incomprensione non abbiano avuto il sopravvento - sarà una nuova vita e una nuova pratica.

In questa fase, vi prego, è essenziale aver chiaro che il drago che vi ha atterrato e lo stesso che vi porta oltre, laddove non c’è più conflitto.

Altrimenti… Altrimenti si abbandona. Non c’è da disperare. Si è semplicemente mancato il punto. E, necessariamente, prima o poi, occorrerà ripartire proprio da lì.

Vicenza, 27 Gennaio 2024

Salvatore Shōgaku Sottile


 

[1] E qui bisognerebbe ricominciare daccapo. Interrogando la necessità di quella sofferenza. È questo il limite strutturale ed ineludibile dello scrivere. Si perdono le sfumature. Sfumature che, molto spesso, sono essenziali.
[2] E, anche qui, sul nesso maestro-discepolo, quanto imbarazzo. Il fatto è che l’orizzonte è troppo vasto per essere contenuto in qualche riga. Ne ho parlato spesso. Nel caso specifico valga Il maestro invisibile, rinvenibile anche sul sito alla home. 
[3] Andate a guardarvi la home del nostro sito web. 


A proposito di volontà di potenza

Oggi  mi  sono  imbattuto  in  questo  articolo:  Nel  sesso serve intelligenza. Artificiale. ¹ Si tratta di un sito web dove l’IA  risponde   ad   ogni   quesito   erotico   senza censure…

A  rendere  il  tutto  estremamente  comico,  la  sex  coach tedesca Mariah Freya ne racconta così la genesi: offrire strumenti per migliorare il benessere sessuale… fisico, mentale, emotivo e sociale.

Ora, il motivo per cui ne parlo è un buon motivo anche per noi. Dacché quel che la signora Mariah dice è che offre strumenti; ovverosia offre una  tecnica. Ma anche quanti, ormai sparsi in ogniddove per l’orbe terracqueo, si   affannano per questo e  per   quello   offrono   una tecnica;  addirittura  ho  il  sospetto  che  anche  qualche insegnante Zen stia offrendo zazen come una tecnica… Vale  a  dire,  insomma,  una  procedura  per  la  quale  e attuata   la quale, presumibilmente   e   verosimilmente dovrebbero ottenersi certi risultati. Risultati che - ops! - ci   farebbero   diventare   altro   da   come   pensiamo   di essere.

È una storia antica. Addirittura delle origini di quanto si chiama civiltà occidentale. Cioè di noi.

Il  variare  del  mondo  è  sin  da  principio  interpretato come appunto un “diventar altro” non soltanto da parte della creta che diventa brocca, ma anche da parte del cielo,  degli  uomini,  dei mortali,  dei  divini,  della  terra: tutto è un “diventar altro”. ²

Ribaltando allegramente il tavolo, com’è nostro uso, noi ci ostiniamo a vivere all’incontrario.

Né  una  volta  era,  né  sarà,  perché  è  ora  insieme  tutto quanto.  Dōgen?  no.  Parmenide  nel  suo  Poema  sulla natura.

Da qui in avanti la strada è in discesa per raggiungere il fondamento  malato,  putrescente    e  oramai  del  tutto inavvertito - putrescente proprio perché inavvertito - di questo profluvio pensare a strumenti e tecniche.

Per mondo si intende infatti ciò che, diventando altro, può essere in qualche modo dominato e, per dominare qualcosa,  è  necessario  che  non  sia  un  monolite:  è necessario  che  sia  franto, che  sia spezzato,  che  sia diviso… Solo la parte  è  dominabile. Quest’atteggiamento che vede la condizione del mondo nella frantumazione,  nello squartamento del  dio,  è  in consonanza  con  la  volontà  di  potenza  che  definisce l’uomo, che definisce  il  mortale:  per  essere  potenti bisogna  aver  che  fare  con  parti  separate 
le  une  delle altre. ³


Eccola    la    ragione    profonda    di esistenza    delle innumerevoli  signora  Mariah  Freya.  Ed  ecco,  anche,  il fiume    carsico dell’Occidente: la dominazione, la
potenza. ⁴

Esattamente  a  questo  voltiamo  le  spalle  ogniqualvolta non  chiediamo  alcunché  alla  nostra  vita-pratica  nel dharma;  questa  la  nostra  forza  tranquilla che  abita  il tutto   indiviso; questa la pace. Non   c’è   parte   da rincollare  a  parte.  Non c’è  l’angoscia  del  tempo, che diverrebbe necessario nel diventar-altro ⁵. Non c’è più il demone poiché convertito ⁶.

Questo   fare,   che   forse   è   meglio   dire   non-fare,   è, esattamente,  vita  e  opera  di  Dōgen.  Partire  dal  tutto- che-vive.  E,  piuttosto  che  restare  a  contemplare  la singola tessera del mosaico, muovetevi dal  mosaico intero. Lì, da lì, qui, qualunque cosa operiate, qualunque pratica pratichiate, avrà sempre riflessi a cascata sul tutto, senza toccare niente. Senza cambiare niente. È per questo che il nostro sedere - zazen - non chiede  niente;  il  mosaico  sa  cosa  fare,  mosaico  che,  a volte, chiamiamo Buddha.

È così perché quel tutto-che-tiene è un tutto, appunto, e non  schegge  impazzite  che  vagano  solitarie.  Così,  se soffrite  d’insonnia  o  se  i  demoni  amano  farvi  visita, affidatevi al quadro d’insieme, a Buddha, abbandonando ogni   specificità.   Così,  senza saperlo, ogni cosa è abbandonata alla rete che tiene, rete che,  sola,  può intervenire sulle sconnessure
del mosaico.

Non credetemi sulla parola e, vi prego, fate   un esperimento con me.   
Affidatevi   al   respiro.   Adesso, abitate  il  respiro.  Non  come  -  ancora  una  volta  - 
una tecnica. Siate vasti. Esperite da voi stessi. Lentamente. Chiudete  gli  occhi.  Inspirate.  Espirate.  Non  c’è  fretta. Espirate.  Inspirate.  La  mente  tace!  È  quanto  attesta inspiro-espiro:  che  questo inspiro,  questo  espiro,    è tutto-quello-che-c’è, e che non c’è altro, che non c’è un oltre. E quando non verrà più un nuovo inspiro, anche allora, questo sarà
tutto-quello-che-c’è. ⁷

L’ignoranza  originaria  da  cui  parte  Śākyamuni  è  tutta qui: non vedere come l’idea del diventar-altro (e perciò il tempo, il sogno, il sì ed il no, illusione/illuminazione) sia   il   gioco   della   mente   illusa   che,   costantemente delirando,  così  produce  dukka,  l’universale  sofferenza, l’universale attaccamento...

La diagnosi  di  partenza  è  perciò  sempre  la stessa: Il dolore che rende folli dev’essere  cacciato  dalla  mente con verità. ⁸
Śākyamuni? No, Eschilo! 

Vicenza, 23 Gennaio 2024

Salvatore Shōgaku Sottile


 ¹ Il Venerdì di Repubblica del 19 Gennaio 2024, pag. 66
² Emanuele Severino, Volontà, destino, linguaggio, Rosenberg & Sellier, 2010, pagg. 15-16

³ Emanuele Severino, Volontà, destino, linguaggio, Rosenberg & Sellier, 2010, pag. 16
⁴ E qui, per quanto scurrile, un detto siciliano: cummannare è megghiu che futtere.
La legna diventa cenere e non torna ad essere legna. Ciononostante non si deve pensare che la cenere sia il dopo e la legna il prima. O anche: Il pesce nuota nell’acqua, e se nuota non c’è limite  all’acqua; l’uccello vola nel cielo, e per quanto voli non c’è limite al cielo… Rinvenibile nel nostro A mani vuote, Conversazioni sullo Shōbōghenzō Genjōkōan di Dōgen Zenji, 2015.
⁶ Essendo il demone esattamente la parte, nel tutto-che-vive non ce la fa a sopravvivere. 

Quando c’è vita, è tutto vita. Quando c’è morte, è tutto morte. Dōgen.
⁸ Eschilo. Agamennone, Inno a Zeus 



Itaca

Martedì scorso, alla fine della pratica vi ho letto una poesia di Kavafis, Itaca, che troverete in fondo a queste righe. Racconta molto della nostra pratica. Racconta addirittura l’essenziale.

Il viaggio è quel che conta, certo, come poeticamente argomenta Kavafis; ma si tratta di un viaggio, si tratta di una vita, ai quali non manca e non è mai mancato niente. Neppure Itaca.

Torna Il primo passo è anche l’ultimo (Krisnamurti) e tornano quei moniti consueti nel nostro andare per la grande Via: Non muovetevi! Mente immobile! Natura di Buddha!

 È qui l’essenziale: deposto il demone del progetto, vien subito meno la dislocazione temporale che le sarebbe stata necessaria. E se è così, se accade questo, tutto è qui. Fine d’ogni alterità. Dualità, bye bye!

Non so se lo vedete. Ma se Itaca - o Buddha - abita il nostro cuore in origine come è naturale che sia, il viaggio/vita non potrà che essere uno svelamento piuttosto che un’acquisizione. Eccola la mente che mente (Osho). Ecco la pratica!

A questo punto, qualunque sia il nostro viaggio, comunque si snodi la nostra vita, non ci sarà mai guadagno né perdita, poiché tutto quello che ci serviva, l’essenziale appunto, non lo abbiamo trovato in un altrove né può essere perduto. Ecco la pace!

Se, difatti, veramente tutto è qui, non sarà più possibile discriminare o scegliere. Ed ecco che la cosiddetta vita ordinaria si fa santa. Risveglio. Lavarsi la faccia al mattino o sedere in zazen vivranno della medesima potenza, poiché manifestanti, sia l’uno che l’altro, il tutto che è qui!

Se questo tutto che è qui! - il tutto che vive - è veramente tutto, non vi sarà alcun bordo oltre il quale affacciarsi in cerca di altro. E se è così, se veramente è così, tutto quello che c’è, qui, è inspiro ed espiro. Ad ogni inspiro ed espiro tutto il tempo, tutte le esistenze, tutta la vita, tutta la morte, pulsano presenti. Adesso! Ecco l’Aperto!

Non si può fuggire. Giacché il me neanche onestamente desiderandolo [1] potrebbe esperire cos’è il tutto che è qui! Si tratta, allora, come è, di un cambio di paradigma. Sediamo. Questo è il cambio di paradigma! Sediamo una vita in zazen per niente proprio perché questo così avviene. E si tratta di una cattiva notizia solo per la mente illusa.

Eccola la rivoluzionaria pratica dello Zen di Dōgen Zenji!

Cosa resta? Non muovetevi

Vicenza, 18 Gennaio 2024 

Salvatore Shōgaku Sottile


 [1] Ed ecco chiarito, si spera una volta per tutte, perché non ci interessa la buona volontà o la brava persona... 

___________________________
ITACA 

Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze. I Lestrigoni e i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere, non sarà questo il genere di incontri se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. In Ciclopi e Lestrigoni, no certo, nè nell’irato Nettuno incapperai se non li porti dentro se l’anima non te li mette contro. 
Devi augurarti che la strada sia lunga. Che i mattini d’estate siano tanti quando nei porti - finalmente e con che gioia - toccherai terra tu per la prima volta: negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambre tutta merce fina, anche profumi penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi, va in molte città egizie impara una quantità di cose dai dotti. Sempre devi avere in mente Itaca - raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo sulla strada: che cos’altro ti aspetti? E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare. 



Alchimia, non conflitto

Nel  cammino  per  la  grande  Via  serve  una  precisa attitudine - si può dire anche postura - senza la quale si fraintende  il  dharma  e  si  corre  dritto  in  bocca  ai demoni.

Ne  abbiamo  parlato  alla  fine  della  pratica  formale, giovedì  scorso,  laddove  ho  riportato vivo  e  presente nello zendo il mio amato maestro di Aikido, Giampietro Savegnago,  sottolineando     quanta     vicinanza     ho riscontrato tra quell’attitudine e postura con le nostre.

Attitudine.  Postura.  Vale  a  dire  come  attraversiamo  il vivere, come attraversiamo, cioè, il  samsāra. In ultima istanza, come ce la caviamo con quel pervicace riflesso condizionato  della  mente  illusa  nel  suo  continuamente proporci  la  dualità.    Questo-quello,  alto-basso,  santo- peccatore, buono-cattivo…

Non che ci sia alcunché di sbagliato nel procedere della mente  illusa;  come  ogni  altro  essere, la  mente  illusa pratica    la    sua    propria    pratica    ¹,    vale    a    dire
continuamente  produrre  illusioni;  purtuttavia,  occorre sapere   come   stare   di   lato,   per  dir   così,   lasciando passare.

Questo stare di lato, essenzialmente è stare prima!

Questa  e-sistenza,  pur  sempre  nel  tempo,  è  sempre all'inizio  del  tempo.  Sebbene  sia  una vita  nata  dai genitori, è tuttavia “prima che i genitori siano nati”… E questo  inizio  si 
svela  proprio  là  dove,  e  nell’attimo  in cui, il corpo-mente cade. ²


Questa   è   l’alchimia.   Sebbene…   tuttavia…   il   corpo- mente  cade.  E  si  potrebbe  anche  finire  qui.  Giacché, qui,  questo,  altro  non  è  che  il  nostro  sedere.  Zazen. Pratica
quotidiana. Vita ordinaria. Laddove accogliamo  tutto,  nell’Aperto  che  siamo  -  il  corpo-mente  cade  -, trasfigurandolo,  passandolo  al  setaccio  del  silenzio  e dell’immobilità di questo corpo-mente caduti!

In  tal  modo  esaurita  la  paura,  cessa  ogni  ragione  di aspettative  e  progetti  che  avrebbero  dovuto  sanare quella paura. Eccoci nella gioia, forti e quieti, a bere il vento sul pianoro. Da ogni parte… Vastità!

questa e-sistenza si distacca dal samsāra proprio nel bel mezzo all’esistenza samsārica. Essa si
tiene lontana dalla sua nascita-morte perché, ad ogni occasione, sta continuamente  all’inizio, 
dove  quel  tempo  viene  alla pienezza del tempo, all’inizio del tempo stesso. ³


Buona alchimia. 


Vicenza, 7 Gennaio 2024

Salvatore Shōgaku Sottile

 

¹ Andate a rileggervi il teisho Una falla nel cosmo del 1 Gennaio scorso
² In Keiji Nishitani ovvero sul cavar sangue (di dharma) dalla rapa filosofica,  nostra nuova pubblicazione, pagg. 54/55 

³  In Keiji Nishitani ovvero sul cavar sangue (di dharma) dal 

la rapa filosofica,  nostra nuova pubblicazione, pag. 55

Una falla nel cosmo 

Dedicato all’ultima principiante del duemilaventitré 


Alla fine… Alla fine anche il mal di gambe pratica zazen. Insieme a tutto il resto.

Ecco, questo mal di gambe e questo insieme sono un buon modo di parlare della nostra pratica in questo primo giorno dell’anno.

Se il mal di gambe non praticasse la sua propria pratica, ci sarebbe una falla nel cosmo e le costellazioni franerebbero. Praticare la propria pratica non è altro che essere se stessi. Così il mal di gambe si esprime semplicemente come pratica del mal di gambe. Tutto qui.

Ma poi arriva l’insieme. Come a dire la luminaria di ogni cosa nel cosmo che pratica esattamente questo, che pratica esattamente così. Pratica esattamente la propria pratica. È semplicemente se stessa.

Sedere in zazen (kekkafuza) è corpo retto, spirito retto, corpo e spirito retto. È il retto Buddha e il retto Patriarca, è la retta pratica del risveglio verificato, è il vertice, è la vita. (Dōgen Zenji)

Ed ecco che si può dire così: L’universo non è altro che un’unica perla brillante!

Se intendiamo in tal modo non tarderemo a capire quel che ripeto da tempo: la nostra pratica/concentrazione non è di tipo immersivo quanto e piuttosto di tipo espansivo. Anche perché, pur praticando la profondità, quel che si incontrerà una volta andati in immersione non sarà altro che il pianoro dell’Aperto! La santa Vacuità! Sunyata!

È quel che succede a partire dalla pratica del mal di gambe (o dei precetti, del respiro, di questo o di quello…)… Praticare veramente se stessi, difatti, non è (solo) praticare se stessi, in quanto la gioia e la pratica del se stessi è aprirsi ad ogni altro se stesso, trattandosi della medesima materia. E, di nuovo, l’insieme, l’Aperto, l’andar oltre ogni recinto o barriera.

Gyātē gyātē. Hārā gyātei. Hārā sō gyātē... Andare al di là, al di là dell’aldilà… Come recita il mantra del nostro amato Sutra del Cuore.

Non qualche possibilità ma tutte le possibilità!

Fedeli, anche in questo, a Bodhidharma ed al Ch’an:

Imperatore Wu: … parlami della sacra dottrina…

Bodhidharma: Niente di sacro. Vastità.

Vicenza, 1 Gennaio 2024 

Salvatore Shōgaku Sottile 



Il drago, ecco...

A Eihei-ji, ogni sera gli spiriti del drago venivano a chiedere i precetti o a supplicare di essere inclusi nelle dediche quotidiane di merito offerte dall’assemblea… [1]

Leggendo così, nella quiete profonda della montagna buia, in un lampo appare tutto chiaro… Tutto chiaro da sempre quel che, da sempre, è la pietra d’inciampo di chi percorre la grande Via: che cos’è e che farne del karma? Come si srotola, nel nostro cammino, la legge di causa-effetto?

Tutti i nostri Patriarchi si sono confrontati con la questione. E Dōgen, rilanciando la non-dualità e la santa Vacuità di Nāgārjuna, ha sostenuto così: … Sin dal principio vita e morte non interferiscono l’una con l’altra. Cattivo comportamento e felicità sono ambedue vuote, senza un luogo dove dimorare. [2]

Visto così, io ora domando: chi sono questi esseri che bussano per chiedere di salvarsi? Il drago, chi è? Dov’è?

E qui è conveniente prendere fiato. Respirate, quieti.

Se il drago, gli esseri a cui il nostro voto ci chiama -salvare tutti gli esseri -, fossero là, nel mondo, fuori di noi, la nostra Via sarebbe un imbroglio. Cosa che non è giacché la nostra, come sapete, è pratica non-duale con tutto-quel-che-c’è. Occorre, perciò, dimenticarsi… Ricordate il nostro Patriarca? Ricordate cosa ci dice?

Inverare le cose mettendo avanti se stesso: questo è l’illusione; partendo dalle cose inverare se stesso: questo è il risveglio…

Studiare la Via del Buddha è studiare se stesso. Studiare se stesso è dimenticare se stesso. Dimenticare se stesso è essere inverato da tutte le cose. Essere inverato da tutte le cose è libertà nell’abbandonare corpo e spirito di se stesso e corpo e spirito altrui. È risveglio che riposa da ogni traccia di se stesso, è risveglio che perpetua il non lasciare traccia di se stesso. [3]


Visto così, io ora domando: chi sono questi esseri che bussano per chiedere di salvarsi? Il drago, chi è? Dov’è?


Ebbene... Noi siamo quegli esseri; noi siamo quel drago; noi chiediamo i precetti o di essere inclusi nelle dediche di merito offerte… Proprio noi che, insieme, siamo l’assemblea che li offre.

Insieme. Insieme offriamo insieme riceviamo. Se non c’è il me/noi, se veramente mi sono dimenticato, offrire e ricevere è un unico gesto, inconosciuto e potente.

Pure, fate attenzione: non è il me che offre e non è il me che riceve. Piuttosto, oceano che gioiosamente spruzza acqua in faccia all’oceano… Ah, che meraviglia!

Riuscite a vedere, riuscite a sentire, il formidabile corto circuito? Riuscite a vedere, riuscite a sentire, il drago che siete e che chiede in voi? Riuscite a vedere, riuscite a sentire, quanto siamo vasti?

In zazen le moltitudini di esistenze che ci abitano si fanno vivide, tra cui - spicchio tra spicchi - , quel che chiamiamo io. Non siamo altro che il terminale senza inizio né fine di spinte, tendenze, sofferenze, gioie a cui è quasi inadeguato dare il nome di moltitudini.

Accade esattamente come quando, di notte, su un pianoro accendete un fuoco. Acceso, non c’è luogo in cui la luce non vada; alto, basso, avanti, indietro… E così è con le esistenze: nell’intero universo non c’è luogo da cui, nell’adesso del nostro lasciar andare corpo e mente - shin jin datsu raku - , le esistenze non si tuffino in quel passaggio offerto dalla mudra delle mani di chi - sconosciuto a se stesso - siede in shikantaza. E lì silenziose chiedono di essere salvate. [4]

Ma senza l’offerta, senza aver messo in campo nella nostra vita - adesso - la possibilità stessa dell’offerta, ovverosia andare quieti e forti per la grande Via, quelle moltitudini sarebbero ora spiriti affamati. Ecco cosa sono gli spiriti affamati, i demoni, ed ecco come si sana ogni ferita. E adesso, solo adesso, capisco perché da anni predico di convertire i propri demoni portandoseli in zazen.

Non è pacifico sentire così. Eppure il boato è fragoroso e la carne trema…

Non c’è niente, là fuori, non c’è niente che non pulsi al ritmo del silenzio del nostro sedere. Illusione e risveglio si conoscono e convivono, mano nella mano [5], nel cammino. Non c’è da averne paura.

Acqua e sabbia. È come filtrare acqua e sabbia. Zazen dopo zazen. Sesshin appresso a sesshin. Giorno per giorno. Acqua e sabbia si conoscono. Acqua e sabbia convivono. E noi filtriamo...

Vicenza, 18 Dicembre 2023

Salvatore Shōgaku Sottile


[1] In Dōgen di Steven Heine, Ubiliber 2023, pag. 171
[2] Raccolta estesa dei discorsi di Dōgen, volume 5, discorso 391
[3] Dōgen, Shoboghenzo Ghenjokoan, nella versione di Divenire l’essere, EDB 1997, pagg. 17/18.
[4] Definitivamente deponete le armi del dualismo. Questa luce non è l’altra faccia dell’oscuro, ma tutto-quel-che-c’è. E tutto-quel-che-c’è è questo, totale e senza sbavi. Avrei potuto parlare dell’oscurità, sul pianoro, e non sarebbe cambiato niente.
[5] Mi sovviene, per la potente bellezza e l’infinita dolcezza, quel che dice Parmenide: … Benigna m’accolse la Dea, con la mano mi prese la mano...


Buon anno al Sangha

Amare il dharma per il dharma
e la vita per la vita.
A prescindere.

Qualcuna di voi ricorderà di aver ricevuto questo monito in occasione della trasmissione del Kesa. Così che, qualora dubitasse, le basterebbe rivoltare la busta e… Rinsavire. Giacché proprio di uscire dalla follia si tratta. La follia della mente illusa che non fa altro che fantasticare.

In quel monito riecheggiano temi sempre attuali per quanti praticano la grande Via, temi che, oggi, come personale augurio per voi in questo tempo che viene, discuterei così.

Non c’è alcun dharma che non sia anche vita o vita che non sia anche dharma, per noi che abbiamo immeritatamente ricevuto il dono di incontrare Buddha, vivendo. E che si dica dharma, che si dica vita, non c’è modo di uscire da qui, nel senso che - se di dharma si tratta - è tutto dharma; e nella vita, tutto vita. Pensare sia possibile starsene alla finestra a guardare è quanto solitamente fa la mente illusa che, difatti, nella vita s’immagina un’altra vita… Da qui la follia…

Ma il punto che importa, la pietra rovente, l’inciampo che salva… Non correte, non date per capito… Vi assicuro che è questione di vita o di morte... L’inciampo che salva è quanto va incontro alla persistente follia e amorevolmente le dice così: a prescindere!

A prescindere dal fatto che quel dharma-vita-Buddha contraccambi, se mai fosse possibile azzardare una scempiaggine del genere; a prescindere dal fatto che sia una vita felice, in salute, rigogliosa. Senza questo, in mancanza di questa composta chiarezza, che renderebbe definitivamente inutile ogni a prescindere,
si sarà sempre sbilanciati e deboli. Sempre sul punto di cadere.

Non vedere come ogni cosa si compia nel cerchio perfetto dell’amare (il dharma per il dharma, l’albero per l’albero, la vita per la vita, il dolore per il dolore…) senza mai uscire da sé, espone a non comprendere perché si pratica la grande Via.

Questo amare, questo amore, non è l’altro dell’odio, non sta perciò nella dualità ma, esattamente, è tutto quel che incontro. Un incontro che abbraccia, non esclude e non rigetta mai nulla. Tutto quel che incontri è la tua vita, mi disse il mio maestro agli esordi dell’addestramento. Fu un cazzotto allo stomaco, che non ho più dimenticato. Perciò, questo amare, questo amore è l’incontro indiviso, non duale, nella contrada della Vastità [1]. E torna l’Aperto! Torna sempre...

Amare in-funzione-di, invece, amare cioè a patto che mi si ami o che la vita proceda senza inciampi e-come-la-voglio-io, è vendere-e-comprare, e perciò purissima dukka, sofferenza. Poiché amare è dono, fuse. A prescindere, appunto.

Attendersi, auspicare, chiedere - così come accade solitamente nel mondo - che il dharma-vita, ovvero Buddha, consapevolmente risponda all’amare è mettere in scena in terra l’inferno, poiché a quel punto si sarà in due, io e il dharma, io e la vita, io e Buddha, e perciò stesso nuovamente e disperatamente persi nel samsara.

Visto così, se vi capita di provare amore per il dharma-vita-Buddha, quel che troverete è che è tutto qui, conchiuso, senza sbavi e senza alcunché che manchi.

Mi azzardo, felicemente imito l’irriverente passo del nostro Patriarca: Non è che sia il dharma, non è che sia la vita, spiegarlo è arduo, addestrarsi no… [2]

Guardate bene. Guardate bene. Nel silenzio, guardate bene. È tutto perfetto in questo amare andata e ritorno; eccolo qui l’amato dharma, eccola qui l’amata vita, eccolo qui l’amato Buddha; e facendo così ecco il miracolo…

Il miracolo…

Il miracolo è che si permette al mondo, al dharma, alla vita, a Buddha - e per ciò stesso a noi stessi - di venire alla luce… Non c’erano, un attimo prima.

Vicenza, 12 Dicembre 2023

Salvatore Shōgaku Sottile



[1] L’imperatore Wū a Bodhidharma: parlami della sacra dottrina. E Bodhidharma: niente di sacro. Vastità!

[2] Riprendo, col sorriso sulle labbra, gli stilemi di Dōgen con i quali ci siamo intrattenuti alla sesshin appena conclusasi: La mente stessa è Buddha. Addestrarsi è arduo spiegarlo no. Non è che sia la mente, non è che sia il Buddha. Spiegarlo è arduo, addestrarsi no. Il tutto rinvenibile nel teisho Patchwork.


Succede così.

Succede così. Succede come a chi, volendo accendere un fuoco, versa acqua sulla catasta.
Succede, è successo a quanti negli ultimi anni hanno lasciato e abbandonato la pratica.
Si tratta dell’ostacolo più insidioso, ma anche del più ovvio e, direi, del più semplice; non riuscire a vedere che è proprio il me la fucina in cui si fabbrica dukka, la sofferenza.
Pure, non è veramente possibile che l’alchimia accada, che si acceda nell’Aperto, portandosi sulle spalle il cadavere di se stessi, il soggetto comunemente inteso, questo bozzolo psicologico-culturale che nasce nell’istante in cui, per la prima volta, magari davanti ad uno specchio e con l’indice puntato verso il riflesso, abbiamo detto: io!
Niente da dire su quel  dire, semplicemente necessario. Non c’è mai, nemmeno per errore,  infantilismo nella nostra pratica. Nessuna nostalgia da paffutelli. La questione è un’altra, ben più corposa, ed è adesso, qui, in questo samadhi. Nascita-morte la chiama Dōgen. Fare decisi il passo, e... E cosa? 
Lasciar cadere il me, abbandonare in qualche vicolo l’ossessione per se stessi, non implica scomparire nel cosmo; sprofondare negli abissi; evaporare in una bolla. Lasciar cadere il me è - semplicemente e nient’altro - vedere l’illusione in quanto illusione, sorridendo. Continueremo ad avere la stessa faccia di prima e, magari e purtroppo, il medesimo pessimo carattere; ma non crederemo più alla narrazione di noi stessi a noi stessi.
Fatto così, si aprirà un’altra vita pur non essendoci mai mossi da qui, un orizzonte di libertà. A portata di mano tutte le possibilità invece di una soltanto. Gioia. 
Gioco appresso a gioco, zazen di seguito a zazen, mente quieta ed immobile, lo scollamento procederà deciso e… E cosa? Non si può dire. Si può però fare.
Giocare gioiosamente in questo samadhi - Jijuyū zammai - così Dōgen chiama l’Aperto.  Partendo dalla constatazione, dal vedere, che il samadhi è questo, è qui, è già e da sempre in nostra attesa. Dopodiché, visto così, non resta altro che praticare questo vivere.
Chi non ce l’ha fatta è rimasto/a sepolto/a dalle macerie di se stesso/a - una sorda e cupa paura di perdersi accompagnata da una non modesta dose di superbia - non vedendo che è il me che è e che ha paura. 
Perciò, nuovamente: succede come a chi, volendo accendere un fuoco, versa acqua sulla catasta. 
Chiesero a Bodhidharma chi fosse.  Non lo conosco, fu la risposta. L’unica possibile.

Vicenza, 31 ottobre 2023

Salvatore Shōgaku Sottile

Finché sarà così...
Finché, in un balzo, non usciremo dal sogno; finché
ameremo restare in compagnia della mente illusa, al
calduccio del me/io, parleremo d'amore ma sarà
attaccamento; parleremo di compassione ma sarà pietà;
parleremo di equanimità ma sarà indifferenza.
Amore. Compassione. Equanimità. È da qui che bisogna
passare.
Vogliamo che ci siano sempre altre cose dentro noi
stessi oltre al semplice noi stessi. (1)
E facendo così finiamo col non vedere quel che c'è.
Diciamo: Ah, quanto amo questa persona! Quanto amo
queste cose!
Appunto, altre cose dentro di noi; e se son cose, se è
così, non potrò impedirmi di volerle per me, così come
piace a me. Ecco l'attaccamento!
Ma, silenziosi, guardate ora quel noi stessi (che non è
noi stessi ma l'Aperto) e quel che troverete è già amore.
Amore che non tocca niente, che respira e lascia tutto
così com'è. Ecco l'amore!
Diciamo: Oh, poveretto! Sta soffrendo!
Appunto, altre cose dentro di noi; stavolta l'altro, unodiverso-
da-me-che-mi-sta-di-fronte. Ecco la pietà!
Ma, silenziosi, guardate ora quel noi stessi (che non è
noi stessi ma l'Aperto) e quel che troverete è già
compassione. Non c'è mai stato nessuno là fuori che mi
guarda, per la semplice ragione che la trama fine della
vita non è divisibile. La rete di Indra. (2)
Ogni cosa che incontri è la tua vita, diceva il mio
maestro. Ecco la compassione!
Diciamo: Ah, questa cosa non mi interessa. Davvero,
non provo alcun attaccamento!
Appunto, altre cose dentro di noi; cose a cui possa
decidere di volgere le spalle. E quanto mi è venuto
incontro e avrebbe fermentato la mia vita, è sfumato.
Ecco l'indifferenza!
Ma, silenziosi, guardate ora quel noi stessi (che non è
noi stessi ma l'Aperto) e quel che troverete è già
equanimità. Intreccio. Katto, la chiama Dōgen. È come
l'amore e la compassione, non rimuove mai niente e dà
luce a tutto. Ecco l'equanimità!

Vicenza, 8 Ottobre 2023

Salvatore Shōgaku Sottile


(1) Thich Nhat Hanh, Soffrire non basta, in Buddhismo impegnato, Neri Pozza, 1999, pag.
15
(2) L’universo è come un’enorme rete che si estende all’infinito in ogni direzione, la rete
di Indra, per includere ogni aspetto dell’esistenza, senza eccezioni. Al punto di
intersezione di ogni nodo della rete c’è una lucente gemma dalla superficie riflettente.
Ciascuna gemma riflette ogni altra, generando una vasta rete di sostegno che include
tutto. Per quanto il loro numero sia infinito, nessuna gemma esiste senza le altre o può
essere considerata a sé stante. Ciascuna di esse è ínterdipendente dalla presenza di tutte
le altre. Se ne appare una, appaiono tutte. Se non ne appare una, non ne appare nessuna.
Se comparisse un puntino nero su una qualunque delle gemme, comparirebbe su tutte. È
una metafora molto antica, tramandataci dalla tradizione buddhista. Contiene una verità
fondamentale per capire cos’è la vita e il nostro rapporto col mondo: l‘interdipendenza
di tutte le cose. Il fatto che siamo legati gli uni agli altri da legami indissolubili , che si
estendono a tutti gli altri esseri e a ogni elemento dell’universo.

Una faccenda che può rivelarsi mortale
Cercate di seguire e tenetevi saldi sulla sedia.

Questa faccenda che si chiama meditazione non avviene
allorché siamo seduti in meditazione nelle occasioni formali;
diciamo meglio: prima che avvenga nelle occasioni formali
deve accadere altro; diciamo ancora meglio: meditazione è
momento per momento; diciamo un po' più raffinatamente:
quel processo vitale chiamato meditazione è un flusso che ci
attraversa, similmente al respiro. Diciamo perfettamente: la
meditazione non è altro che uno stato mentale! Non
dimorare, la chiama Daikan Enō. Non ristagnare, la chiamo
io.

Nel post che vi ho inviato qualche giorno fa, a
proposito dell'ottimo volume sul Sesto Patriarca (1),
nell'introduzione si legge così: Nel 'Sutra del soglio'... la
meditazione non è vista come un insieme di tecniche
finalizzate all'ottenimento della saggezza; meditazione è
piuttosto un esercizio costante della saggezza nella vita
quotidiana. (2)

È tutto qua l'insegnamento del Sesto Patriarca
(Huìnéng/Daikan Enō).

La sua critica al gradualismo, difatti, si fonda su una
questione che si può dire così: se limiti il tuo praticare la
grande Via a quel ritaglio della tua vita detto pratica
formale; e poi, nella vita quotidiana, sei sciatto ed
inconsapevole; ebbene, allora questa tua pratica formale è
una tecnica volta ad un fine. Ed è esattamente qui che il
sedere non serve a niente. Ed è esattamente in ragione di
questo qui che abbandonerete.

Allorché la vita ci va di traverso... Ecco l'occasione
ineguagliabile per meditare, ovverosia per vedere come ci
facciamo sballottare qua e là dai marosi di una mente
ingovernata. Euforia segue depressione. Felicità appresso a
disperazione. Et voilà! Vi presento monsieur Dukka!

Sospetto cosa pensate: come si fa? Cosa fare per rimanere
presenti, silenziosi, insomma guadagnare il corretto stato
mentale?

La buona novella è questa: non si fa! Non si fa giacché quel
fare è, piuttosto, farsi; si-fa-da-sé, come l'uovo che nel
pentolino bolle esattamente quando deve bollire.

E dico che si tratta di una buona novella perché, altrimenti,
il demone ci avrebbe già ingurgitati e digeriti. Se si trattasse
di qualcosa da fare alla nostra portata... Per fortuna, santa
fortuna, non è così.

E allora? Allora praticate e vivete, vivete e praticate, senza
confini o recinti. Non dimorando. Non ristagnando. Non
attaccandovi a niente, nemmeno Buddha.

Adesso sapete che c'è una faccenda che può rivelarsi
mortale...


                                                                                   Un cioccolatino:
Allorché il Quinto Patriarca, Hóngrĕn/Daiman Kōnin, a
mezzanotte, conclusasi la disputa delle strofe scritte sul muro (3), si
recò nella sala della macina del riso dove Huìnéng/Daikan Enō
lavorava gli disse: Chi non conosce la mente fondamentale, non
trae alcun beneficio dallo studio del Dharma. E ancora: Colui che
cerca il percorso per il Dharma dimentica il proprio corpo, non è
così? E infine: È maturo il riso? Huìnéng/Daikan Enō rispose: È
maturo da tempo...

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Huìnéng:

L'essenza della bodhi non è un albero,
così come lo specchio brillante non è un supporto.

In origine non v'è alcuna cosa:
dov'è dunque che la polvere si posa?

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(1) Huìnéng, Sutra dal soglio del sesto patriarca, Bompiani, Luglio 2023
(2) Huìnéng, op. cit., pag.17
(3) Shénxiú:
Il corpo è l'albero della bodhi, la mente come
il supporto di uno specchio brillante.
Spesso e diligentemente va pulita: non lasciate
che vi si posi la polvere.

Vicenza, 15 Agosto 2023

                                                                     Salvatore Shōgaku Sottile

Non fatevi illusioni

Una storiella Ch'an.

Ambientazione consueta. Monastero con centinaia di monaci. Montagna selvaggia. Un giorno, preoccupato per il morale della truppa, lo shusso si decide e va nella camera del vecchio maestro. Bussa, ma nessuno risponde. Bussa ancora... Poi, discretamente scosta la porta della camera. Il maestro è seduto davanti alla finestra aperta, immobile. Da dietro, non si capisce se è morto, sveglio o semplicemente assorto. Maestro..., fa lo shusso. E quello, senza muoversi, gli fa cenno con la mano di avvicinarsi... Guarda..., gli dice. E quello guarda, ma non vede altro che il consueto giardino e, oltre, la cima delle montagne... Che volevi?, fa il maestro, che ha subito inteso come il discepolo non veda. Ah, sì... risponde lo shusso, come per un attimo si fosse perso anche lui.  Sono preoccupato, maestro...   Preoccupato?   Sì, maestro. I tuoi discepoli non sanno  che  pensare,  sembrano disorientati...  Disorientati?  Sì.  Si chiedono come mai non tieni più un discorso di dharma. È passato tanto tempo dall'ultimo, a dire il vero molto stringato... Ah, fa il maestro. Sì, fa lo shusso. Silenzio. Poi il maestro, sempre guardando fuori dalla finestra, dice, Va bene, amico mio, oggi terrò loro un discorso. Sollevato, lo shusso si inchina e corre a dare l'annuncio.

All'ora concordata, in una sala del dharma stracolma, arriva il maestro che, senza guardare nessuno, sale sulla pedana e si siede. Attende che lo shusso offra l'incenso sull'altare. Sistema il kesa sulle spalle, poi dice: Cari fratelli... e solo ora volge lo sguardo sulla sala. Cari fratelli... Li vede tutti. Li conosce tutti. Li ama tutti. Cari fratelli... Non fatevi illusioni! Dopodiché si alza, scoppia in una grande risata e se ne va. Esattamente quanto aveva detto e fatto nell'ultima occasione.

Non fatevi illusioni! Su di voi, su di me, sul Buddha, sulla pratica, zazen, l'illuminazione... Non caricatevi sulle spalle un carico che non vi serve e andate leggeri, liberi.


Niente di quel che pensiamo o ascoltiamo è veramente importante; niente, tranne venire qui e sedere; venire alla sesshin e praticare. Praticate-e-basta. Senza sapere, senza capire nemmeno perché lo fate.

 

Ora, cercate di capire. Perché mai niente di quanto pensiamo è importante? Finché ci sarete voi a pensare voi stessi, non riuscirete. Così, se vi sfioro - e vi sfioro apposta -, subito fate il broncio. Se faccio qualcosa che non vi piace, vi irrigidite. L'ho già detto più volte. E allora? Allora provate ad essere com'è Buddha e come sono stati i Patriarchi: Nessuno! Toc, toc... C'è qualcuno in casa? Non c'è nessuno lì nella capoccia e perciò mai niente da difendere. Chi potrebbe mai risentirsi? Liberi. Finalmente liberi da se stessi.

 

Imperatore Wu: Chi sei? 
Bodhidharma: Non lo conosco.

 

Oppure. Vi ho consigliato un libro per la sesshin di Aprile. E lì trovo così: Una volta Maezumi Roshi e io stavamo viaggiando su un treno ad alta velocità in Giappone. Roshi sedeva vicino a me, e di fronte avevamo una coppia.  Il marito era membro del direttivo dello Zen Center di Los Angeles... La moglie non era una praticante zen. Mentre stavamo chiacchierando, la donna guardò Roshi e disse: “Tra tutte le persone che conosco, lei è probabilmente quella che si trova più a suo agio nel non sapere chi è”. 1

Ma... E invece ancora moraleggianti e abbarbicati al pensiero di se stessi. Troppo educati; quando la grande Via è barbara. Meravigliosamente barbara.

Poi... Poi di illusioni ce ne facciamo di continuo. Soffriamo, a volte, per pensieri persistenti; costruiamo trappole perfette nelle quali ci lasciamo cadere avvitandoci come turaccioli; diventiamo pallidi, senza forze... Finché, colpo d'ala, di tutto questo colpevolizziamo l'universo mondo, quando - Non fatevi illusioni! - abbiamo fatto tutto da soli. Ecco perché il vecchio Patriarca si limitava a richiamare così.

 

Il problema, difatti - come dovremmo sapere -, non è l'illusione in sé, che è santa come ogni altra cosa (samsara- eppure-nirvana. Nishitani); il problema è non vedere l'illusione in quanto illusione. 

Visto questo, visto così, ci diventa possibile lasciare il vecchio maestro davanti alla sua finestra... Lo vedete? Sembra un bambino occupatissimo a giocare con un filo d'erba... 

Ah, che meraviglia! 

 

Vicenza, 14 Marzo 2023 

Salvatore Shogaku Sottile


NOTE

1.  Dennis Genpo Merzel, Se l'occhio non dorme, Ubaldini 1993, pag. 45

Centro zen Vicenza

All'inizio...

Qualcuno di voi, giovedì scorso 29 Settembre, alla fine della seduta e della pasticceria ormai quasi regolamentare, mi ha detto due cose interessanti.
Mi ha detto (1°) che la nostra pratica è, al tempo stesso, difficilissima e facilissima.
E mi ha detto (2°) che non vorrebbe sentirsi dire come va a finire, perché intende scoprirlo da solo.
Trattandosi di un principiante, si tratta di due questioni notevoli che potranno essere utili a tutti. Tanto che, qui, ne discuteremo.
Sulla prima questione (dando per inteso che il difficile è riferito alla postura e il facile all'approccio scevro da sovrastrutture della nostra pratica) direi così: che è vero ma che non è tutto. Certo, il principiante si trova ad affrontare l'inferno, sulle prime; sedere non è proprio un pranzo di gala, come si diceva a proposito della rivoluzione, per quanti hanno la mia età.
Pure, proprio questo - e a patto che ciò non provochi un abbandono, proprio qui, dico proprio in questa primissima fase,  sta il momento che deciderà tutto. Tanto che (per qualche ragione che non è possibile individuare in quanto destinale, qualcuno direbbe karmico) se qui non desiste, il praticante troverà la via d'uscita. Che, semplicemente, consiste nell'intuire che occorre puntare avanti, al di là della difficoltà, mirando oltre, oltre... Gyate, gyate... Guarda caso, la fine del nostro amato sutra Maka Hannya...
Esattamente il contrario, perciò, del rannicchiarsi nel disagio e nel lottare per sopportarlo; e ciò è possibile se attraversiamo il disagio stesso da parte a parte, senza evitarlo bensì – scandalo! - abbracciandolo. Come? Non c'è la ricetta. C'è solo un'attitudine, un'indicazione. È là che bisogna arrivare. Cioè qui, qui seduti quietamente e fortemente dinnanzi ad un muro.
È come coi demoni. Ne abbiamo parlato spesso, in questi anni. Davanti ai demoni che, caparbiamente, ci fanno visita, non serve fuggire; la nostra paura è il loro carburante. Quel che serve, quel che ne mostra la loro reale natura di fumo, è - abbracciandoli - invitarli a sedere con noi sul cuscino nero, tenendoli stretti. Hanno paura anche loro!
In questi frangenti, nel nostro sedere da principianti, è d'aiuto portare l'attenzione nell'hara, tre-dita-sotto-l'ombelico, come diciamo spesso a proposito del punto d'equilibrio di corpo-mente-cuore. Zazen. 
Potrà essere utile - in questa e soltanto in questa fase -produrre una visualizzazione. Dopo essersi seduti, sistemata la postura, chiudere gli occhi e trasferire il naso dalla sua consueta posizione lì, tre-dita-sotto-l'ombelico. E da lì respirare! Sarà il respiro a risolvere l'impasse. Il disagio non scomparirà mai del tutto, ma non disturberà oltremodo. Da acerrimi nemici a conoscenti. E non si lotterà più.
E siamo alla seconda questione: Non dirmi come va a finire perché voglio scoprirlo da solo.
Shakyamuni, detto il Buddha, in inizio di predicazione, a quanti gli chiedevano cosa insegnasse, rispondeva: Venite a vedere! È, perciò, da considerarsi un buon atteggiamento quello di porsi come uno sperimentatore, qualcuno cioè che, per proprio conto, intende scoprire cosa produce la pratica della grande Via.
Detto questo, va subito dichiarato un rischio assai presente in questo per proprio conto; un rischio che ha per nome solipsismo, individualismo; l'atteggiamento di quanti, cioè, pur  percorrendo sentieri e pratiche comunitarie, si tengono da parte, manifestando così, che lo si sappia o meno, quell'alterigia e quella superbia tipica del tipo di umano delle nostre latitudini.

La soluzione, naturalmente, sta nell'armonizzare i due aspetti. Da un lato, non è possibile prescindere dal fatto che la pratica si incide sulla mia carne, e non su quella degli altri; dall'altro, non c'è mai, veramente e in ultima analisi, mia e altri (Nota 1)

Come abbiamo voluto mettere nella home del nostro sito, tutto questo è detto così: Come alberi stiamo in piedi da soli; e come alberi godiamo di essere foresta!
E qui la questione si fa delicata, soprattutto nell'ottica del principiante; giacché se non c'è alcun dubbio che la pratica ha a che fare con la mia, personalissima, vita-morte, pure, sarà proprio quel mio che la pratica dissolverà. L'illuminazione - ammesso per un attimo che sia qualcosa -non potrà mai essere mia. Sarebbe come pensare che il cielo mi appartenga.
Da qui deriva, forse, la vera difficoltà nel praticare lo Zen. Non la postura, non il male alle gambe, non i pensieri galoppanti ma - ecco il punto - questo transitare pacificamente tra me-e-mondo e mondo-e-me, questo far confluire la vita (che è sempre singolare) nel vivere (che è sempre plurale). Non privilegiando né l'una e né l'altro.
Concludendo, per quanti si tengono abbarbicati a se stessi, la pratica risulterà impossibile; mentre per quanti prenderanno a giocare - come giocano le onde con l'oceano -, sarà quel che per noi è: una delizia! 
E siamo tornati ai pasticcini...

Vicenza, 1 Ottobre 2022
Salvatore Shogaku Sottile


Note
1. Con la medesima armonia trattiamo la relazione silenzio/parola. Tenendosi stretti al silenzio, parlare. In fin dei conti, anche qui, né l'uno e né l'altro. Pur essendo ovunque nell'Aperto, noi non siamo mai - non ristagniamo - da nessuna parte.  

Concentrazione

Ieri sera vi ho parlato di due aspetti della pratica di zazen strettamente connessi. Li riprendo, qui, affinché non si indugi a condurre il nostro sedere lì dove deve andare.

 

Parliamo della particolare forma di concentrazione che attuiamo in zazen, e di come questa sia influenzata e, infine, determinata, dal modo in cui teniamo gli occhi.

 

Spesso, come ho più volte ripetuto, vi vedo in zazen con gli occhi completamente chiusi. E, più volte, vi ho invitato ad abbandonare un tale atteggiamento. La postura degli occhi, difatti, è fondamentale nel determinare il tono di quel che avviene sedendo, tanto è vero che l'insegnamento proviene direttamente da  Dōgen, che ne parla nel suo Fukanzazengi: … Tenete sempre gli occhi aperti...  

 

Gli occhi completamente chiusi portano velocemente a precipitare nell'inconscio dove, la conseguente concentrazione, frutto dell'immobilità e del silenzio di corpo-mente-cuore, non potrà che assumere natura immersiva. In più, lo stato generale si farà torbido e potrà giungere il sonno. Tutte condizioni, queste, che non producono uno zazen come pratica di risveglio.

 

Più che all'immersione, il nostro sedere tende all'espansione; da cui la corretta concentrazione in zazen sarà espansiva e non immersiva; affinché questo si determini, gli occhi saranno socchiusi, la palpebra cala ma mai del tutto, in maniera tale da consentire alla luce di raggiungerci.

 

Questa espansione è, come ho detto ieri sera, quanto Bodhidharma chiama Vastità! E questa Vastità altro non è che Sunyata, la santa Vacuità!

 

Buona pratica a tutti.

 

Vicenza, 19 Agosto 2022
Salvatore Shogaku Sottile

La cura

Ieri sera, durante la seduta formale, ho detto così: Vi prego, prendetevi cura della vostra pratica; solo così la pratica si prenderà cura di voi.  Vorrei sviluppare questo spunto.

 

Se noi e la pratica non siamo divisi e se fluiamo con essa, non c'è pericolo di credere che prendersi cura della propria pratica sia dare spazio alla mente illusa. Prendersi cura della propria pratica è essere pratica, silenziosi, invisibili alle ragnatele dell'ego.

 

Se accade così, la pratica ci riconosce e perciò si prenderà cura di noi. Buddha si prenderà cura di noi. Buddha che - oh, meraviglia! - ha (e ha sempre avuto) la nostra stessa faccia.  Accade, allora, che lo spazio attorno a noi si espande all'infinito e il respiro scende nelle profondità di ogni corpo, incluso il nostro.  E questo, che si sappia oppure no, che si senta oppure no, questo è il satori. Inconscio. Inconosciuto. Universale.  Completo abbraccio che non lascia fuori niente. Ed ecco il così-com'è!

 

È questo il senso del nostro essere esatti in tutto ciò che facciamo, nello zendo come altrove; ogni nostra azione inizia, si svolge e si compie. Perfetta. Senza sbavi e senza inutili lentezze che darebbero spazio alla mente di formulare giudizi. Essere esatti così, di fatto, è prendersi cura. E subito dopo dimenticare. Altrimenti, ci resta il mondano così-come-viene e il tanto-per-fare. Ma così impediamo allo specchio del dharma di compiere la sua funzione e manchiamo il riconoscimento; e se questo accade non ci resta che vivere nella solitudine e nella paura. Che sono, esattamente, il paese natale dell'ego.

 

Buona pratica a tutti.

 

Vicenza, 22 Aprile 2022
Salvatore Shogaku Sottile

Cuore arreso

Se amiamo il mare, la cosa migliore da fare è essere mare. Noi invece, per solito, andiamo semplicemente al mare. E così, il mare, resterà sempre altra cosa per noi.
Che Kajo - Vita ordinaria, vita comune - provocasse inquietudini era facile prevederlo. È il problema di molti di voi; talmente molti che può capitare perfino di non accorgersene.
Come conciliare la vita comune e la Via? Una faccenda, è stare nell'ambiente protetto del dojo; un'altra, sentirla vibrare al lavoro, in famiglia, nelle relazioni con quanti, magari, non capiscono che ci facciamo lì immobili seduti dinnanzi ad un muro. Ma la questione che pone Dōgen è, semplicemente, che non c'è questa faccenda; c'è solo questo!
E questo è il mare, il grande oceano, che non si cura delle onde. È sempre è solo questo. È sempre e solo mare. A ben vedere, perciò, la soluzione di questo pseudo-enigma viene prima. E può essere detta così: allorché sto per immergermi nel grande oceano, io ci sono? Se sì, com'è di solito, non sono essere mare; sono un bagnante. E il mare non mi riconosce.

Perché mai credete che, in zazen, si continua a ripetere che occorre abbandonare-corpo-e-mente, Shinjin-datsuraku? Perché, altrimenti, zazen non ci riconoscerebbe. E se non ci riconosce, possiamo star lì a riscaldare un cuscino nero per l'eternità...
 
Mutando sguardo, e paradossalmente, diciamo che l'inizio della pratica della Via, in un modo che possiamo dire misterioso, avviene prima ancora di entrare per la prima volta in un dojo zen. Perché accade così? Perché (per il fatto stesso che  vi entreremo, in un dojo, e prima che ciò accada), siamo stati esposti sul pianoro dell'Aperto, senza neanche saperlo. Chi fa questo, quale forza ci espone nudi sul pianoro, non è da indagare. Chi fa questo, però, ha un nome: ecco bodaishin, la mente che cerca la Via. Che è sempre l'antefatto nascosto della nostra storia. Pratico, ma non so bene perché.
La mente che cerca la Via... Ma di che mente si tratta? Nient'altro che la mente della natura di Buddha che siamo. Questo è bodaishin! Se – ecco le ragioni misteriose – è sufficientemente potente, senza alcun merito da parte nostra, opera in silenzio e prepara le carte... Poi, tocca a noi fare il passo. Ed eccoci entrati per la prima volta in un dojo zen.
Tutto il resto della questione che vi interroga, la possibilità, o meno, di conciliare vita comune e pratica della Via, monachesimo o non monachesimo incluso, è un sofisticato alibi. Sul monachesimo, per esempio: ma qualcuno vi ha mai invitati a lasciare lavoro e famiglia per entrare in un monastero che, oltretutto, non abbiamo?
 
Praticate totalmente, fortemente e generosamente, con corpo-mente abbandonati e cuore arreso in ogni momento ed in ogni circostanza; con saggezza, calibrando le azioni ai contesti nei quali verrete a trovarvi. Direi, per esempio, che non è proprio necessario mettere in zazen il proprio capo ufficio.
Praticando così sarete voi stessi questo, e non ci sarà più alcun dubbio. La Via sarà la vostra vita e il dharma, tramite il nome che eventualmente avrete ricevuto, vi richiamerà a ciò.
Senza questo preliminare cuore arreso al dharma, dono di sé (da non intendesi in termini cristiani, poiché qui non c'è alcuno che decide di donarsi), la Via e la vita vi resteranno incomprensibili e inaccostabili. Senza questo, tutt'al più farete i bagnanti. Ma sono sicuro che non è quello che volete.
 

Trissino, 4 Marzo 2022
Salvatore Shogaku Sottile

KEIJI NISHITANI  

ovvero 

sul cavar sangue (di dharma) dalla rapa filosofica  

Riflessioni su alcuni snodi dell'opera di Keiji Nishitani "La religione e il nulla"

centro zen Vicenza

Non lasciare tracce

Nello zendo camminiamo a piedi nudi.

Questo vuol dire che a piedi nudi camminiamo nel mondo, giacché lo zendo non è (solo) lo zendo, ma la grande terra.

Perciò, vi prego, da oggi in poi ogniqualvolta farete ingresso nello zendo non fatelo pesanti di voi stessi; provatevi a non produrre alcun rumore in modo da non disturbare gli innumerevoli esseri che vi abitano; entrate volando, appena pochi centimetri da terra, e vedrete che vi riuscirà.

Io vedo un senso forte in tutto questo. Non è solo questione di sacralità del luogo dove sediamo in zazen, ma pungolo che va ancora più in profondità; tanto in profondità da essere erba tenera dei prati. Completamente esposta. Completamente offerta. Fuse.

Questo è, per quanti percorrono la Via, non lasciare tracce! Toccare appena il mondo, calcare lo zendo dolcemente e, subito, sparire. Leggeri come nuvole (unsui, emblema del monaco zen) passiamo carichi di pioggia e svaniamo. 

Non attaccatevi a niente; nemmeno allo zendo, nemmeno ai propri piedi, nemmeno alle nuvole. Solo così passeremo lasciando ombre fuggevoli sulla terra, ombre fragranti; solo così matureranno i rossi cachi dell'albero di Buddha. 

Buona pratica. 

Trissino, 4 Marzo 2021 

Salvatore Shogaku Sottile

centro zen Vicenza

Un asino che si crede coccodrillo

La liberazione del cuore (la pace, il risveglio, la felicità) non è mai un oggetto (fisico o mentale); e quando diciamo oggetto intendiamo anche formule magiche, mantra, riti, "pensieri positivi"; la liberazione del cuore non è mai il risultato di qualcosa; la liberazione del cuore è, esattamente, lasciar andare. Il cuore lascia ogni presa e, così, da se stesso, si libera.

 

Questa è la libertà; non dipendere da niente; avere il tesoro in casa. Questo è zazen.

 

Zazen non è un oggetto. Zazen è un processo. Perciò, avviandoci alla pratica di zazen andiamo verso il render vivo un processo che, esso stesso, è liberazione. Ecco perché zazen non finisce mai.

Se accettiamo questo quadro, dopo averlo verificato, ecco che viene il tempo che viene, adesso, poiché è adesso che abbiamo praticato il lasciar andare e gustato la libertà del cuore. Ecco perché non abbiamo mai bisogno di/del tempo, giacché abbiamo sperimentato che, adesso, non manchiamo di niente.

 

Se abbiamo verificato che cosi è, che il tesoro, la liberazione, la pace, sono qui, già qui, ecco rilucere che non pratichiamo zazen perché orfani, monchi, mancanti ma, al contrario, paradossalmente, rivoluzionariamente, pratichiamo poiché siamo Buddha.

 

Non potremmo, se no. Sarebbe come un asino che sognasse di diventare coccodrillo.

Vicenza, 20 Settembre 2020

Salvatore Shogaku Sottile

zazen Vicenza

Zazen ed il mare

Avete mai fatto caso a come sfumano i contorni corporei una volta che si è in acqua? Immersi, nella corretta postura del lasciar essere, altrimenti si annega, svaporiamo un po', essendo tutt'uno con l'acqua che solo allora sostiene, e possiamo godercela.
Questa è un'ottima immagine della nostra pratica, del nostro zazen. 
Anche in zazen tendiamo a sfumare, si fa fatica a sapere con esattezza dove sia la gamba destra o l'altra, le braccia, ci sono ancora?, perdiamo insomma i contorni e, anche lì, come già in acqua, siamo non-due col vivere.
Nella corretta postura il mare ci tiene; ed è quel che accade in zazen; seduti nel lasciar andare, nel lasciar essere, la vita ci tiene. Questo può accadere, in un caso come nell'altro, perché nella realtà  vera, profonda, non siamo mai (solo) noi, bensì non altra cosa dal mare, non altra cosa dal vivere. 
Solo così, nell'un caso come nell'altro, possiamo godercela.
 

 Vicenza, 17 Agosto 2020
Salvatore Shogaku Sottile

zazen centro zen vicenza