Centro zen Vicenza meditazione zen

APPROFONDIMENTI

Una serie di contributi offerti nella consapevolezza che la libera condivisione di quanto maturato nella pratica individuale e collettiva costituisce alimento e stimolo al cammino di tutti.

Riflessioni

Temi di studio, commenti a testi della tradizione, problemi e questioni della pratica e dell'insegnamento, documenti da scaricare liberamente.

Haiku

Componimenti poetici di stile giapponese formulati secondo lo schema tradizionale di 5/7/5 sillabe dai praticanti del Centro. 

Immagini

Immagini della pratica del Centro.

Letture consigliate

Indicazioni di lettura sullo Zen e tradizioni spirituali affini.

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Riflessioni

KOSMOSZEN

Manifesto d'intenti
per un riassetto
delle cose spirituali

All'incirca una volta ogni dieci anni riprendiamo le ragioni del nostro essere sangha di Buddha nella casa Zen. 

 

La prima volta, nel 1997, in occasione della fondazione del dojo di città; quindi nel 2007 [1]; infine in questo avvio del 2023.

  

Vorremmo proporre un punto e a capo nello stato delle cose della nostra pratica spirituale. Dove il punto potrebbe essere rappresentato da questa precisa accezione di spirito: kosmos, al modo della lingua greca, ovvero cosmo e - insieme - l’ordine che lo tiene. Mentre l’a-capo, sarà sicuramente quel senso di cominciare di nuovo, daccapo, da cui il senso di manifesto di questo scritto.

 

Per evitare inutili equivoci o pettegole critiche, diciamo subito che dalle riflessioni che seguiranno non discende alcuna idea di insufficienza della nostra pratica. Non si studia il dharma, anche alla maniera nella quale lo si studia qui, perché manchi qualcosa al dharma, ma affinché l'uomo e la donna che oggi, nelle nostre terre d'Occidente, lo incarnano, si sentano situati, liberi e consapevoli. 

 

Ribadiamo con forza il rigetto dell'idea che lo Zen sia una cosa d'Oriente che cerchiamo di fare nostra, perlopiù scimmiottandola. Ecco perché, in queste pagine, si affrontano temi quali il Cristianesimo e la filosofia greca.


Quando diciamo pratica spirituale non parliamo di una parte di noi, una fetta del nostro vivere, quanto di tutto il nostro vivere (cosmo) e dell’armonia e bellezza di questo vivere stesso (l’ordine che lo tiene). 

 

Non, perciò, uno spirito a cui farà da contrappeso un corpo, quanto la piena armonia di un essere che, proprio perché così intimamente kosmos, - cosmo e ordine - è ciò che è.

 

Prendendo a modello uno degli infiniti esseri che fanno questo kosmos, l’essere umano, eccolo perciò unità di processi fisici e non fisici, battito cardiaco e processi mentali, corpo-mente-cuore. Nessun dualismo, nessuna contrapposizione, poiché niente nei processi vitali è contrapposto ad alcunché. La vita è morbida, fluida ed ha una sola legge: tutto cambia. Anicca, in sanscrito; Mujo, in giapponese, impermanenza. E in questo tutto che cambia ogni cosa deve trovare il proprio equilibrio.

 

Proveniamo dal continente Buddhista, dalla casa Zen, e la convinzione a cui sempre più perveniamo è che non vi è mai garanzia alla sincerità del cammino di ognuno; figurarsi, perciò, a cercarla affidandosi alla sola venerabilità della tradizione! 

 

Niente da dire sulla tradizione in quanto tale, a patto che sia quello che è: narrazione storica per intendere quanto è avvenuto. E per narrazione non intendiamo una cosa amorfa buttata lì, nel tempo passato, quanto terra fertile che, percorsa adesso, curata, dà luogo a quel giardino del dharma così come nei tempi che ci precedono, dalle origini in poi. Pur se sarà il giardino di adesso. È sempre stato il giardino di adesso. Ecco la trasmissione. Così le vite di quanti, innumerevoli, hanno permesso tutto questo, vivranno un'altra volta, ancora, finché ci sarà una mano che coglierà quel fiore. Niente di più e niente di meno. 

 
Ora, a questo fiore che si voglia farlo attecchire nel nostro giardino, pur essendo quello che la propria linea di tradizione l’ha fatto, interessa poco sapere quanto - su quelle determinate montagne o splendide valli - era rigoglioso; o il kosmos rappresentato dal nostro giardino realizza tutte le condizioni necessarie a quella esistenza, oppure il nostro fiore dovrà modificarsi per non morire. Si chiama incubazione; si chiama attecchimento; si chiama trasmissione, si chiama, infine, dar vita ai morti.


Ora questo fiore chiamato Zen è giunto nel nostro giardino. Sono almeno cinquant’anni che vi è giunto. Ed ecco che, per lo più, non si sa bene ancora che farne tranne che la cosa più semplice ma, a noi sembra, più inattuale e inefficace: continuare come se niente fosse con le tradizioni di provenienza!

 

Pure, ogni storia culturale e spirituale è lì per dirci che, forse, c’è una riflessione da compiere. Nel cristianesimo, per esempio, è stata necessaria la mirabolante opera paolina affinché divenisse poco percepibile la matrice ebraica del messaggio evangelico; e, per quanto riguarda il solco che ci interessa, quello Zen, è del tutto assodato l’originale innesto, sul corpo del Buddhismo indiano, di tesi taoiste. [2]

 

È perciò solo a causa della pervicace miopia degli uomini che, oggi, non si ha percezione nettissima del fatto che se siamo qua a parlare di Zen è proprio perché quegli uomini, in Cina, non fecero finta di niente!

 

A far da contraltare a questo, c'è l'errore simmetrico ed opposto. Lo si intravvede già nelle pratiche dello Zen d'oltreoceano; stiamo parlando di una sorta di deriva verso uno psicologismo insistito che, se da un lato, innesta la pratica nel tessuto culturale occidentale, dall'altro disinnesca l'enorme potenziale insito nella intuizione di Sakyamuni del non-sé (Anatta), rischiando di richiamare in campo la soggettività. E questo anche in quelle forme più avvertite (Mindfulness), poiché quel benessere a cui tenderebbero le suddette pratiche altro non può essere che il benessere del soggetto, del me. Ed ecco che la pratica smotta dal non-sé a fare stare bene il sé!

 

Ci pare perciò evidente e perfettamente in luce come, nei confronti delle tradizioni di provenienza di ogni insegnamento, sia solo in modo assai superficiale applicabile il quesito continuità o rottura; dovendosi piuttosto mettersi in esercizio l’applicabile continuità e rottura.
 
Il primo approccio (continuità o rottura), è per sua natura di matrice concettuale e di ordine moralistico, in quanto mette in scena l’ipotesi di una scelta che, di per se stessa, escluderebbe l’altra; [3] il secondo approccio (continuità e rottura) è, invece, frutto sperimentale della nostra vita e opere. Ciò vorrà dire, per noi, che a partire dal fuoco vivo della pratica dello zazen, non trascureremo l’aspetto della continuità studiando ed investigando opere e pensiero dei Patriarchi ma, pure e necessariamente, opereremo sul versante della rottura ogniqualvolta - fiutato il tempo che c'è - lo riterremo utile ad una migliore comprensione e realizzazione. 

 

Sulle medesime questioni ho scritto, di recente, così: Siamo ancora troppo giovani, nella pratica dello Zen in Occidente, per potere esaustivamente liberare il grano dalla pula. Ma non per questo è necessario inquietarsi. I fantasmi, qualora presenti, non vanno fuggiti ma abbracciati nel silenzio della postura. Così io metto l'Abito e indosso il Kesa, sedendo in zazen, come riconoscente attualizzazione di un dono. Dare una vita di carne alle forme, sapendole vuote esattamente come il fantasma e come colui o colei che le incarna. [4]


Ci sembra, facendo così, di poter applicare, a questo nostro sforzo un’opportuna metafora attribuita all’insegnamento di Buddha Sakyamuni. Si tratta della candela che ne accende un’altra. Ebbene: come si applica qui il nesso continuità/rottura? Non si potrà argomentare che si rifiuta l’aspetto tradizionale poiché è ciò che accende la seconda candela ma, neanche, che indifferentemente si continua come se ciò che arde ora non fosse un’altra candela. Ecco, dipenderà dalla cera di questa seconda candela (che siamo noi e il kosmos d’Occidente dove la luce tenta d’illuminare) la sorte dell’insegnamento.


Ma ricominciamo dagli inizi. Dallo sbalorditivo incipit di Giovanni: In principio era il Lògos, il Lògos era presso Dio e il Lògos era Dio. (Gv 1,1-18)
 
Era percezione chiara dei Padri della Chiesa come il lògos giovanneo in nulla differisse da quello proclamato da Eraclito (VI-V), il filosofo di Efeso. Efeso in cui, secondo la tradizione, proprio fu redatto quel vangelo che da allora sarà detto di Giovanni.

Pensiero greco presocratico ed avvio della predicazione cristiana, dunque: torna, difatti, e in modo clamoroso, l’identificazione in Meister Eckhart, il maestro domenicano che tanti problemi avrà con la gerarchia ecclesiastica. Dice Eckhart in un suo sermone a proposito di Eraclito: Uno dei nostri più antichi maestri, che trovò la verità molto tempo prima della nascita di Dio, prima che sorgesse la fede cristiana. [5]  

 

La verità è perciò nata in terra greca e parla così:
 
Per chi ascolta non me, bensì l’espressione [il Logos], sapienza è riconoscere che tutte le cose sono una sola. [6]


È nostra impressione come, oggi, a duemila anni dall’inizio dell’avventura cristiana e duemilacinquecento da quelle parole greche, sia possibile ricominciare da lì svolgendole con il pettine Buddhista.
  

A partire dal pensiero eracliteo, difatti, ci sembra di cogliere l’identica opportunità che fu dei cinesi dell’epoca del Ch'an; lì la connessione dovette farsi con le profondità taoiste; qui, oggi, necessariamente con quelle greche. Non ne vediamo altre, del resto.
 
Se, da un lato, è pacifica l’appropriazione da parte degli evangelisti cristiani delle speculazioni greche, resta da capire meglio cosa fa, del pensiero del logos, un orto così fecondo tanto da far nascere il sospetto che, anche col Buddhismo-Zen, da lì si debba ripartire.
 
La parola greca “logos” significa “discorso”, “pensiero”, ma in Eraclito essa assume il significato di “ragione”, nel duplice senso presente anche nella lingua italiana: motivo profondo per cui qualcosa avviene (la ‘ragione’ di un fatto) e facoltà di comprensione da parte dell’uomo. [7] L’etimologia rimanda, come nel latino lego, al raccogliere elementi altrimenti dispersi. Ebbene, il nostro intendimento del sanscrito Dharma, non è poi altra cosa. 

 

Da uno qualunque dei nostri testi, trovo la seguente definizione di Dharma:

Letteralmente: “ciò che sostiene”. La legge cosmica. L’Ordine universale; per estensione la Dottrina del Buddha che la predica agli uomini. Il Buddha è lui stesso una emanazione del Dharma. Al plurale e senza la maiuscola iniziale, i dharma designano gli elementi costitutivi dei fenomeni materiali e fisici, sottomessi a questo ordine e percepiti come distinti dalla mente. [8] 
 
Dove ciò che s’impone è l’equivalenza semantica tra Logos come motivo profondo per cui qualcosa avviene (la ‘ragione’ di un fatto) e Dharma come legge cosmica, ordine universale. Insomma stiamo parlando della stessa radice!

Altrove e in altro momento presenteremo meglio questa che a noi appare a tutti gli effetti una rifondazione del nostro praticare il dharma in Occidente. Una cosa va però detta subito: siamo molto sensibili a quella prospettiva espressa così da Dōgen:
 
Inverare le cose mettendo avanti se stesso: questa è illusione; partendo dalle cose inverare se stesso: questo è il risveglio. [9]
 
Vogliamo dire che non avvertiamo quanto presentiamo qui per una pubblica riflessione come il frutto di un sensazionalismo individuale quanto, e piuttosto, come il sofferto maturato delle cose, cose alle quali o ci si riconosce adeguati, oppure il Buddhismo - che ha una fondante similitudine con la buona medicina che guarisce (cosa già in Epicuro con il suo tetrafarmaco) o con la zattera che traghetta -, perde d’efficacia e, alla stregua di uno qualunque dei culti d'Iside di romana memoria semplicemente scomparirà.

 

Oggi come allora, necessariamente vige la legge di Kairós, il tempo opportuno [10], mancato il quale non sarà più possibile parlare di dharma in Occidente. 

 

E in questo che io vedo come un tempo di straordinarie opportunità ma, anche, di altrettanto straordinarie responsabilità, non sarà veramente possibile, né tanto meno sufficiente, limitarsi a richiamare, sic et simpliciter, gli anni di pratica vissuti; occorrerà, invece, in un corpo a corpo con le vicende del samsara, nell'ordinaria vita di ognuno, dare luce alla chiara determinazione, alla chiara visione, alla piena attualizzazione dei Tre gioielli: Buddha, Dharma e Sangha!  

 

Lontano da ogni alterigia o superbia di aver capito in ogni dove ogni cosa; tanto, come insegna il nostro Patriarca Dōgen, si viaggia sempre leggeri, si vive sempre a mani vuote. Che meraviglia!
 

Buona vita e buona pratica a tutti.

  

Vicenza 1 Gennaio 2023

Salvatore Shogaku Sottile,

monaco del Centro Zen di Vicenza


NOTE
[1]   Nel 2007, come premessa al testo scrivevamo:  Festeggiamo dieci anni da quando, pionieri nell’offrire un pubblico luogo di pratica buddhista, il Centro Zen avviava le sue attività nella città di Vicenza. Non siamo interessati ai bilanci, peraltro sempre posticci e tendenziosi, quanto a riprendere fiato, guardare il panorama e, poi, riprendere il cammino. Un cammino che ha permesso a centinaia di uomini e donne, dei più diversi ceti e fedi, nelle libere vicissitudini delle proprie vite, di avvicinare un porto nel quale la pace ed il silenzio hanno fatto loro da sfondo, indicando orientamento ed offrendo sostegno. Ci è sempre piaciuto pensarci come un antico pozzo od abbeveratoio ad un incrocio di vie. Passa il viandante, di volta in volta affaticato, confuso o solo ansioso di trovare un riparo per la notte che viene, e lì si rifocilla, sosta all’ombra del boschetto, riempie la borraccia e, se è il caso, riparte. Non vuole essere altro, difatti, che fresca acqua e ombroso silenzio il dono dello Zen; dono elargito a piene mani a tutti; tordo, asino, uomo, rana e foglia che dell’acqua s’inzuppa prima che il vento s’alzi. Niente di più lontano dal nostro sentire aggiungere un altro fardello (il buddhismo in forma concettuale) sulle spalle di chi già è curvo di suo, perché la vita pesa. La con-versione necessaria per incontrare se stessi, lo Zen, è orientamento esistenziale che ognuno matura dopo essersi dissetato dell’acqua e specchiato nel pozzo del proprio esistere. Questo è quel che noi chiamiamo pratica. Questo è un Centro Zen, crocevia dove viene a maturare quel che è maturo e dove fiorisce quel che è in fiore. I fiori fioriscono così come fioriscono. Così si esprime lo Zen! Non molti, fra quelli che qui si sono dissetati, hanno riconosciuto nella protezione della sorgente stessa il compito del proprio vivere. Quel che conta, però, è che per alcuni questo sia stato di tutta evidenza, al primo sorso, e che continuino, passandosi il testimone di decennio in decennio e di generazione in generazione, a custodirla e proteggerla quest’acqua viva che chiamiamo Zen. Sorgiva acqua che scorre dai tempi di Buddha, Siddharta Gautama (563-483), nell’India del V secolo avanti Cristo, e che ha scavato un tortuoso torrente prima di giungere a noi, passando dalla Cina della dinastia Tang (618-907) e dal Giappone del periodo Kamakura (1185-1333); sorgiva acqua per la sete del mondo. Qui, ora.  Salvatore Shogaku Sottile.

[2]   Nel 520 d.C., all’arrivo di Bodhidharma (circa 470-543) in Cina, considerato il primo Patriarca di ciò che diventerà lo Zen, il buddhismo era studiato e praticato da oltre quattrocento anni. Pure, solo con Hui-Neng, Eno (638-713), Sesto Patriarca, l’insegnamento attecchì rigoglioso.

[3]   E qui è tristemente in opera l’amnesia nei confronti, per esempio, della dialettica coincidenza dei contrari propria di Eraclito. Il nesso amo o non amo appartiene, difatti, a quel che questa coincidenza è divenuta nella storia cristiana, ad eccezione dell’esperienza dei mistici che, a procurar scandalo, a tutte le latitudini ha rimesso in scena proprio quella coincidenza. È del resto la nostra stessa esperienza esistenziale a suggerirci che, in effetti, amo e non amo.

[4]   https://www.zendoccidente.org/approfondimenti/

[5]  Meister Eckhart, Prediche, Mondadori, Milano 1995, pp.11-15.

[6]  Giorgio Colli, La sapienza greca – vol. III- Eraclito, Adelphi, Milano 1980, p. 21.

[7]   Marco Vannini, Il volto del dio nascosto, Mondadori, Milano 1999, p.45.

[8]   Jacques Brosse, I maestri zen, Edizioni Borla, Roma 1999, p. 200.

[9]   Giuseppe Jiso Forzani, Eihei Doghen, Il profeta dello Zen, Centro editoriale dehoniano, Bologna 1997, p.56.

[10]   https://www.zendoccidente.org/le-nostre-pubblicazioni/

 

A proposito di grano e di pula

Tre commenti a margine della recente pubblicazione di Mauricio Yūshin Marassi e Giuseppe Jisō Forzani "La genesi delle religioni del Giappone", 2022, edita a cura della Comunità buddista zen italiana Stella del Mattino.

A PROPOSITO DI GRANO E DI PULA blog - 1

A PROPOSITO DI GRANO E DI PULA blog - 2

A PROPOSITO DI GRANO E DI PULA blog - 3

Epicuro di Samo 

Epicuro di Samo, maestro zen.
di Salvatore Shogaku Sottile 
Vicenza, Aprile 1999
Riveduto Gennaio 2016

 
 ... il tempo di Epicuro è straordinariamente simile al nostro; e l’epicureismo si chiama oggi  buddhismo.
(Innocenti, Epicuro, La Nuova Italia)

Della scienza della natura non avremmo bisogno, se sospetto e timore delle cose dei cieli non ci turbassero, e non temessimo che la morte possa essere per noi qualcosa, e non ci nuocesse il non conoscere i limiti dei dolori e dei desideri

(Massime capitali, XI)

Epicuro all’amico Idomeneo:
Era il giorno beato e insieme l’ultimo della mia vita quando ti scrivevo questa lettera. I dolori alla vescica e dei visceri erano tali da non poter essere maggiori; eppure a tutte queste cose si opponeva la gioia dell’anima per il ricordo dei nostri passati ragionamenti filosofici. Tu ora, come si conviene alla tua buona disposizione, fin da giovinetto, verso me e la filosofia, abbi cura dei figli di Metrodoro.

(Diogene Laertio, Vita Epic., 15)
 
Notizie
Epicuro nasce, a Samo, nel 341 a. C.
Platone è morto da sei anni e Aristotele ha da poco superato i quaranta anni.
Ventitré secoli ci separano dalla nascita di quest’uomo mite che con la sua dottrina influenzò non solo la sua Grecia ma - e in modo non superficiale - s’insinuò fin dentro il cuore stesso dell’impero di Roma.
Quando Epicuro fonda la sua scuola, ad Atene, nel 306 a. C., Atene non è più la stessa. Non è più la stessa l’intera Grecia, a dire il vero, tanto che guarnigioni straniere - i luogotenenti di Alessandro, morto nel 323 - son lì per disputarsi ferocemente il suo impero (nota1).

Se questo è il contesto storico e politico cui, necessariamente, Epicuro corrispose (nota2) qualcosa è necessario dire sulla diffusione che ebbe l’epicureismo, senza la quale poco si capirebbe dell’ostracismo che gli fu opposto.
Scrive Angelo Maria Pellegrino, lapidario: Un pensiero che, contrariamente a tanti altri, non ha mai fatto e non può fare male a nessuno… Uno fra i pensatori più amati e odiati di tutti i tempi, senz’altro il più mistificato, equivocato, vilipeso, il cui pensiero è come un incubo nella storia del cristianesimo (nota3).
L’epicureismo si diffuse in tutto il bacino del mediterraneo… diffondendo la cultura da Atene al mondo antico, coi nuovi e più fiorenti centri di Pergamo, Antiochia, Rodi, Alessandria…
Ma fu soprattutto Roma a esserne conquistata.
L’epicureismo vi fu conosciuto probabilmente quando il suo fondatore era ancora vivo, ma è soprattutto nel I secolo a. C. che si diffonde tra i Latini… Nelle opere in cui Cicerone tratta di problemi connessi con la filosofia, si trovano continui riferimenti all’epicureismo che testimoniano l’importanza che tale dottrina doveva avere in quel tempo.
Ed è proprio l’epicureismo che dà vita ad una delle più belle opere della lingua latina, il De rerum natura di Lucrezio (nota 4).
Epicuro muore nel 270 a. C., all’età di settantuno anni. E muore, come abbiamo detto, chiamando quel suo ultimo giorno, questo giorno beato.
Ecco cosa scrive Diogene Laertio per l’occasione: ... Morì di calcoli renali dopo quattordici giorni di malattia, come scrive Ermarco nelle lettere. Ermippo riferisce che Epicuro in punto di morte, entrato in una tinozza di bronzo piena di acqua calda, chiese del vino puro e lo bevve d’un fiato.
Dopo aver raccomandato agli amici di non dimenticare il suo pensiero spirò.

I. Una nobile coincidenza
L’idea che mi dirige è la seguente: mettere in circolo il nostro essere greci (filosoficamente parlando) e praticanti del Dharma insieme, indagando una dottrina - quella epicurea - che presenta forti analogie con quella Zen.

NOTE

  1. Le conquiste di Alessandro e le successive guerre dei Diàdochi sconvolgono il mondo. Le piccole città greche non possono più nutrire alcuna speranza di grandezza, avendo perduto, con l’autonomia, il diritto di decidere della pace o della guerra.. Nell’Atene del V e IV secolo, ogni cittadino, in un certo senso, era principe… Però, da Cassandro, e soprattutto da Antigono II in poi, la Grecia ha ormai un solo padrone.  A.J. Festugière, Epicuro e gli dèi, Coliseum 1987, pag. 2.
 2. Colui che vuole essere indipendente dagli uomini e dalla Fortuna deve imparare a badare a sé stesso. Il saggio del III secolo è un essere che “basta a sé stesso” (autàrkes)… Al di là della scuola di appartenenza, Cinismo, Stoà o Giardino, questi sono i tratti comuni ai saggi ellenistici.  A.J. Festugière, Epicuro e gli dèi, Coliseum 1987, pag. 4.
 3. A cura di Angelo Maria Pellegrino, Epicuro, Lettera sulla felicità, Stampa Alternativa, 1992
 4. Jean Brun, Epicuro, Xenia, 1996, p.20-21 


Haiku

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Inverno

Pianta da frutto, 
gelo sui tuoi rami, 
gemma riposa.

Nube dorata, 
in piena fioritura
un calicanto.  

Cambio di scena, 
biancore improvviso. 
Solitudine.
 
Terra che dorme, 
pulviscolo d’acqua. 
Volo radente. 

Tuoni di vento, 
era notte d’inverno. 
Cuore fermo: Ah! 

E' capodanno! 
Lumina falce luna. 
Chiama i morti.

Ramo vermiglio, bordato di bianco. 
Sembri festoso.

Anno che viene, 
cuore vecchio di un anno. 
Oh! Meglio di no. 

Duemila e 12! 
Agli svitati del dojo
il mio inchino.

Io e le stelle. 
A Gorgia un buon anno, 
e poi, dormire.  

Alto sul ramo, 
solo, canta felice 
il cucabarra.  

Di domenica, 
il Sole ventiquattro 
ore, io compro..

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Primavera

Fan capolino
di lato al cancello,
timide viole.

Boccioli rosa
 inondati di luce.
Vento li scuote.

Fronde e voci
nell’albero verde.
Unico suono.

Giro intorno,
seduto sui miei passi.
Eppure chiaro.

Foglie e fiori
ha messo questa notte
l’antico pero.

Petali rosa
alla brezza del mattino
sparge il pesco.

Antro melmoso,
mi lascio sprofondare.
Gesto audace.

Sulla scarpata,
il vento accarezza
gialle primule.

Alba annuncia
variopinta natura.
Unico colore.
 
Riva di fiume.
Su ogni filo d’erba
gemma lucente.

Nube rosata,
un pruno è fiorito
questa mattina.

Corso zen Vicenza

Estate

Raggio lucente 
spaccato di nuvole 
subito chiuso. 

Gioco di bimbo
quaderno ormai scritto:
cancella tutto.  

Alti nel cielo 
aironi in volo. 
Vita che vive.

Vola leggera
tra papaveri rossi 
bianca farfalla. 

In questo stagno 
tra acque limacciose 
fiori di loto.  

Caldo torrido
trenta gradi all’ombra.
Cola sudore..

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Autunno

Umida nebbia
avvolge ogni cosa.
Prendi la mano.

Brina tra i rami.
Mi osserva furtivo
un pettirosso.

Dopo la pioggia,

timido vento accarezza
pallide foglie.
 
Gocce di pioggia
chiacchierano felici
sulla macchina.

Brina sui tetti.
Spazi addormentati,
freddo intenso.

Colore tenue,
orizzonte velato,
luci accese.

corso meditazione zen Vicenza

Senza tempo

Acqua che bolle,
fruscio sul tatami.
Cuore che piange.

E dopo zazen,
 un bicchiere di vino.
 Notte attesa.

Passo col verde? 
 Incrocio solo gambe? 
 Rivoluzione!

 Teo nella terra 
 sogna rudi carezze. 
 Tendo la mano.

Suona campana. 
 Alleluia era un uomo, 
 suona campana.

Passi leggeri
 in spazi naturali.
 Senza parole.

seminario meditazione zen Vicenza

Senza tempo

Teo tra le foglie 
 guarda Gorgia, lo chiama: 
 ti faccio strada.

Incenso brucia, 
 nella mente di Buddha. 
 Chiamo mio padre!

Brindo al giorno,
 galleggiano sogni. Oh!
 Falco già vola.

Stolti commenti. 
 Ma saggia pazienza, 
 asino insegna.

Note di sax su 
 vetri opachi di freddo
 Calda musica.

Lacrime cera
 domani saranno le
 candele rosse.

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